"Caffè Zibaldone"

GENOVA per VOI

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    Eugenio Montale



    Eugenio_Montale



    Genovesissimo, ossia "stundàiu". Nessuno è stato ligure e genovese, pregi e difetti - agro, renittente, individualista e stundàiu -, come lui.
    *stundàau: parola intraducibile che vale per lunatico, originale un po' bisbetico ma non del tutto antipatico né cattivo.

    Montale, Eugenio. - Poeta italiano (Genova 1896 - Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il "male di vivere" si esprime attraverso la corrosione dell'Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una 'poetica dell'oggetto': il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un'evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l'irripetibile singolarità dell'esperienza.

    VITA E OPERE
    Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l'ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un'intensa attività di traduttore, soprattutto dall'inglese (da ricordare il suo contributo all'antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d'azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione/">fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d'informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).

    Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il "male di vivere" discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell'epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un'evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.

    Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di "correlativo oggettivo" e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all'origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un'imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell'enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l'aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l'irripetibile singolarità dell'esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e "parlato" si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L'ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l'avvio da Satura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un'ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del '71 e del '72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest'ultima già anticipata nell'ed. critica complessiva, L'opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.

    Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l'esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l'ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l'aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai "bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe" riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l'altro il "lancio" italiano di Svevo (sulla rivista L'esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell'epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un'ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).

    Ossi di Seppia

    Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l'affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza: in una delle liriche, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Lo stesso titolo dell'opera designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta ad un oggetto inanimato, privo di vita. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l'uomo, che con l'età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale.

    In tal modo Montale capovolge l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina" manzoniana. La prima raccolta di Montale uscì nel giugno del 1925 e comprende poesie scritte tra il 1916 e il 1925. Il libro si presenta diviso in quattro sezioni, a loro volta organizzate al loro interno: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre; a questi fanno da cornice una introduzione (In limine) e una conclusione (Riviere).

    Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un'epoca che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta della vita e dell'uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del poeta, da un paesaggio, come quello della Liguria, per esprimere temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana. Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi negativa del presente ma anche la non rassegnazione, l'attesa di un miracolo.

    L'emarginazione sociale a cui era condannata la classe di appartenenza, colta e liberale, della famiglia, acuisce comunque nel poeta la percezione del mondo, la capacità di penetrare nelle impressioni che sorgono dalla presenza dei paesaggi naturali: la solitudine da "reclusione" interiore genera il colloquio con le cose, quelle della riviera ligure, o del mare. Una natura "scarna, scabra, allucinante", e un "mare fermentante" dal richiamo ipnotico, proprio del paesaggio mediterraneo. Il manoscritto autografo di Ossi di seppia è conservato presso il Fondo Manoscritti dell'Università di Pavia.

    Non Chiederci La Parola

    Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
    l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
    lo dichiari e risplenda come un croco
    perduto in mezzo a un polveroso prato.

    Ah l'uomo che se ne va sicuro,
    agli altri ed a se stesso amico,
    e l'ombra sua non cura che la canicola
    stampa sopra uno scalcinato muro!

    Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
    sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
    Codesto solo oggi possiamo dirti,
    ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.



    Le occasioni

    In Le occasioni (1939) la poesia è fatta di simbolo di analogia, di enunciazioni lontane dall'abbandono dei poeti ottocenteschi. Il mondo poetico di Montale appare desolato, oscuro, dolente, privo di speranza; infatti, tutto ciò che circonda il poeta è guardato con pietà e con misurata compassione. Simbolica la data di pubblicazione, 14 ottobre 1939, poco dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Il fascicolo di poesie è dedicato a una misteriosa I.B, iniziali della poetessa e dantista americana Irma Brandeis, di origini ebraiche e perciò costretta a rimpatriare dopo la promulgazione delle leggi razziali.

    La memoria è sollecitata da alcune "occasioni" di richiamo, in particolare si delineano figure femminili, per esempio la fanciulla conosciuta in vacanza a Monterosso, Annetta-Arletta (già presente negli Ossi), oppure Dora Markus, della omonima poesia: sono nuove "Beatrici" a cui il poeta affida la propria speranza.[16] La figura della donna, soprattutto Clizia (senhal di Irma), viene perseguita da Montale attraverso un'idea lirica della donna-angelo, messaggera divina. I tratti che servono per descriverla sono rarissimi, ed il desiderio è interamente una visione dell'amore fortemente idealizzata, che non si traduce necessariamente in realtà.

    Nel contempo il linguaggio si fa meno penetrabile e i messaggi sono sottintesi, e anche se non di un ermetismo irrazionale, espressione di una sua personale tensione razionale e sentimentale. In Le occasioni la frase divenne più libera e la riflessione filosofica, molto presente nella poesia di Montale, diviene più vigorosa. Il poeta indaga le ragioni della vita, l'idea della morte, l'impossibilità di dare una spiegazione valida all'esistenza, lo scorrere inesorabile del tempo (Non recidere, forbice, quel volto).

    Non recidere, forbice, quel volto

    Non recidere, forbice, quel volto,
    solo nella memoria che si sfolla,
    non far del grande suo viso in ascolto
    la mia nebbia di sempre.

    Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
    E l'acacia ferita da sé scrolla
    il guscio di cicala
    nella prima belletta di Novembre.



    La bufera e altro

    Sono componimenti riguardanti temi di guerra e di dolore pubblicati nel 1956. Nel poeta ligure confluiscono quegli spiriti della "crisi" che la reazione anti-dannunziana aveva generato fin dai Crepuscolari: tutto ciò che era stato scritto con vena ribelle nel brulicante mondo poetico italiano tra le due guerre, in lui diventa possibilità di scoprire altre ragioni per essere poeti. Per quanto riguarda l'engagement tipico di quegli anni, non ce n'è alcuna traccia.

    Xenia e Satura

    Negli ultimi anni Montale approfondì la propria filosofia di vita, quasi temesse di non avere abbastanza tempo "per dire tutto" (quasi una sensazione di vicinanza della morte); Xenia (1966) è una raccolta di poesie dedicate alla propria moglie defunta, Drusilla Tanzi, amorevolmente soprannominata "Mosca" per le spesse lenti degli occhiali da vista[18]. Il titolo richiama xenia, che nell'antica Grecia erano i doni fatti all'ospite, e che ora dunque costituirebbero il dono alla propria moglie. Le poesie di Xenia furono pubblicate insieme alla raccolta Satura, con il titolo complessivo Satura, nel gennaio 1971. «Con questo libro - scrive Marco Forti nel risvolto di copertina dell'edizione Mondadori - Montale ha sciolto il gran gelo speculativo e riepilogativo della Bufera e ha ritrovato, semmai, la varietà e la frondosità, la molteplicità timbrica, lo scatto dell'impennata lirica e insieme la "prosa" che, già negli Ossi di seppia, costituirono la sua sorprendente novità.»

    Xenia (da satura)

    Dicono che la mia
    sia una poesia d'inappartenenza.
    Ma s'era tua era di qualcuno:
    di te che non sei più forma, ma essenza.
    Dicono che la poesia al suo culmine
    magnifica il Tutto in fuga,
    negano che la testuggine
    sia più veloce del fulmine.
    Tu sola sapevi che il moto
    non è diverso dalla stasi,
    che il vuoto è il pieno e il sereno
    è la più diffusa delle nubi.
    Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
    imprigionata tra le bende e i gessi.
    Eppure non mi dà riposo
    sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.




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    Basilica di Santa Maria Assunta



    Genova02_flickr



    La basilica di Santa Maria Assunta di Carignano è un edificio religioso di Genova.

    La chiesa, che svetta con la sua mole armoniosa al culmine della collina di Carignano, è una delle più note opere genovesi di Galeazzo Alessi e uno dei maggiori esempi di architettura rinascimentale della città.

    Già chiesa gentilizia della famiglia Sauli divenne in seguito abbazia, collegiata e basilica minore. La sua comunità parrocchiale fa parte del vicariato "Carignano-Foce" dell'arcidiocesi di Genova.

    Per la sua posizione preminente è ben visibile da molte parti della città, sulla quale si affaccia con quattro prospetti identici, anche se oggi parzialmente nascosti da moderni edifici.

    Iniziata intorno alla metà del Cinquecento, la sua costruzione si protrasse fino all'inizio del secolo seguente, ma i lavori continuarono anche nei secoli successivi, per questo nel linguaggio popolare divenne proverbiale l'espressione "A l'è comme a fabrica de Caignan" ("è come la fabbrica di Carignano") per indicare un'impresa interminabile.
    numentale

    L_Architecture_de_la_Renaissance_-_Fig._23



    La chiesa fu realizzata per volontà del patrizio genovese Bandinello Sauli, che con la sua disposizione testamentaria del 17 ottobre 1481 creava un apposito fondo presso il banco di S. Giorgio. Fu però soltanto quasi settant'anni dopo, il 7 settembre 1549, che gli eredi di Bendinello Sauli mediante una convenzione affidarono l'incarico all'architetto perugino Galeazzo Alessi, che si trovava a Genova da un anno.

    La posa della prima pietra avvenne, presente il vicario generale dell'arcivescovado monsignor Egidio Falcetta, il 10 marzo 1552. Nel 1555 erano quasi pronte le mura perimetrali, nel 1560 l'edificio fu parzialmente coperto, e già nel 1564 la chiesa cominciò ad essere officiata, anche se la prima messa solenne vi sarebbe stata celebrata solo nel 1588.

    L'Alessi, trasferitosi a Milano nel 1556, mantenne la direzione del progetto e dei lavori, avvalendosi della collaborazione di noti architetti locali tra i quali Bernardino Cantone, Angelo Doggio, Bernardo Spazio e Domenico Ponzello, con i quali intrattenne una fitta corrispondenza, oggi conservata nell'archivio storico della basilica.

    La "fabbrica" rimase aperta per più di cinquant'anni: la cupola fu terminata solo nel 1603, trent'anni dopo la morte del progettista.[2] Nel frattempo, il 13 giugno 1583, papa Gregorio XIII con un "motu proprio" ne aveva decretato l'erezione in collegiata ed abbazia. Sarebbero trascorsi ancora quasi novant'anni prima che un altro pontefice, Alessandro VIII, concedesse all'abate il privilegio di celebrare pontificali (27 agosto 1690); nel 1742 con una bolla di Benedetto XIV alla chiesa fu conferito lo status di parrocchia, ma senza giurisdizione territoriale.

    Per creare un accesso scenografico alla chiesa tra il 1718 e il 1724 Domenico Sauli fece realizzare da Gerard De Langlad il ponte che, superando la valletta del Rivo Torbido, unisce i colli di Sarzano e di Carignano. Lo stesso Domenico Sauli nel 1737 fece realizzare il concerto di campane.

    La facciata fu sistemata una prima volta nel 1722 da Francesco Giovanni Baratta, che realizzò il portale d'ingresso, sul quale, in una cornice barocca, fu collocata la statua dell'Assunta, originariamente destinata all'altare maggiore.

    I lavori si protrassero ancora fino all'Ottocento e furono completati da maestranze locali, con il rifacimento totale della facciata su disegno dell'architetto Carlo Barabino; in questa circostanza furono realizzate anche le scalinate di accesso ai tre portoni della chiesa, già previste dall'Alessi.

    Una targa all'interno della chiesa ricorda che il papa Pio VII nel 1815 vi celebrò un solenne pontificale.

    Nella seconda metà dell'Ottocento, epoca particolarmente feconda per il cattolicesimo genovese, la canonica della basilica divenne luogo d'incontro per religiosi e uomini di cultura, su invito dell'allora abate mitrato Tommaso Reggio, futuro arcivescovo di Genova e beato: si ricordano in particolare Gaetano Alimonda (futuro cardinale) e Fortunato Vinelli, canonico della basilica e futuro primo vescovo di Chiavari.

    Soltanto in tempi più recenti, il 4 dicembre 1939, un decreto arcivescovile del cardinale Pietro Boetto ha trasformato la chiesa di Carignano in parrocchia territoriale; del 14 agosto 1951 è invece la consacrazione a basilica minore da parte del cardinale Giuseppe Siri. La basilica ha ancora oggi il titolo di parrocchia gentilizia dei marchesi Cambiaso Negrotto Giustiniani.

    Come chiesa parrocchiale del centro di Genova, la basilica di Carignano è stata luogo nel corso degli anni di importanti manifestazioni ecclesiastiche. Dal sagrato, recentemente restaurato, che si affaccia sull'ampia piazza di Carignano i genovesi hanno salutato spesso i propri morti illustri, come accadde negli anni settanta per alcune vittime del terrorismo degli anni di piombo e nel gennaio 1999 per i funerali di Fabrizio De André, quando una grande folla si radunò davanti alla basilica per salutare il compianto artista.

    La chiesa ha pianta a croce greca, con una cupola centrale impostata su un alto tamburo a serliane e quattro cupolette agli angoli. Questa struttura, che non ha precedenti nella tradizione genovese, è ispirata al progetto per la basilica di S. Pietro elaborato da Giuliano da Sangallo. Caratteristica della chiesa sono i quattro prospetti identici su ogni lato, ciascuno coronato da un timpano e dotato di un proprio ingresso, tranne quello posteriore. Dei quattro campanili previsti dal progetto dell'Alessi solo due sono stati realizzati, in corrispondenza della facciata principale.

    L'interno, molto luminoso, è caratterizzato da pareti bianche, prive di affreschi, decorate solo da lesene con capitelli fitomorfi, che riprendono il motivo della decorazione esterna. Le volte, comprese quelle delle cupole, hanno il soffitto a cassettoni.

    All'incrocio dei bracci, che suddividono la chiesa in quattro parti uguali, si impongono le quattro grandi statue di santi poste nelle nicchie alla base dei pilastri della cupola centrale. L'altare maggiore, con la sua decorazione in bronzo, crea un netto contrasto con il bianco di pareti e soffitti. Nella chiesa sono diverse tombe di esponenti della famiglia Sauli, tra cui quella del doge Lorenzo Sauli, assassinato nel 1601.

    Genova-basilica_di_santa_maria_assunta-interno_n]



    Opere d'arte

    Facciata principale:

    Statua dell'Assunta di Claude David, terminata da Bernardo Schiaffino[4];
    Statua dei Santi Pietro e Paolo di Claude David.
    Nicchie nei pilastri della cupola:

    Statua del Beato Alessandro Sauli, a destra, di Pierre Puget;
    Statua di San Sebastiano (1668), a destra, di Pierre Puget;
    Statua di San Bartolomeo, a sinistra, di Claude David (1695);
    Statua di San Giovanni Battista, a sinistra, di Filippo Parodi (1667);
    Statue dei dodici apostoli e Dottori della Chiesa, lungo le pareti, del 1740, di Diego Carlone su disegno di Francesco Maria Schiaffino.
    Presbiterio e altare maggiore:

    Altare maggiore, in marmo e bronzo, opera dello scultore fiorentino Massimiliano Soldani (1700), con crocifisso in bronzo di Pietro Tacca (realizzato in luogo di quello commissionato in origine a Pierre Puget che non venne mai eseguito);
    Dipinto raffigurante Cenacolo e Fuga in Egitto, ai lati del presbiterio, di Giuseppe Palmieri.
    Navata destra:

    Dipinto raffigurante San Pietro che risana uno zoppo, nel primo altare, di Domenico Piola, datato tra il 1694 e il 1696;
    Dipinto raffigurante il Martirio di San Biagio, nel secondo altare, di Carlo Maratta, datato al 1680;
    Dipinti raffiguranti la Risurrezione di Cristo, di Aurelio Lomi e Annunciazione di Ottavio Semino, nel portale laterale del secondo altare;
    Dipinto raffigurante la Vergine fra i Santi Domenico, Ignazio e Rosa, nel terzo altare, di Paolo Gerolamo Piola;
    Dipinto raffigurante il Viatico della Maddalena, nel quarto altare, di Francesco Vanni;
    Navata sinistra:

    Dipinto raffigurante il Beato Alessandro Sauli che fa cessare una pestilenza, nel quinto altare, di Domenico Fiasella, datato al 1630 circa;
    Dipinto raffigurante la Pietà, nel sesto altare, di Luca Cambiaso, datato al 1571 circa;
    Dipinto raffigurante il Giudizio Universale, nel portale laterale del sesto altare, di Aurelio Lomi e Visione di San Domenico di Domenico Fiasella;
    Dipinto raffigurante la Madonna fra i Santi Carlo e Francesco d'Assisi, nel settimo altare, di Giulio Cesare Procaccini, datato al 1620 circa;
    Dipinto raffigurante San Francesco d'Assisi che riceve le stimmate, nell'ottavo altare, del Guercino.

    Sagrestia:

    Dipinto raffigurante la Sacra Famiglia, di Luca Cambiaso.

    Genova-basilica_di_santa_maria_assunta-interno_n

    Genova-basilica_di_santa_maria_assunta-dipinto_D



    L'organo monumentale

    Nella controfacciata, al di sopra della cantoria, è presente un organo a canne monumentale, realizzato fra il 1656 e il 1660 dal gesuita olandese Willem Hermans. Lo strumento, originariamente caratterizzato da uno spiccato stile barocco nord-europeo rarissimo in Liguria, venne pesantemante modificato da Camillo Guglielmo Bianchi fra il 1852 e il 1853 e dalla Ditta Lingiardi nel 1905.

    L'organo, attualmente, ha un'impostazione fonica di gusto romantico-ottocentesco.

    Organo_Hermans_Genova



    Tradizioni popolari
    Secondo una leggenda popolare, la decisione di far costruire una chiesa sulle alture di Carignano venne decisa nel 1478 quando la moglie del patrizio Bandinello Sauli, avendo chiesto ad una nobildonna della famiglia Fieschi di attenderla, ritardando di qualche tempo la celebrazione della messa nella vicina chiesa di Santa Maria in via Lata (gentilizia dei Fieschi), si sarebbe sentita rispondere: "Chi vuole dei comodi se li procuri a sue spese".

    Il rifiuto, accolto come un'offesa dai Sauli, avrebbe fatto nascere in loro il desiderio di costruire una propria chiesa gentilizia che superasse in bellezza quella dei Fieschi e così Bendinello Sauli nel 1481 lasciò un legato, stabilendo che il moltiplicato dei capitali iscritti alle Compere di San Giorgio fosse destinato alla costruzione della chiesa, il che avvenne solamente nel 1549[3], quando ormai la famiglia rivale, dopo la fallita congiura di Gianluigi Fieschi ai danni di Andrea Doria, era stata privata delle sue proprietà in Carignano.

    Secondo un'altra leggenda popolare, quando nel 1737 Domenico Sauli fece realizzare il concerto di campane, egli stesso avrebbe gettato nel crogiolo, durante la fusione, alcuni sacchi di monete d'argento per rendere il suono più armonioso.

    Citazioni
    Scrisse Charles de Brosses (erudito di Francia e prolifico autore di letteratura di viaggio) nelle sue Lettres familières sur l'Italie (1739-1740):

    « Arrivai a Santa Maria di Carignano, situata su una collina, attraverso un grande ponte di numerose arcate, lanciato, per comodità dei passanti, al di sopra di parecchie vie con case a otto piani. ... È un'architettura semplice e nobile, tutta bianca.
    Quattro grandi statue adornano il transetto. Il San Sebastiano del Puget è tra esse la migliore. Quanto ai quadri voglio ricordare una Maddalena di Guido, un Martire di Carlo Maratta, un San Francesco del Guercino, una Deposizione dalla croce di Cambiaso, un San Carlo di Piola e un San Domenico del Sarzana.
    Salimmo sulla cupola per una scala a chiocciola, che però non ha colonna centrale, giacché, invece di questa, c'è un grande foro cilindrico dal basso fino in cima. Dall'alto della cupola si gode di una vista molto estesa sia sul mare che sulla città. »



    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

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    Edited by marmari - 4/9/2017, 21:58
     
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    Negli anni venti e trenta del 900 la città assiste a radicali mutazioni strutturali che la portano ad assumere progressivamente l’aspetto che ha oggi. La “Grande Genova”, ovvero l’unificazione amministrativa operata dal regime di tutti i comuni circostanti l’attuale centro cittadino, è il risultato di un processo cominciato molti anni prima.
    Già nell’Ottocento, con il riassetto urbanistico progettato da Carlo Barabino, emerge la necessità di allargare i confini cittadini per far spazio a nuove infrastrutture e zone residenziali destinate al ceto medio. La Genova borghese si espande in collina mentre i ceti meno abbienti si insediano nel Centro Storico, così i nuovi interessi edilizi iniziano a ricadere sulle aree periferiche, dove gli ampi spazi edificabili assicurano la possibilità di espansione residenziale, oltre che, naturalmente, ottime prospettive di speculazione.
    Poiché a ponente esiste l’ostacolo naturale del promontorio di San Benignoe dei rilievi che circondano la Val Polcevera, e comunque il ponente è già interessato dal processo di industrializzazione, l’attenzione viene rivolta a levante, nella piana del Bisagno, ed è proprio qui che avvengono, nel 1873, le prime annessioni al Comune di Genova.
    I comuni coinvolti sono S.Martino e S.Francesco d’Albaro (zone di villeggiatura dei ricchi genovesi), la Foce (abitata per la maggior parte da agricoltori, pescatori, artigiani e operai che lavorano a Genova), S.Fruttuoso e Marassi (zona di lavandaie e orti) e Staglieno (le cui attività economiche son legate al cimitero).
    Compiuta l’annessione, i nuovi quartieri diventano reticoli ortogonali organizzati intorno a due direttrici principali: l’attuale Corso Buenos Aires, già via Minerva, che collega il centro alla collina di Albaro, e la sua perpendicolare Corso Torino-Corso Sardegna.
    Dopo la Prima Guerra, il governo Fascista, come detto, procede alla realizzazione della Grande Genova, che avviene in due fasi: la prima comporta l’annessione di 19 comuni limitrofi (da Voltri a S.Ilario sulla direttrice a mare e all’interno lungo le vallate del Polcevera e del Bisagno, con la città che passa da 335.000 a 580.000 abitanti), la seconda occupa tutti gli anni trenta e parte dei quaranta e opera un rinnovo urbano caratterizzato da soluzioni architettoniche ed edilizie tipiche del linguaggio fascista.
    Gli interventi nel centro cittadino, con il piano regolatore del 1930, mettono in pratica la capacità urbanistica del governo.
    Piazza della Vittoria è l’esempio più eclatante, con l’arco ai caduti e i grandi edifici che la contornano e sullo sfondo i due palazzi della Questura e del liceo D’Oria. La zona di piazza Dante assume il ruolo di centro direzionale e rappresentativo dell’immagine di grande città industriale con la costruzione degli edifici attuali tra cui il grattacielo Piacentini.
    Una delle trasformazioni più profonde è quella che riguarda la piana del Bisagno nella zona che va da Brignole alla Foce. Di proprietà militare, nell’Ottocento era usata per le esercitazioni, viene acquistata dal Comune che procede alla copertura del letto del torrente con la costruzione dell’attuale strada a doppia carreggiata. Inoltre, viene realizzata la nuova strada sopraelevata di S.Martino, oggi corso Gastaldi, che sostituisce la stretta e tortuosa via di S.Martino ormai insufficiente alla mole di traffico.
    A ponente lo sbancamento del promontorio di San Benigno cambia il volto della città. Da qui partono i lavori per la realizzazione della “strada camionale” – alternativa alla statale dei Giovi – che porta da Sampierdarena a Serravalle, oggi autostrada a7.
    Quest’ultima opera fornisce un’infrastruttura di indispensabile supporto al traffico che si origina dall’attività del porto, e inoltre assorbe un’ingente quantità di forza lavoro in un periodo critico legato alla crisi del ’29: oltre 27000 operai impiegati nella camionale, terminata in meno di tre anni, dall’ottobre 1932 al settembre 1935.

    Piazza della Vittoria
    L’opera nel suo complesso è la più significativa e ambiziosa realizzata nel periodo fascista a
    Genova. La piazza, situata tra via XX Settembre e corso Buenos Aires, è costituita da un grande
    spazio rettangolare in cui domina al centro l’Arco dei Caduti, circondato da aiuole e giardini. Sui
    lati lunghi della piazza insistono otto palazzi disposti simmetricamente. Sul lato sud, come fondo
    prospettico, una spalliera verde che si raccorda alle Mura delle Cappuccine conclude il cono visivo.

    piazza-vittoria-caravelle



    Il progetto di sistemazione della piazza, inserito nel contesto di un più vasto piano urbano, è opera
    dell’architetto Marcello Piacentini, vincitore del concorso bandito dal Comune nel 1923. I palazzi
    che si affacciano sulla piazza sono realizzati da vari architetti, anche se Piacentini resta il vero
    protagonista dell’intera operazione urbana. Il primo edificio della piazza realizzato in ordine di
    tempo negli anni 1929-1936 dall’architetto Cristoforo Ginatta, è il palazzo “Nafta” situato in
    corrispondenza dell’angolo nord-ovest. La sua importanza risiede nel fatto che costituisce il
    riferimento normativo per gli altri edifici che saranno costruiti successivamente. Occorre ricordare
    tuttavia che sarà il palazzo dell’INFPS (Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale),
    costruito negli anni 1936-1938 da Marcello Piacentini nell’angolo opposto di nord-est, a rappresentare il modello architettonico di riferimento. Relativamente agli altri edifici (i palazzi
    d’angolo lato sud e quelli centrali) sono progettati alla fine degli anni trenta dall’architetto
    Beniamino Bellati (lato ovest) e dall’architetto Giuseppe Tallero (lato est).
    Tutti gli edifici della piazza sono collegati da un lungo porticato che si sviluppa senza soluzione di
    continuità, conferendo al complesso una straordinaria unitarietà. Tale unitarietà è ulteriormente
    evidenziata dal carattere monumentale delle architetture e dall’uso di materiali di pregio (marmo
    verde per la pavimentazione, travertino come materiale di rivestimento delle facciate), che
    conferiscono all’intero complesso architettonico un’aura quasi metafisica.
    Arco dei Caduti
    Situato al centro di piazza della Vittoria, la costruzione dell’Arco dei Caduti segue un lungo iter. A
    seguito del concorso nazionale bandito dal Comune di Genova il 9 maggio del 1923, Marcello
    Piacentini risulta vincitore e viene incaricato della sua progettazione, che prende avvio due anni più
    tardi. Il cantiere dei lavori è avviato solo nel 1927 e terminato nel 1930.
    L’edificio diviene il perno simbolico attorno al quale prende avvio la costruzione di piazza della
    Vittoria. Sul piano architettonico, il monumento ripropone i modelli celebrativi tipici dell’arco di
    trionfo romano. La struttura esibisce colonne e piloni che sostengono la cupola, mentre il vano
    centrale quadrato è circondato da porticati coperti da volte a vela.
    La destinazione celebrativa, che rappresenta le vicende della Prima Guerra Mondiale, è sottolineata
    dalla presenza della cripta-sacrario sotterranea recante i nomi dei Caduti genovesi, e valorizzata dai rivestimenti scultorei. Questi ultimi sono realizzati, per l’arco, da Arturo Dazzi, e per la cripta, da
    Edoardo De Albertis.​


    FOTO ANNI 30




    SULLO SFONDO LA STAZIONE FF.SS di BRIGNOLE


    AI NOSTRI GIORNI


    ARCO dei CADUTI


    le foto e la storia della costruzione di Piazza della Vittoria sono parte della collezione privata dell'architetto Riccardo Forte (mio conoscente)

    continua

    saluti
    Piero e famiglia
     
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    Via Garibaldi (Strada Nuova)



    Genova-_Genova-_DSCF7392



    Primo esempio di lottizzazione a livello europeo, Via Garibaldi presenta una unicità stilistica e di concezione che la rese già allora celebre internazionalmente. Pieter Paul Rubens ne studiò palazzi, e i suoi disegni contribuirono alla diffusione dello stile rinascimentale nel Nord dell'Europa.

    In realtà la costruzione iniziale fu quella di un nuovo quartiere abitativo per le grandi famiglie genovesi che abbandonarono i quartieri medievali per un inedito stile di vita basato su una minore contrapposizione. La costruzione dell'intero gruppo degli edifici durò circa quarant'anni e la realizzazione del progetto si deve alla ricchissima famiglia dei Grimaldi che acquisì anche l'area più estesa. La zona più malfamata della città venne trasformata nell'area più privilegiata e dal punto di vista costruttivo vennero risolti per la prima volta problemi edilizi collegati al costruire di costa, sopra il porto, un tale complesso di palazzi.

    Via Garibaldi venne progettata da Bernardino Cantoni, architetto del Comune di Genova e allievo di Galeazzo Alessi, del quale, per la sua documentata presenza a Genova in quel periodo, si può arguire che egli stesso influì in modo determinante sull'allievo; soprattutto per la concezione dell'opera che rivela la genialità di un grande artista, anche perché Bernardino Cantoni che nel Palazzo Cicala, costruito nel 1542 in Piazza dell'Agnello, mostra un fare disarmonico ed un gusto assai arcaicizzante, non poté raggiungere in così pochi anni una maturità così alta e completa che invece mostra l'allora chiamata Strada Nuova. Via Garibaldi è una delle principali strade di Genova e una delle maggiori dell'intero centro storico sotto l'aspetto architettonico per l'impatto magnificente dei suoi palazzi, alcuni dei quali inclusi negli appositi Rolli.

    La strada ha un preciso anno di nascita: il 1550. Originariamente strada Maggiore, poi strada Nuova, fino all'Ottocento era conosciuta con il nome di via Aurea. Madame de Staël le attribuì un nome ancor più altisonante: quello di Rue des Rois, la via dei Re.
    Nel 1882 venne infine dedicata a Giuseppe Garibaldi.

    È completamente in rettilineo, con una leggera pendenza, ed è lunga 250 metri, con una larghezza di 7,5 metri; nacque proprio come strada di rappresentanza. Molte le testimonianze su questa Via lasciate da visitatori celebri succedutisi nel tempo e tra queste particolarmente significativa quella di Cesare Brandi che nel dopo-guerra si espresse autorevolmente per la sua riqualificazione

    Dal 13 luglio 2006 è inserita - insieme a tutto il sistema dei Rolli, fra i Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

    Carte_de_G_nes_centre



    Una targa posta in inizio di arteria, definisce la via come il modello di identità sociale ed economica che ha inaugurato l'architettura urbana di età moderna in Europa.

    Secondo la motivazione con cui l'UNESCO l'ha inserita fra i patrimoni mondiali dell'umanità, l'influsso che questo patrimonio urbanistico e architettonico ha esercitato, tanto da diventare esempio e riferimento per molti paesi, è al tempo stesso testimonianza di una città - la Genova seicentesca - che seppe raggiungere la vetta della potenza politica ed economica in campo continentale.

    Si legge nella targa:

    « [La via] conserva spazi urbani di epoca tardo rinascimentale e barocca, fiancheggiati da oltre cento palazzi di famiglie nobiliari cittadine. »
    Nel cortile interno di Palazzo Rosso - come anche nel giardino pensile di Palazzo Doria Tursi - si svolgono periodicamente rappresentazioni teatrali e concerti. In via Garibaldi oggi hanno sede - oltre a molti uffici pubblici e privati e a diversi istituti bancari nazionali ed esteri - due fra le principali pinacoteche e quadrerie cittadine - Palazzo Rosso e Palazzo Bianco - che assieme al Palazzo Doria Tursi, sede del Comune, costituiscono i Musei di Strada Nuova.

    601px-26092015-_DSC_3542



    La via fu edificata nella seconda metà del XVI secolo - quello che passerà alla storia come El siglo de los Genoveses, il secolo dei Genovesi - per volere dell'aristocrazia locale, che intendeva in tal modo avvicinare maggiormente al mare, rispetto alle zone collinari in cui era situato fino ad allora, il proprio quartiere residenziale.

    La progettazione e la realizzazione della maggior parte dei suoi edifici si protrasse per circa quarant'anni, fino al 1588.

    L'originario nome di Strada Maggiore lasciò presto il posto a quello di Strada Nuova senza che l'arteria perdesse il suo forte significato simbolico di segno tangibile dell'orgoglio di quella che all'epoca era l'indiscussa predominanza della città, giunta al suo apogeo come Repubblica marinara e sovrana sull'intera area del mar Mediterraneo.

    Questa l'esauriente - e suggestiva - descrizione che ne dà Charles Dickens nel suo scritto del 1843 Immagini d'Italia:

    « La vidi la prima volta sotto il più fulgido e il più intensamente turchino dei cieli estivi, che le sue due file raccostate di dimore immense riducevano a una striscia preziosissima di luce, restringentesi gradatamente, e contrastante con l'ombra grave di sotto! ... Gl'infiniti particolari di questi ricchi palazzi, i muri di alcuni dei quali son popolati all'interno dalle figure dei capolavori dipinti dal Van Dyck; i grandi balconi pesanti di pietra, disposti a file una sopra l'altra, fra i quali ve n'è, qua e là, uno più ampio, che torreggia su in alto, come un vasto ripiano di marmo; i vestiboli senza portone; le finestre del pianterreno munite d'inferriate massicce; gl'immensi scaloni aperti alla vista del pubblico; i grossi pilastri di marmo; le robuste arcate, simili a quelle d'una prigione, e le tristi stanze a volta, che ripetono l'eco e ci fanno fantasticare; fra i quali tutti lo sguardo vaga di nuovo, ogni volta che ad un palazzo ne succede un altro; le terrazze tenute a giardino, fra edifizio ed edifizio, con le viti che formano arcate verdi, coi boschetti d'aranci e con gli oleandri fioriti, a venti, trenta, quaranta piedi al di sopra della strada, le stanze d'ingresso dipinte , con le pareti e il soffitto macchiati, infradiciati e scrostati negli angoli per l'umidità, e tuttavia splendide per i bei colori e per i disegni voluttuosi, perfettamente conservati dove i muri sono asciutti; le figure sbiadite, dipinte sui muri esterni delle case in atto di sostenere ornamenti e corone, di volare in alto o in basso, o ritte dentro le nicchie, in qualche punto apparentemente ancor più scolorite e malandate che altrove, pel contrasto che fanno con alcuni amorini dipinti da poco, su una parte della facciata restaurata di recente, i quali sono occupati a distendere ciò che sembrerebbe una sottocoperta, ma che invece è la mostra d'una meridiana; le salite ripidissime fiancheggiate da palazzi più piccoli (che con tutto ciò son palazzi molto grandi) con terrazze di marmo che danno in vicoli stretti... »

    ia Garibaldi ha alcuni tra i più eleganti e sfarzosi palazzi di Genova. Una planimetria della via - con la rappresentazione prospettiva dei suoi edifici - fu realizzata da Pieter Paul Rubens.

    Noack_Alfred_1833-1895_-_n._3026_-_Genova_Via



    Da piazza Fontane Marose in direzione di piazza della Meridiana questi - alternati da destra a sinistra - sono i principali:
    - Palazzo Pallavicini Cambiaso
    - Palazzo Pantaleo Spinola o Palazzo Gambaro
    - Palazzo Lercari Parodi
    - Palazzo Carrega Cataldi o Palazzo Tobia Pallavicino
    - Palazzo Angelo Giovanni Spinola
    - Palazzo Gio Battista Spinola
    - Palazzo Podestà
    - Palazzo Cattaneo Adorno
    - Palazzo Doria Tursi (sede del Comune)
    - Palazzo Campanella o delle torrette
    - V Brignole Sale o Palazzo Rosso
    - Palazzo Bianco

    Di questi ricchissimi edifici parleremo le prossime volte


    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    Continua....
     
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    BENEDETTO XV - IL PAPA GENOVESE



    Papa_Benedetto_XV_1



    Giacomo Della Chiesa, che diverrà Papa col nome di Benedetto XV, nasce a Genova il 21 novembre 1854, terzo di quattro figli, dal marchese Giuseppe (appartenente ad una famiglia patrizia le cui origini vengono fatte risalire ai tempi di Sant’Ambrogio) e dalla marchesa Giovanna Migliorati.

    Studente esterno presso il Seminario della sua città, a quindici anni esprime il desiderio di avviarsi al sacerdozio, ma il padre glielo vieta: «Ne riparleremo quando avrai ultimato gli studi laici ». È così che il 2 agosto 1875 il giovane Giacomo si laurea in giurisprudenza e, con il consenso paterno, entra nel Collegio Capranicense di Roma, da dove esce sacerdote il 21 dicembre 1878. Ammesso all’Accademia pontificia dei Nobili ecclesiastici, dove vengono preparati al servizio diplomatico della Santa Sede i giovani appartenenti a famiglie patrizie, nel 1883 parte per Madrid con le funzioni di segretario del Nunzio Mariano Rampolla del Tindaro, con il quale rientra nel 1887 allorché l’insigne legato viene creato Cardinale e nominato Segretario di Stato di Leone XIII. Minutante e sostituto alla Segreteria di Stato, prima con il Rampolla e successivamente con Rafael Merry del Val, il sacerdote Della Chiesa adempie i proprî compiti con assoluto impegno, dedicandosi anche all’insegnamento della diplomatica presso l’Accademia pontificia dei Nobili ecclesiastici, dove era stato alunno.

    Consacrato Vescovo da Pio X nella Cappella Sistina il 22 dicembre 1907, monsignor Della Chiesa viene destinato a guidare la diocesi di Bologna, dove giunge inaspettatamente la sera del 18 febbraio 1908. Con il fervore che gli è proprio — da più parti è stato definito « l’uomo del dovere » — l’Arcivescovo succeduto al Cardinale Domenico Svampa si dedica al ministero pastorale con una cura indefessa e con una sensibilità eccezionale, tanto che il 25 maggio 1914 viene elevato alla porpora. Ma meno di tre mesi dopo, il 20 agosto, a seguito di un attacco di broncopolmonite, muore Pio X.

    Sono giornate drammatiche. Il mondo è sconvolto. Il 28 luglio l’Austria- Ungheria ha dichiarato guerra alla Serbia e, per parte propria, la Germania ha dichiarato guerra l’1 agosto alla Russia e il 3 agosto alla Francia. Il 4 agosto le truppe tedesche, per attaccare la Francia, invadono il Belgio neutrale e nello stesso giorno la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania. Quasi tutta l’Europa, praticamente, è impegnata in operazioni belliche.

    Nell’angoscioso frangente che vede tanti popoli militarmente contrapposti, chi può salire sul trono di Pietro se non un uomo che conosca appieno i problemi dei Governi e delle Società in lotta, un uomo che per diversi lustri aveva operato con il Rampolla e il Merry del Val? È così che dal Conclave riunitosi il 31 agosto viene eletto Papa — fatto assolutamente straordinario — un porporato nominato Cardinale da soli tre mesi: Giacomo Della Chiesa che — nel ricordo di Prospero Lambertini, che lo aveva preceduto quale Arcivescovo di Bologna e Pontefice della Chiesa — assume il nome di Benedetto XV. Poiché l’ora è tragica, il nuovo Papa non vuole che la solenne consacrazione pontificale avvenga nella mirabile grandezza della Basilica Vaticana, ma nella Cappella Sistina. Troppi lutti, troppe lacrime straziano l’umanità, come egli stesso sottolinea nell’Esortazione Ubi primum che l’8 settembre indirizza « a tutti i cattolici del mondo »: « Allorché da questa vetta Apostolica abbiamo rivolto lo sguardo a tutto il gregge del Signore affidato alle Nostre cure, immediatamente l’immane spettacolo di questa guerra Ci ha riempito l’animo di orrore e di amarezza, constatando che tanta parte dell’Europa, devastata dal ferro e dal fuoco, rosseggia del sangue dei cristiani… Preghiamo e scongiuriamo vivamente coloro che reggono le sorti dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell’interesse della società umana ».

    Il dramma della guerra — né poteva essere diversamente — è la costante angoscia che assilla Benedetto XV durante l’intiero conflitto. Fin dalla prima Enciclica — Ad beatissimi Apostolorum dell’1° novembre 1914 — quale « Padre di tutti gli uomini » egli denuncia che « ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti ». E scongiura Prìncipi e Governanti a considerare lo straziante spettacolo presentato dall’Europa: « il più tetro, forse, e il più luttuoso nella storia dei tempi ».

    Purtroppo, la sua reiterata invocazione alla pace, recuperata dal Vangelo di Luca — « Pace in terra agli uomini di buona volontà » — resta inascoltata. Quali i motivi? Egli stesso ne identifica i principali: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale divenuto unico obiettivo dell’attività dell’uomo.

    La difficile situazione della Santa Sede, « prigioniera » in Roma dopo il 20 settembre 1870, si aggrava quando il 24 maggio 1915 l’Italia, che si è mantenuta neutrale per quasi un anno, entra in guerra: gli Stati nemici dell’Italia ritirano i propri rappresentanti diplomatici accreditati presso il Vaticano e li trasferiscono in Svizzera. L’indomani, 25 maggio, scrivendo al Cardinale Serafino Vannutelli, Decano del Sacro Collegio, Benedetto XV esprime la propria amarezza per il fatto che la sua invocazione alla pace è finora caduta nel vuoto: « La guerra continua ad insanguinare l’Europa, e neppur si rifugge in terra ed in mare da mezzi di offesa contrari alle leggi dell’umanità ed al diritto internazionale. E quasi ciò non bastasse, il terribile incendio si è esteso anche alla Nostra diletta Italia, facendo purtroppo temere anche per essa quella sequela di lagrime e disastri che suole accompagnare ogni guerra ».

    Il successivo 28 luglio, ricorrendo il primo anniversario dello scoppio della guerra, egli indirizza a tutti i popoli belligeranti ed ai loro reggitori un’accorata esortazione perché si ponga termine all’« orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa». E nell’Allocuzione natalizia dello stesso 1915, diretta al Sacro Collegio Cardinalizio, condanna per l’ennesima volta l’anticristiano regresso della civiltà umana, che ha ridotto il mondo ad « ospedale ed ossario ».

    Il Pontefice, armato del massimo potere spirituale, è tuttavia impotente di fronte al conflitto che continua. Ma egli non desiste, e mentre si adopera a favore delle persone e delle regioni più colpite, inviando e stimolando soccorsi ai bimbi affamati, ai feriti e ai prigionieri, il 24 dicembre 1916, parlando al Sacro Collegio Cardinalizio, invoca ancora una volta « quella pace giusta e durevole che deve mettere fine agli orrori della presente guerra ». Invano: la tragedia continua sui campi della morte, ma anche Benedetto XV non cede e il 1° agosto 1917 invia ai capi dei popoli belligeranti quell’Esortazione, Dès le début, nella quale indica soluzioni particolari, idonee a far cessare l’« inutile strage ». L’espressione del Vicario del Principe della pace, evidentemente male interpretata, suscita più proteste che consensi. Mentre i pangermanisti la ritengono uno strumento diretto a strappare la vittoria dalle mani degl’Imperi centrali ormai lanciatissimi, in Italia e in Francia c’è chi la giudica addirittura al servizio della Germania e dei suoi alleati, tanto che Georges Clemenceau definisce Benedetto XV il « Pape boche » (il « Papa tedesco »). Sono le amarezze di chi guarda il mondo con occhio paterno!

    Qualche gioia, tuttavia, il Pontefice Della Chiesa ha potuto assaporare anche in quel periodo, quando con la Bolla Providentissima Mater del 27 maggio 1917 promulga il nuovo Codice di diritto canonico, già auspicato dal Concilio Vaticano e voluto da Pio X, e quando — particolarmente attento ai problemi delle Chiese orientali — con il Motu proprio Dei providenti del 1° maggio 1917 istituisce la Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale, e con il Motu proprio Orientis catholici del 15 ottobre 1917 fonda a Roma l’Istituto pontificio per gli studi orientali, con annessa una Biblioteca largamente dotata di opere specifiche.

    Altre gioie che appagano il suo spirito religioso gli derivano dalle omelie che egli stesso — Vescovo tra i suoi preti — dedica annualmente ai parroci e ai sacerdoti che predicheranno in Roma in occasione della Quaresima. Richiamandosi al messaggio che Gesù rivolse agli Apostoli — « Andate, predicate il Vangelo ad ogni creatura » — il Vescovo Benedetto raccomanda ai suoi collaboratori di mirare non tanto a correggere l’intelletto, quanto « a riformare il cuore. Anzi, la stessa correzione degli errori della mente deve essere ordinata al miglioramento della vita pratica degli uditori ». In ciò ispirandosi a San Paolo il quale, dopo aver parlato ai fedeli di Corinto, diceva che la sua predicazione non si basava soltanto su discorsi di umana sapienza.

    La fine della guerra, invocata incessantemente dal Pontefice e desiderata ormai non solo dai popoli ma anche da alcuni capi di Stato e di Governo, giunge finalmente nell’autunno del 1918. Benedetto XV, che tanto si è adoperato per mitigare i danni dell’immane flagello, continua ad impegnarsi a favore dei più colpiti, e con l’Enciclica Paterno iam diu del 24 novembre 1919 invita quanti hanno a cuore l’umanità ad offrire denaro, alimenti e vestiario, soprattutto per aiutare l’infanzia, la categoria più esposta.

    Ovviamente l’attenzione del Papa è dedicata anche ai lavori della Conferenza internazionale della pace — inaugurata a Parigi il 18 gennaio 1919 e destinata a concludersi con il trattato del 28 giugno 1919 — per il felice esito della quale, con l’Enciclica Quod iam diu dell’1° dicembre 1918, aveva invitato a pregare i cattolici di tutto il mondo, auspicando che i delegati adottassero decisioni fondate sui princìpi cristiani della giustizia.

    Consapevole dei compiti affidatigli al servizio delle anime di tutto il mondo, con l’Enciclica Maximum illud del 30 novembre 1919 Benedetto XV dedica la propria particolare attenzione all’eccelso lavoro svolto dai missionari che, a rischio talvolta della propria vita, sono chiamati a predicare il Vangelo ad ogni creatura. Esorta i banditori della parola divina a svolgere il loro arduo apostolato con tutto lo slancio che la carità cristiana consiglia, impegnandosi a preparare un clero indigeno in grado di amministrarsi autonomamente.

    Devoto alle grandi Figure che hanno onorato la Chiesa, in occasione di particolari celebrazioni illustra con analitici documenti la vita e la dedizione agl’ideali religiosi di personaggi che meritano di essere additati alla pietà di tutti: Margherita Maria Alacoque (Allocuzione Non va lungi del 6 gennaio 1918; Bolla Ecclesiae consuetudo del 13 maggio 1920); San Bonifacio (Enciclica In hac tanta del 14 maggio 1919); Giovanna d’Arco (Bolla Divina disponente del 16 maggio 1920); San Girolamo (Enciclica Spiritus Paraclitus del 15 settembre 1920); Efrem il Siro (Enciclica Principi Apostolorum del 5 ottobre 1920); San Francesco d’Assisi (Enciclica Sacra propediem del 6 gennaio 1921); Dante Alighieri (Enciclica In praeclara del 30 aprile 1921); Domenico di Guzman (Enciclica Fausto appetente del 29 giugno 1921).

    Benedetto XV, amareggiato per i rancori che dividono i popoli anche dopo la fine della guerra, si chiede come mai tante ostilità possano sopravvivere quando l’insegnamento di Cristo — e l’Enciclica Pacem, Dei munus del 23 maggio 1920 lo dice esplicitamente — afferma con chiarezza, da sempre, che tutti gli uomini della terra debbono considerarsi fratelli.

    Purtroppo, anche se le armi internazionali per lo più tacciono, gli odi di partito e di classe si esprimono con drammatica violenza in Russia, in Germania, in Ungheria, in Irlanda e in altri paesi. La sventurata Polonia rischia di essere travolta dagli eserciti bolscevichi; l’Austria « si dibatte tra gli orrori della miseria e della disperazione » scrive il Pontefice il 24 gennaio 1921, implorando l’intervento dei Governi che si ispirano ai princìpi di umanità e di giustizia; il popolo russo, colpito dalla fame e dalle epidemie, sta vivendo una delle più spaventose catastrofi della storia, al punto che — come annota Benedetto XV in un’Epistola del 5 agosto 1921 — « dal bacino del Volga molti milioni di uomini invocano, dinanzi alla morte più terribile, il soccorso dell’umanità ».

    Anche in Italia, dove sopravvivono fra lo Stato e la Santa Sede i contrasti nati a seguito degli scontri di Porta Pia del 1870, i gruppi politici sono in conflitto. Allo scopo di attenuarli — con encomiabile anticipazione sul Concordato Lateranense che verrà firmato l’11 febbraio 1929 — il Pontefice, parlando nel marzo 1919 alle Giunte Diocesane d’Italia, annulla di fatto il « non expedit » che, a seguito del decreto 10 settembre 1874 della Sacra Penitenzieria, vietava ai cattolici di partecipare alle elezioni e alla vita politica in genere. Prende corpo, di conseguenza, la speranza che i cattolici possano organizzarsi ufficialmente, tanto che il sacerdote siciliano Luigi Sturzo, appellandosi nel 1919 « ai liberi ed ai forti », può dar vita al Partito Popolare Italiano, e padre Agostino Gemelli può fondare a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore, confortato dal Papa con l’Epistola Cum semper Romani del 9 febbraio 1921.

    Ma la situazione rissosa, turbolenta e insanguinata che domina l’Italia impedisce a tutti i Partiti, compreso quello fondato da don Sturzo, di svolgere la loro attività liberamente e democraticamente. Benedetto XV ne è talmente afflitto e preoccupato che il 25 luglio 1921, con proprio chirografo, invita gli Italiani a recitare la preghiera O Dio di bontà, da lui composta, con la quale invoca il Signore e la Madonna a favorire la riconciliazione nazionale e la concordia nel paese « in cui più ha sorriso la pietà cristiana, e che è stato la culla di ogni gentilezza ». A tutti i fedeli, per ogni volta che reciteranno tale invocazione, verrà concessa l’indulgenza di 300 giorni.

    Solo una fede autentica ed illimitata può guidare l’azione del Papa Della Chiesa, chiamato ad operare in uno dei periodi più difficili e drammatici della storia umana. Ebbe pochissime soddisfazioni. Prima di morire constata con legittimo compiacimento che gli Stati accreditati presso la Santa Sede — quattordici al momento della sua elezione — sono saliti a ventisette. Ed apprende altresì che l’11 dicembre 1921 è stata inaugurata in una pubblica piazza di Costantinopoli una statua a lui dedicata, ai piedi della quale è scritto:

    benedetto



    « Al grande Pontefice
    dell'ora tragica mondiale
    Benedetto XV
    Benefattore dei popoli
    senza distinzione
    di nazionalità e di religione
    in segno di riconoscenza
    l’Oriente
    1914-1919 ».

    Colpito da broncopolmonite, cessa di vivere il 22 gennaio 1922.

    per approfondire, alcuni libri a lui dedicati:
    9788863721102c



    vinelli_benedettoxv_big

    FONTE: Libreria Editrice Vaticana
    le foto inserite sono a solo scopo storico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore
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    Prima di iniziare a presentare i palazzi della Via Nuova, devo fare una digressione e proporvi un altro argomento, anche se collegato ed introduttivo

    I rolli di Genova



    Genova-_DSCF7410



    I Rolli di Genova – o, più precisamente, Rolli degli alloggiamenti pubblici di Genova – erano, al tempo dell'antica Repubblica, le liste dei palazzi e delle dimore eccellenti delle nobili famiglie che ambivano a ospitare – sulla base di un sorteggio pubblico – le alte personalità in transito per visite di stato.

    In epoche successive, le medesime abitazioni hanno ospitato viaggiatori illustri che includevano il capoluogo ligure nei loro Grand Tour culturali o turistico-economici.

    I Rolli costituiscono un unicum dei palazzi più prestigiosi del centro storico genovese, specialmente lungo le antiche Strade Nuove (via Garibaldi, dove ha sede il Comune, già Via Aurea, e via Balbi, sede della cittadella universitaria).

    Storia

    Rolli



    I rolli - termine che corrisponde, in italiano moderno, a ruoli, cioè elenchi - vennero costituiti a partire dal 1576 su disposizione del Senato della Repubblica aristocratica rifondata dal principe e ammiraglio Andrea Doria, che attraverso la sua riforma costituzionale aveva instaurato il dominio oligarchico e il conseguente inserimento della sovranità genovese nell'orbita della Spagna.

    La minuziosità con cui i Rolli furono ideati e compilati, solo pochi decenni dopo la grande ristrutturazione urbanistica decisa da Doria - che riguardò in particolare fra il 1536 e il 1553 le mura trecentesche - costituisce ancora oggi una precisa e documentata testimonianza di quella che fu la Genova del "Secolo d'oro". Quella che era una città di armatori, mercanti e banchieri in grado di dare alla Repubblica marinara un ruolo di assoluta predominanza politico-commerciale sull'intero mar Mediterraneo, era anche un importante crocevia di prìncipi e sovrani, diplomatici e autorità ecclesiastiche.

    Tuttora conservati nell'Archivio di Stato di Genova, i Rolli degli alloggiamenti pubblici erano suddivisi in bussoli (bussolotti) in cui gli edifici erano catalogati in base al loro prestigio: il primo venne redatto nel 1576, e i successivi negli anni 1588, 1599, 1614 e 1664. In essi è catalogato l'insieme delle circa centocinquanta dimore che erano precettabili per ospitare i notabili; in buona parte sono palazzi ancor oggi esistenti, e sono gli stessi che hanno indotto ed inducono tuttora i critici a guardare alla Genova di allora come ad una «reggia repubblicana, vera contraddizione in termini, dietro a cui si spalancano orizzonti di storia abitativa e urbana, piuttosto che di sola architettura»
    Le dimore iscritte nei Rolli si dividevano in tre categorie in rapporto alle dimensioni, bellezza e importanza e venivano destinate in base a questi criteri a ospitare cardinali, prìncipi e viceré, feudatari, ambasciatori e governatori. Ad ogni categoria era riferito un corrispettivo bussolo con i nomi dei proprietari destinati a concorrere all'estrazione a sorte per sostenere oneri ed onori delle visite ufficiali.

    Solo tre erano i palazzi che potevano ospitare alti dignitari o comunque le più alte cariche ed erano le abitazioni di Gio Batta D' Oria, a salita Santa Caterina, di Nicolò Grimaldi e Franco Lercari in Strada Nuova, l'attuale via Garibaldi già "Via Aurea". Nelle disposizioni dei Rolli si precisava che tali abitazioni erano riservate a «Papa, Imperatore re e legato Cardinali o altro Principe».

    Scrive quasi trecento anni dopo Stendhal, quando l'uso dei Rolli era ormai caduto in disuso:

    « Ho cercato di andare a visitare tre gallerie di quadri famosi in via Balbi. Siccome i proprietari hanno la bella abitudine di abitare negli appartamenti dove sono i quadri, bisogna ripassare diverse volte; e spesso l'impazienza che desta in me il rifiuto altezzoso dei valletti mi toglie la gioia davanti ai quadri. I ricchi di Genova occupano quasi sempre il terzo piano per poter vedere il mare. I gradini delle scale sono di marmo ma quando, dopo aver salito cento di quei gradini, un valletto, dopo avervi fatto aspettare un quarto d’ora viene a dirvi: "sua eccellenza è ancora nella sua stanza, ripassi domani", è permesso avere uno scatto d'umore, soprattutto quando si deve ripartire la sera ... »
    (Stendhal, Memoires d'un touriste, 1837)
    Se il celebre scrittore non nasconde la sua stizza per la mancanza di ospitalità da parte di certo patriziato genovese, è altresì da notare come la consapevolezza di disporre di un patrimonio d'arte e urbanistico di assoluto valore fosse tale da indurre gli abitanti più potenti ed influenti della Genova di allora a organizzare un vero e proprio censimento dello status abitativo, non solo e non tanto per definirne inequivocabilmente i limiti di proprietà, ma anche per meglio organizzarne un adeguato utilizzo.

    Patrimonio UNESCO
    Il 13 luglio 2006 42 dei 114 palazzi che furono iscritti ai Rolli sono stati inseriti dalla speciale commissione UNESCO riunita a Vilnius (Lituania) fra i Patrimoni dell'umanità. Per il loro restauro sono stati spesi negli anni novanta circa 10 milioni di euro, con l'impiego di capitali pubblici e privati.

    Il 20 gennaio 2007 è stata posta dall'UNESCO a metà di via Garibaldi una targa con la motivazione che inserisce la serie dei Palazzi dei Rolli fra i patrimoni mondiali dell'umanità:

    « Le maggiori dimore, varie per forma e distribuzione, erano sorteggiate in liste ufficiali (rolli) per ospitare le visite di Stato. I palazzi, spesso eretti su suolo declive, articolati in sequenza atrio - cortile - scalone - giardino e ricchi di decorazioni interne, esprimono una singolare identità sociale ed economica che inaugura l'architettura urbana di età moderna in Europa »

    I palazzi

    Genova-_DSCF7470



    Oltre a quelli già citati per Via Garibaldi, abbiamo altri palazzi che troviamo nel tratto da Via Balbi (sede università) fino a Salita Santa Caterina

    Questi gli edifici dei Rolli inseriti fra i patrimoni dell'umanità UNESCO (compresi quelli di Via Garibaldi sono quarantadue)
    - Palazzo Doria Spinola
    - Palazzo Clemente Della Rovere
    - Palazzo Giorgio Spinola
    - Palazzo Tommaso Spinola
    - Palazzo Giacomo Spinola
    - Palazzo Negrone
    - Palazzo Paolo Battista e Nicolò Interiano
    - Palazzo Gerolamo Grimaldi
    - Palazzo Gio Carlo Brignole
    - Palazzo Bartolomeo Lomellini
    - Palazzo Lomellini Doria Lamba
    - Palazzo Giacomo Lomellini e De Marini Spinola
    - Palazzo Belimbau
    - Palazzo Durazzo Pallavicini
    - Palazzo Gio Francesco Balbi
    - Palazzo balbi Senarega
    - Palazzo Francesco Maria Balbi Piovera
    - Palazzo Reale
    - Palazzo Cosma Centurione
    - Palazzo Giorgio Centurione
    - Palazzo Gio Battista Centurione
    - Palazzo Mariano Pallavicini
    - Palazzo Nicolò Spinola di San Luca
    - Palazzo spinola di Pellicceria
    - Palazzo Gio Battista Grimaldi (Via San Luca)
    - Palazzo Gio Battista Grimaldi (Piazza San Luca)
    - Palazzo Stefano De Mari
    - Palazzo Ambrogio Di Negro
    - Palazzo Emanuele Filiberto Di Negro
    - Palazzo De Marini-Croce

    Oltre a questi esiste un altro lunghissimo elenco di quei palazzi altrettanto belli ed antichi che ancora conservano la loro struttura originaria non inseriti fra i patrimoni dell'umanità UNESCO.


    url=https://postimages.org/]Genova-_DSCF7464[/url]

    Genova-palazzo_Francesco_Maria_Balbi_Piovera-via



    le foto inserite sono a solo scopo storico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

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    UNA GITA FUORI PORTA - VOBBIA: IL CASTELLO NELLA PIETRA



    CastelloPietra-maxresdefault



    Il Castello nella Pietra di Vobbia, credo sia una costruzione unica nel suo genere, sopratutto per la sua "arditezza" tenuto conto del periodo storico nel quale è stato edifcato.
    Merita una visita e, per apprezzarlo fino in fondo, arrivandoci a piedi dopo una facile ed appagante escursione percorrendo un istruttivo e tematico sentiero nei boschi.


    UN PO DI STORIA

    Uno dei più straordinari edifici fortificati della Liguria, il Castello della Pietra può essere considerato il capolavoro dell’architettura castellana della Valle. Incastrato fra due scenografici torrioni di puddinga, come perfetto esempio di simbiosi con la natura, esso domina la stretta valle sottostante e a chi giunge da Isola del Cantone in prossimità dell’antico Ponte di Zan (che secondo la leggenda sarebbe stato costruito dal Diavolo) offre un notevole impatto visivo ed il maniero si manifesta in tutto il suo splendore.
    Scarsi sono i documenti relativi alla sua storia, probabilmente venne edificato intorno all’anno mille dai Vescovi di Tortona in funzione antisaracena, con lo scopo di proteggere la strada di fondovalle che collegava, già all’epoca, Vobbia ad Isola. Successivamente, forse attorno al 1050, il castello passò ai Marchesi di Gavi e poi ai Malaspina.
    Il primo documento che attesta l’esistenza di detto Castello è un atto di giuramento di fedeltà stipulato nel 1252 da due gentiluomini verso il loro signore, Opizzone della Pietra, proprietario del maniero. Sempre nel 1252 la fortezza fu coinvolta nel primo importante fatto d’arme, un assedio che vide come protagonista il sopraccitato Opizzone, tale vicenda fu narrata anche negli Annali del Caffaro.
    In seguito il castello passò agli Spinola e nel 1518 agli Adorno che ne furono proprietari fino al 1797, anno della soppressione dei Feudi Imperiali Liguri ed inizio della decadenza della fortezza.
    Nel 1919 il Castello venne acquistato dai Beroldo di Torre i cui eredi, nel 1979, lo donarono al Comune di Vobbia.
    Nel 1981 la Provincia di Genova iniziò i lavori di restauro conservativo, tali interventi ebbero innanzitutto lo scopo di bloccare il progressivo decadimento della struttura, vennero tolte le macerie e recuperati i reperti rinvenuti durante gli scavi effettuati dal Centro di Studi Storici per l’Alta Valle Scrivia.
    Nel 1994 il Castello fu aperto al pubblico.


    FOTO 1
    Castello%20della%20PIetra%20(3)%20(Custom)

    FOTO 2
    http://www.luoghimisteriosi.it/liguria/Cas...%20(Custom).JPG

    FOTO 3 - INIZIO VISITA GUIDATA
    il%20ns.%20gruppo

    FOTO 4 - SALONE CENTRALE


    FOTO 5 - SUGGESTIVA IMMAGINE
    primo%20avvistamento


    IL SENTIERO DEI CASTELLANI



    Un altro modo per giungere al castello è quello del Sentiero dei Castellani, che parte da Vobbia, località Torre. E’ piuttosto lungo (circa 1 ora e 30 di cammino) ma non particolarmente difficoltoso e molto panoramico in alcuni tratti.

    E’ un antico percorso medievale all’interno del cosiddetto “Conglomerato di Vobbia” nel quale sono ricostruite, passo dopo passo, la storia e le tradizionali pratiche della gente della valle. Il sentiero si snoda, infatti, lungo il canyon del torrente Vobbia, fra i calcari di M. Antola e il conglomerato oligocenico, fra le antiche testimonianze della produzione del carbone da legna e l’utilizzo del castagno.

    Il sentiero prevede 10 punti che parlano delle tradizione e delle peculiarità del luogo:
    1. Il Poggetto su cui con ogni probabilità sorgeva una torre di avvistamento al servizio del castello
    2. La forra – profonda gola con affioramenti di argilloscisti – e flora rupestre;
    3. La civiltà della castagna: ruderi di un secchereccio;
    4. La produzione del carbone di legna: “piazzola da carbone”;
    5. Panorama sul canyon della Val Vobbia (da non perdere);
    6. Calcari del monte Antola e conglomerati di Savignone;
    7. Il bosco;
    8. Belvedere sul castello;
    9. La zona umida;
    10. Area di sosta attrezzata. (utile per una sosta o per un picnic nel verde)
    Si può poi discendere attraverso il sentiero che porta sulla provinciale e, percorrendo circa 2,5 km sulla strada asfaltata, tornare a località Torre, completando così l’anello.
    Informazioni utili
    Nello zaino non dimenticare:
    scorta d’acqua
    binocolo
    macchina fotografica
    k-way
    cellulare


    Per chi fosse interessato ecco tutte le informazioni

    INFO UTILI
    • Come arrivare: Linea Ferroria Genova - Arquata Scrivia stazione di Busalla poi proseguimento per Vobbia con mezzi ATP
    Autostrada A7 Genova - Milano uscita Isola del Cantone direzione per Vobbia
    Linea Trenino di Casella stazione di Casella mezzi ATP per Ronco Scrivia.
    E’ raggiungibile seguendo per 15 - 20 minuti un sentiero nel bosco.

    Il Castello della Pietra è visitabile tutte le domeniche e festivi dal lunedì di pasqua alla fine di ottobre con visite guidate ogni ora dalle 10.30 alle 17.30 e aperture a richiesta tutto l’anno per gruppi e scolaresche. Per informazioni è sempre possibile contattare il Parco dell’Antola tel. 010 944175 - www.parcoantola.it/pun_dettaglio.php?id_pun=2053


    Le foto sono inserite al solo scopo didattico cuturale, non si intende violare alcun diritto d'autore
    fonti: luoghimisteriosi e 101 gite in Liguria
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    I palazzi dei Rolli
    Palazzo Doria Spinola



    Genova_12-8-05_006



    l palazzo Doria-Spinola o di Antonio Doria è un edificio sito tra piazza Giuseppe Mazzini e largo Eros Lanfranco a Genova, inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova divenuti in tale data Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.

    Il palazzo, oggi sede della Prefettura e della Provincia di Genova, è visitabile negli spazi di rappresentanza.
    È costruito isolato presso la porta dell'Acquasola (1541-1543) per l'ammiraglio Antonio Doria, marchese di Santo Stefano d'Aveto e parente del celebre Andrea Doria; nel 1624 il palazzo perviene agli Spinola che lo terranno sino al XX secolo. In assenza di nuove attribuzioni, il progetto è stato avvicinato a Bernardino Cantone, in possibile collaborazione con Giovan Battista Castello.

    «La sistemazione interna con atrio-cortile, scalone laterale a due rampe e al primo piano la galleria loggiata che distribuisce senza criteri di simmetria o centralità le sale di rappresentanza sul prospetto anteriore, oltre alle stanze di abitazione, oltre alle stanze di abitazione sugli altri lati, sembra obbedire al solo presupposto di esaltare lo spazio del cortile e la sua alta qualità strutturale e decorativa» (Caraceni e Ennio Poleggi 1983).

    Il cortile rinascimentale, a pianta quadrata e doppio ordine di logge, presenta una raffinata decorazione a stucchi con telamoni alternati a maschere femminili, di linguaggio nuovissimo per Genova, se si esclude il contemporaneo palazzo Grimaldi a San Francesco di Castelletto.

    Palazzo_Doria_Spinola



    Gli affreschi più volte restaurati della loggia superiore, opera di Aurelio e Felice Calvi, con vedute di città in gran parte estratte dall'atlante Civitates orbis terrarum (Colonia, 1576), oltre che un gusto diffuso da poco in Italia, documentano i vasti interessi del committente, grande stratega della Corona spagnola e trattatista della guerra per mare. Alla fine del XVI secolo viene aggiunto il portale esterno in marmo con colonne binate e figure di armigeri sull'attico di Taddeo Carlone.

    Palazzo_Doria_Spinola2



    Nel XVII secolo Bartolomeo Bianco costruisce, a levante, una galleria (affrescata poi da Andrea Ansaldo), oltre ad aggiungere le balaustre marmoree sul prospetto principale. Tra il 1791 e il 1797 viene sopraelevato di un piano.

    Palazzo_Doria_Spinola4



    Venduto nel 1876 al Comune, che in seguito lo cederà alla provincia, subisce molteplici adattamenti per la sistemazione ad uffici. La realizzazione di via Roma nel 1877 impone il taglio dello spigolo destro, la demolizione della galleria, l'ulteriore abbassamento della quota stradale in facciata e la scomparsa del giardino, tanto che l'assetto originario rimane documentato dalle sole tavole del pittore fiammingo Pieter Paul Rubens.

    Gli affreschi cinquecenteschi della facciata, opera di Lazzaro e Pantaleo Calvi, sono stati ripresi nel 2001.

    All'interno importanti e, naturalmente, molto godibili i salotti affrescati, soprattutto le due sale dedicate ad Apollo che saetta i Greci alle porte di Troia e a Ercole in lotta con le Amazzoni affidate alla bottega di Giovanni Cambiaso dove il figlio Luca, forse diciassettenne, vi fa la prima comparsa impegnativa con elementi attribuibili alla scuola michelangiolesca.

    Palazzo_Doria_Spinola_prefettura_19


    Palazzo_Doria_Spinola_inside



    Negli ultimi anni è stata restaurata la decorazione originaria dell'atrio, manomessa da Filippo Alessio e Michele Canzio nella metà del XIX secolo.


    Palazzo_Doria_Spinola3



    Le foto sono inserite al solo scopo didattico cuturale, non si intende violare alcun diritto d'autore
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    Ferrovia%20Genova%20Casella%201%20%C2%A9PGassani



    IL TRENINO di CASELLA - PARTE I^




    Sul finire dell'800, la rete ferroviaria italiana aveva già assunto una configurazione piuttosto rilevamte. In Liguria era attiva la Ferrovia Costiera, mentre, per i collegamenti con le regioni del Nord, la città di Genova con il suo importante porto poteva contare sulla linea per Torino (1854) con il suo potenziamento detto "Succursale" (1889) e sulla linea complementare del Turchino via Ovada, Acqui Terme, Asti (1894); da Savona un'altra ferrovia superava l'Appennino attraverso il Colle di Cadibona per raggiungere anch'essa Torino (1874); dalla Spezia, infine, si raggiungeva Parma, via Pontremoli (1894).
    Nall'anno 1900, gli ingegneri Marcello Ciurlo e Vincenzo Caldirola, che avevano realizzato il progetto per un collegamento ferroviario tra Genova e Casella, richiesero alla Provincia la concessione di una linea tramviaria tra Casella e Busalla.
    Ma l’ idea di creare un collegamento più agevole tra Genova e il suo entroterra era già concreta nella seconda metà dell’Ottocento.
    Il 21 Dicembre 1876 la Deputazione Provinciale di Genova, organo collegiale esecutivo della Provincia, istituì una specifica Commissione per lo studio di nuove strade di complemento.
    Il tracciato della nuova via di comunicazione prevedeva la prosecuzione di via Assarotti, con partenza da Piazza Manin, per toccare i Preli, Trensasco e Torrazza, valicare l’Appennino in Crocetta d’Orero, scendere a Casella e raggiungere la strada di collegamento della Valle Scrivia.
    L’intendimento iniziale di costruire una strada carrabile subì diverse modifiche nel corso degli ultimi anni del XIX secolo, fino a trasformarsi nell’idea di un percorso ferroviario.
    La prima Stazione di Piazza Manin - Genova
    jpg

    DALL'IDEA ALL'INAUGURAZIONE


    All’inizio del Novecento, il collegamento della Valle Scrivia e della Val Trebbia con la città era garantito da poche strade, dove il trasporto delle merci avveniva perlopiù a dorso di mulo.
    Il sogno di un percorso ferroviario, in grado di ridurre drasticamente le difficoltà e i tempi necessari agli spostamenti, iniziò a concretizzarsi il 15 Luglio 1903, quando il Consiglio di Stato dichiarò Opera di Pubblica Utilità la costruzione della progettata nuova linea ferroviaria Genova-Casella, agli effetti delle necessarie espropriazioni.
    Il Governo concesse la costruzione e l’esercizio della ferrovia in sede propria; la Provincia concesse a sua volta la realizzazione di un impianto elettrico sulla Strada Provinciale n. 2 e tra il 1903 ed il 1907 furono compiuti tutti gli adempimenti amministrativi.
    Nell’ottobre del 1907 si costituì la Società di Ferrovie Elettriche Liguri, che effettuò la progettazione dell’opera e con Decreto Luogotenenziale 17 giugno 1915, n. 1256, ricevette in concessione la costruzione della linea ferroviaria tra Genova e Casella, prevedendo di allungare successivamente il tracciato verso Busalla e verso la Val Trebbia.
    La Guerra Mondiale fermò il primo impulso alla realizzazione, che riprese però il 26 giugno 1921, con la posa della prima pietra.
    Il progetto prevedeva che si iniziassero i lavori da dove oggi si trova il deposito di Casella, con successivo avanzamento verso Genova. La soluzione consentiva di prelevare dal torrente Scrivia il materiale necessario alla realizzazione e di utilizzarlo con poco dispendio per l’esecuzione del tracciato.
    Furono necessari sbancamenti di versanti montuosi e riporti nelle zone depresse, con il conseguente spianamento del tracciato, la costruzione di gallerie in superficie e sottosuolo, la demolizione delle parti rocciose e dei fianchi scoscesi delle montagne mediante l’utilizzo di mine e l’impiego di operai specializzati, ex combattenti della I Guerra Mondiale.
    L’impresa si confermava ardua: le criticità legate al tracciato e alla natura del terreno non potevano permettere un rapido compimento.
    Nonostante le difficoltà, il 1 settembre 1929 fu finalmente effettuata la prima corsa aperta al pubblico.


    FOTO 1 - IL BIGLIETTO
    foto-biglietto-vecchio-3

    FOTO 2 - IL PRIMO VIAGGIO
    foto-storica-trenino

    FOTO 3 - LE AUTORITA'
    DSC00015

    FINE PRIMA PARTE
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    PALAZZI DEI ROLLI



    Palazzo Clemente Della Rovere


    foto1


    Il palazzo Clemente Della Rovere è un edificio sito in piazza Rovere a Genova, inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova divenuti in tale data Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Il palazzo attualmente ospita il consolato generale di Islanda.

    Storia e descrizione
    Fondato da Clemente della Rovere (1580 - 1581) e nobilitato dalla piazza prospiciente, il palazzo si presenta come un organismo complesso costituito da due distinte unità edilizie, la più piccola delle quali viene anch'essa inclusa nel rollo del 1599.
    La particolare orografia del sito, limite estremo dell'abitato urbano e luogo di insediamenti religiosi, condiziona l'articolazione dell'edificio, costringendola ad adeguarsi ai progressivi abbassamenti del livello stradale.
    Queste trasformazioni urbanistiche sembrano influire solo sull'architettura esterna, poiché l'organizzazione planovolumetrica risulta aderire quasi del tutto a quella riportata nell'edizione rubensiana.
    Sul prospetto verso l'attuale via di San Sebastiano sono ancora visibili, non senza difficoltà, le tracce della decorazione pittorica oggi campita in larga parte da una ritinteggiatura monocroma.


    foto2

    foto3


    Le fotografie inserite sono al solo fine didattico e non si intende ledere in alcun modo il diritto d'autore

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    IL TRENINO di CASELLA II^ PARTE



    LA FERROVIA NEGLI ANNI 30 del 900 TRA ESERCIZIO E SUBENTRI di GESTIONE

    Il primo orario ufficiale della ferrovia, riferito al bimestre settembre/ottobre 1929 riportava sei coppie di corse nei giorni feriali, delle quali
    - una era effettuata soltanto alla vigilia dei giorni festivi
    - una era effettuata diretta, con fermate obbligatorie solo a Torrazza, Vigomorasso e
    Crocetta d'Orero
    - una era classificata mista, vale a dire generalmente impiegata per il trasporto di passeg
    geri e merci.
    Nei giorni festivi invece le coppie di corse indicate in orario erano otto, delle quali
    - tre dirette con fermate obbligatorie a Torrazza, Vigomorasso, Busalletta e
    Crocetta d'Orero (stazioni peraltro presenziate).
    - due classificate facoltative e limitate alla tratta Genova - Vigomorasso.
    Queste corse facoltative si presume che fossero programmate in caso di maggior affluenza viaggiatori; il criterio della corsa facoltativa, in uso in quel periodo anche da parte di diverse imprese automobilistiche, venne poi soppresso, in quanto causa di incomprensioni e disagi da parte dei viaggiatori, passando ad un regime di orario consolidato con corse certe. Dagli orari si può inoltre rilevare che gli incroci dei treni da Genova per Casella e viceversa erano generalmente previsti presso la stazione di Torrazza - San Bernardo.
    Il tempo di percorrenza sull'intera tratta variava dai 65' per i treni diretti agli 80'/85' per quelli accellerati e misti.


    FOTO 1 - I PRIMI SERVIZI
    casella-vecchia-anni-30-deposito-21


    FOTO 2 - UNA VISTA DI GENOVA DAL CAPOLINEA DI PIAZZA MANIN
    jpg


    FOTO 3 - IN VIAGGIO NELL'ENTROTERRA
    campi-1931


    Dopo l’inaugurazione, il “Trenino” entrò subito nel cuore dei Genovesi, che non avevano forse creduto del tutto alla buona riuscita del progetto di cui si dibatteva da oltre vent’anni.
    Presto si rivelò la doppia anima della Ferrovia, utilizzata per svago da chi voleva godersi il verde dell’entroterra e per raggiungere quotidianamente la città dai residenti delle zone attraversate, all’epoca spesso collegate solo da sentieri.
    Il collegamento con Busalla, Torriglia e la Val Trebbia rimase però un ambizioso pensiero su carta, perché la mancanza di fondi non permise il prolungamento del percorso né, tantomeno, il raccordo con la ferrovia Piacenza –Bettola.
    I passeggeri però non mancavano e già dai primi anni dall’inizio del servizio, l’affluenza delle belle giornate festive, molto più elevata rispetto alla norma, abituò la direzione ferroviaria ad affrontare la maggior richiesta predisponendo estemporanei servizi “in bis” per accontentare i tanti avventori.
    I primi “interscambi” tra vettore ferroviario e trasporto su gomma non tardarono ad entrare nelle modalità di spostamento di lavoratori e gitanti. Il servizio automobilistico che collegava Bolzaneto a Sant’Olcese già dal 1920, nel corso degli anni Trenta era cresciuto in modo esponenziale e nella stagione estiva le corse venivano prolungate fino al centro città, con una programmazione effettuata con l’intento di favorire le coincidenze con la ferrovia.
    Lo sviluppo turistico di questa zona dell’entroterra genovese, che dall’inizio dell’Ottocento aveva visto la costruzione di molte ville dell’alta borghesia cittadina, ricevette nuovo impulso dall’arrivo della ferrovia.
    Sorsero quindi, tra l’alta Val Polcevera e la Valle Scrivia, numerose ed eleganti abitazioni unifamiliari, destinate alla vacanza della borghesia genovese, che iniziava a sperimentare un nuovo concetto di “villeggiatura”, sempre più fuga dalla città e occasione per ritrovare la forma e l’equilibrio con la natura.
    I genovesi, non solo appartenenti ai ceti sociali più agiati, cominciarono a scegliere queste colline come meta per le gite della domenica, anche grazie al tenore di vita più elevato del periodo ante guerra, che permetteva di dedicare una parte del proprio tempo a piacevoli attività ricreative.
    Nonostante la cospicua affluenza, i notevoli costi d’esercizio portarono, nel corso del primo decennio dopo l’apertura, a nuove difficoltà finanziarie che sfociarono in diversi cambi di gestione: dopo la S.A.C.E.F. (Società Anonima Costruzione Esercizio Ferroviario), subentrò la S.T.E.A.L.(Società Trazione Elettrica Appennino Ligure) e alla fine degli anni Trenta, la S.A.G.E.F. (Società Anonima Genovese Esercizi Ferroviari), costituita dalla società “Lazzi” che da anni gestiva servizi di trasporto su gomma in Toscana e Liguria


    fine seconda parte

    le foto sono inserite al solo scopo didattico/culturale/educativo, NON si intende violare alcun diritto d'autore

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    Palazzo Giorgio Spinola



    450px-_Palazzo_Giorgio_Spinola3



    palazzo Giorgio Spinola è un edificio sito in salita di Santa Caterina al civico 4 a Genova, inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova divenuti in tale data Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.

    Palazzo_Giorgio_Spinola



    Compare nel Rollo del 1588 a nome degli eredi di Gio. Batta Spinola, mentre in seguito passa ad Agostino Airolo.
    Situato nella contrada degli Spinola di Luccoli, accanto all'antico convento di Santa Caterina (fondato dalle Clarisse nel 1228), il palazzo parrebbe essere appena anteriore alla prima iscrizione.
    La scala loggiata che si svolge attorno al cortile interno con fontana (oggi coperto in vetrocemento) conduce a un'ampia area verso Villetta Di Negro.
    Ancora un documento evidente di quanto fosse difficile "fabbrica in costa" via via che si alzavano fabbriche sul lato a monte, come era avvenuto nei palazzi a nord di Strada Nuova opportunamente tracciata in quota.

    Palazzo_Giorgio_Spinola2



    Nel 1798 appartiene ancora alla famiglia Airolo che lo rinnova, sostituendo il portale esterno in marmo, aggiornando i particolari dell'atrio, aggiungendo le ringhiere alle finestre e decorando i salotti.
    Nel XIX secolo passa ai Franzoni (ante 1818) e infine alla famiglia Tedeschi.
    Una recente manutenzione ha ripristinato la decorazione a quadrature delle facciate prospicienti salita di Santa Caterina e salita Di Negro.


    foto3

    foto2



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    Edited by marmari - 29/9/2017, 16:22
     
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    Palazzo Tommaso Spinola



    Palazzo_Tommaso_Spinola2



    Il palazzo Tommaso Spinola o Tomaso Spinola di Luccoli è un edificio sito in salita di Santa Caterina al civico 3 a Genova, inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova divenuti in tale data Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.

    Palazzo_Tommaso_Spinola



    Situato tra l'antica piazza degli Spinola di Luccoli e quella Della Rovere, è costruito su progetto di Gian Battista Castello (1558 - 1561) per Tomaso Spinola.
    La "cifra" di Bergamasco, di piena osservanza manierista, si legge nel finissimo disegno del portale con erme femminili, eseguito da Giacomo Ponzello e Pompeo Bianchi (1560), e nella facciata, dalla quadratura fantasiosa ad affresco e stucco, analoga a quella dei palazzi Imperiale di Campetto (1555 - 1560) e Lomellini di Strada Nuova (1558), dove l'aggettivazione scenografica è data da due rampe divergenti.
    L'interno è riccamente affrescato dall'atrio ai salotti del secondo piano ("Eroe in Parnaso" di Luca Cambiaso e un soggetto analogo incertamente attribuito ad Andrea Semino); nell'atrio in particolare è un affresco con "Andromeda ignuda esposta al mostro" e, nella volta sopra l'ingresso della scala, "Andromeda che accoglie Perseo liberatore".
    Annoverato nel XVIII secolo tra le proprietà dei Pessagno, famiglia che lo possiede ancora alla fine del XIX secolo, il palazzo è oggi destinato ad abitazione privata.
    L'atrio è accessibile mentre dal triforio, chiuso con vetrate, si vede soltanto una parte della scala.

    [img]https://s19.postimg.cc/75o3oeemr/foto3.jpg[/img

    foto4

    foto5



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    IL TRENINO di CASELLA - PARTE III^ LA SECONDA GUERRA MONDIALE




    Dopo la dichiarazione di guerra congiunta di Francia e Gran Bretagna alla Germania e il conseguente scoppio della II^Gm (3 settembre 1939) il traffico del trasporto pubblico, su ordine del Ministero delle Comunicazioni, venne ridotto al 50% delegando agli ispettori locali il compito di valutare eventuali eccezioni.
    Il circolo di Genova lasciò inalterato il servizio sulla Genova-Casella, come testimoniato anche dalla seguente ordinanza pervenuta dal Prefetto alla Direzione della Ferrovia: "La Ferrovia Genova-Casella, essendo elettrica non ha bisogno di di riduzioni.
    Quando, nel giugno del 1940 (il 10) anche l'Italia entrò nel II^ conflitto, la Genova-Casella, un po defilata dalle principali vie di comunicazioni e giudicata di scarso interesse militare (anche se inglesi e americani non si fecero specie di bombardare, chiese, cimiteri e scuole), riuscì a sopravvivere e giunse alla fine del conflitto senza gravi danni alla sua struttura


    FOTO 1 PROBABILI SFOLLATI IN PELLEGRINAGGIO AL SANTUARIO DI NS della VITTORIA
    sfollati-foto-Oliveri-Rossiglione-2

    La vivacità degli anni Trenta fu bruscamente interrotta dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.
    Il servizio fu sospeso subito dopo il coinvolgimento bellico dell’Italia ma venne riattivato quando la paura dei bombardamenti spinse moltissime famiglie a fuggire dalla città e utilizzare la ferrovia per raggiungere le più sicure valli dell’interno.
    I treni non venivano riempiti solo dagli sfollati nel percorso verso monte: il tragitto inverso era compiuto in questi anni dai primi “pendolari”, che lasciavano la temporanea sistemazione in campagna per raggiungere il luogo di lavoro cittadino e fare ritorno alla fine della giornata lavorativa.
    Se le vittime tra la popolazione civile furono fortunatamente contenute, grazie alla presenza dei numerosi rifugi in galleria, i danni materiali che Genova subì nel corso dei bombardamenti aerei e navali si rivelarono enormi: nell’aprile del ’45 si contavano oltre 11.000 edifici civili colpiti, 70 chiese e 130 palazzi di valore storico.
    Forse grazie alla scarsa rilevanza bellica e alla sua posizione decentrata rispetto al porto, la Ferrovia Genova-Casella non subì invece danni diretti alle infrastrutture.
    L’impianto non dovette nemmeno pagare un tributo alla causa della guerra in termini di mezzi, come invece accadde a molti vettori di trasporto su strada, obbligati a sacrificare all’Autorità Militare numerose vetture, da reimpiegare per lo spostamento di truppe o in operazioni di soccorso.
    Ciò che mise a dura prova la Ferrovia fu la carenza dei rifornimenti per la priorità attribuita alle necessità belliche, l’usura dovuta al pesante utilizzo e la mancanza di risorse utili a preservare le attrezzature.
    Alla fine del conflitto, chiari segni di decadimento imponevano un rinnovamento completo.


    LE FOTO SONO INSERITE AL SOLO SCOPO DIDATTICO/CULTURALE, NON SI INTENDE VIOLARE ALCUN DIRITTO D'AUTORE
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    Edited by Nihil Obest - 11/10/2017, 18:51
     
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    PALAZZI DEI ROLLI
    Palazzo Giacomo Spinola



    foto1


    Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
    Il palazzo Giacomo Spinola o palazzo Giacomo Spinola di Luccoli è un edificio sito in piazza delle Fontane Marose al civico 6 a Genova, inserito il 13 luglio del 2006 nella lista tra i 42 palazzi iscritti ai Rolli di Genova divenuti in tale data Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Il palazzo è oggi sede del Banco di Sardegna

    Palazzo_Giacomo_Spinola2



    Costruito per Giacomo Spinola (1445 - 1459) su lotti già edificati, è presente in tutti i rolli; negli anni 1576 - 1595 appratiene ad Antonio Spinola "Marmari" ma raggiunge la massima posizione nel 1614 con G. Battista Spinola di Tomaso, letterato e doge nel 1613 - 1615.
    Agli inizi del XIX secolo appartiene agli Spinola.
    Situato sulla piazza di Luccoli, nel XIII secolo, "luogo" marginale ma strategico perch? vicino alla Porta di Santa Caterina, ha una facciata a fasce bicrome e nicchie con statue marmoree di familiari illustri.
    Nel secolo XVI, oltre alla sostituzione delle quadrifore per creare nuove finestre, si espande nell'isolato con una casa da reddito su via di San Sebastiano.
    A metà del XIX secolo vengono imposti dal comune pannelli a bassorilievo per mascherare la stiratura delle botteghe verso il basso: una trasformazione della facciata prodotta prima dal generale livellamento della carrabile, dall'Acquaverde all'Acquasola, con parziale demolizione della piazza superiore degli Spinola (1816 - 1818 circa), poi richiesta dai raccordi successivi della nuova via Carlo Felice (1832 circa) con le vecchie quote della piazza.
    Dopo le demolizioni illegittime per ammodernare le finestre (1903) Alfredo D'Andrade e Aurelio Crotta costruiranno le polifore del piano nobile, già sostituite da secoli con aperture rettangolari, come all'interno erano stati rilevanti i mutamenti alla scala (XVI secolo).
    Altrettanto pesanti i lavori di fine Ottocento, introdotti dalla proprietà Migone per ridurre il palazzo a casa d'affitto, sino a moltiplicare vecchie controsoffittature mascherando il solaio ligneo originario del salone, su mensole recanti l'arme Spinola, che oggi è restituito da un progetto di recupero patrocinato dal Banco di Sardegna per collocarvi uffici e agenzia.

    Scheda dal sito dei Rolli

    Palazzo_Giacomo_Spinola

    Palazzo_Giacomo_Spinola3



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