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salve
da oggi iniziamo un racconto che ci porterà a conoscere Genova e tutto ciò a lei collegato; non sarà uno scritto canonico che inizia con il più classico dei c'era una volta, no, il nostro iter salterà da un'era all'altra senza preavviso, da un quadro ad un borgo dell'entroterra, da un carruggio ad una fontana, da un cantautore, all'emigrante di ma se ghe pensu.
La Superba, come si chiamava una volta, non c'è più: colpa dei politici si, ma anche colpa di noi liguri, troppo silenti, poco inclini alla pubblicità, troppo pudichi per esibire le nostre bellezze, forse troppo sarveghi, chiusi in noi stessi e nel nostro maniman.
Però siamo così, le cose bisogna strapparcele con la tenaglia ma...potevamo essere diversi con un territorio come il nostro ?
provate voi a vivere in una terra che, a neanche due metri dal mare ha subito i monti e che tutto quello che ci hai ricavato, hai dovuto strapparlo con fatica, sudore, bestemmie e malanni...avevamo e abbiamo ben poco da stare allegri e pensare alle frivolezze.
Ma qui sta la nostra grandezza e la nostra forza...e in questa poesia ci siamo tutti noi liguriÈ la Liguria terra leggiadra.
Il sasso ardente, l'argilla pulita,
s'avvivano di pampini al sole.
È gigante l'ulivo.
A primavera
appar dovunque la mimosa effimera.
Ombra e sole s'alternano
per quelle fondi valli
che si celano al mare,
per le vie lastricate
che vanno in su, fra campi di rose,
pozzi e terre spaccate,
costeggiando poderi e vigne chiuse.
In quell'arida terra il sole striscia
sulle pietre come un serpe.
Il mare in certi giorni
è un giardino fiorito.
Reca messaggi il vento.
Venere torna a nascere
ai soffi del maestrale.
O chiese di Liguria, come navi
disposte a esser varate!
O aperti ai venti e all'onde
liguri cimiteri!
Una rosea tristezza vi colora
quando di sera, simile ad un fiore
che marcisce, la grande luce
si va sfacendo e muore.
...
saluti
Piero e famiglia
Edited by marmari - 10/2/2021, 17:29. -
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...grazie, spero che ogni tanto tu faccia un passo a curiosare.... -
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...un esercito nemico alle porte...il parroco ed il sogno della Madonna...ottanta valorosi...un capitano di ventura...una flotta amica SANTUARIO DI N.S. della VITTORIA
Breve storia
Il Santuario di N. S. della Vittoria, adagiato tra i Monti Fuea e Maglietta, sorge su un colle a 600 m./s.l.m. in splendida posizione dominante la Valpolcevera in prossimità del passo detto del Pertuso o del Malpertuso, in seguito rinominato passo della Vittoria.
Proprio in corrispondenza del valico succitato passava una delle antichissime strade che mettevano in collegamento Genova con la Lombardia, il Piemonte e la Francia. Essa era certamente una delle vie di comunicazione più utilizzate insieme alla via Postumia che da Pontedecimo saliva alla Bocchetta. Non era infatti ancora stata aperta quella detta dello Scrivia, che oltrepassava l'Appennino in corrispondenza del valico dei Giovi.
Tra le notizie storiche di rilievo dobbiamo almeno ricordare che questa via, che da Genova saliva da S. Cipriano e Serra e dopo il Pertuso scendeva a Vallecalda e Savignone per Tortona, era stata utilizzata dal Re dei Longobardi Liutprando, per trasportare, tra il 722 ed il 724, le ceneri di Sant'Agostino dal porto di Genova, in cui erano arrivate dall'Africa via Sardegna, a Pavia, dove tuttora risiedono in San Pietro in Ciel d'Oro; poi progressivamente utilizzata dai pellegrini che si spostavano dalla via costiera alla via Francigena e viceversa; ed in seguito via privilegiata per l'accesso ai feudi imperiali gestiti dalla nobile famiglia dei Fieschi, da cui aveva preso il nome di Strada dei Conti.
Sorpassando per importanza la stessa via Postumia, dal XIII secolo all'Ottocento il passo del Pertuso divenne la principale via di comunicazione tra Genova e la Pianura Padana. Percorsa da commercianti, pellegrini ed eserciti, essa ha avuto un ruolo importante in pressoché tutte le guerre che hanno visto coinvolta la Liguria nell'età moderna da quella del 1625 fino alla II^ Guerra Mondiale.
La battaglia contro i Franco-Piemontesi e la nascita del Santuario
Tra gli episodi di maggior rilievo la vittoria del 10 maggio 1625 sulle armate del Duca di Savoia Carlo Emanuele I, che ha portato all'erezione, in segno di rendimento di grazie, dell'attuale Santuario di Nostra Signora della Vittoria.
In quell'occasione il passo del Pertuso fu teatro dello scontro tra le truppe di Carlo Emmanuele di Savoia e un gruppo di ardimentosi paesani locali i quali, in 80 contro settemila, riuscirono a resistere per 10 ore ai tentativi di sfondamento dei savoiardi salvando così da capitolazione certa la città di Genova.
Il Duca di Savoia, infatti, aveva dichiarato Guerra alla Serenissima Repubblica di Genova, utilizzando come pretesto il fatto che Ferdinando II di Germania aveva venduto ai genovesi il marchesato di Zuccarello del quale egli rivendicava il possesso.
Lo scopo del duca era evidentemente quello di mettere a ferro e fuoco Genova per cui, conquistate Gavi, Voltaggio, Savignone e Busalla, egli era deciso ad oltrepassare l'Appennino, senza però utilizzare il passo della Bocchetta, troppo controllato, e preferendo invece il passo del Pertuso.
Don Gio. Maria Lucchini rettore di Montanesi, ebbe un sogno in cui la Madre di Dio, che vegliava il passo da una edicola ivi costruita, prometteva difesa e protezione alla popolazione di Montanesi e a tutta la città di Genova: esortava a non fuggire, ma a difendere il passo. Il rettore, riunita la popolazione atterrita ed incerta sul da farsi, esortò tutti, uomini e donne, a pregare e a lottare, e raccontò a tutti il sogno.Confessò e comunicò tutti, e insieme si affidarono alla protezione della Madonna, perché in quel momento dl così grande difficoltà Ella aveva promesso il suo soccorso.
Ed infatti gli 80 paesani col loro parroco riuscirono a resistere fintanto che alcuni capitani di ventura, tra cui il famosissimo Battino Maragliano, raccolti più di 1500 uomini, giunsero finalmente in soccorso dei combattenti ormai allo stremo delle forze, respingendo in via definitiva l'attacco nemico.
Questi valorosi furono aiutati anche dall'arrivo in porto della flotta spagnola, alleata della Repubblica Genovese che, da sola,
probablimente funzionò da valido deterrente contro le mire franco-sabaude.
Don Lucchini, disconoscendo ogni merito personale nella vittoria riportata, rivolse già un mese dopo una supplica al Senato al fine di ottenere sia l'autorizzazione ad erigere una chiesa nel luogo della vittoria, sia un qualche aiuto finanziario per realizzarla.
All'uso del tempo il Senato richiamò dal bando un indesiderato imponendogli di versare il suo debito al parroco, ma il tentativo si risolse in un fallimento; nonostante ciò il Lucchini non si diede per vinto. Nel 1628 lo stesso Lucchini rinnovava la sua istanza, questa volta con esito positivo, e riuscì, grazie anche "alle elemosine dei buoni", ad erigere una chiesetta che misurava palmi 24 x 36 (circa 6 m x 8) sul colle che sovrastava il passo.
Nel corso dei secoli, il Santuario fu ampliato, ricostruito e ristrutturato più volte, fino alla versione attuale.
Qualche immagine
il Santuario in una foto del secolo scorso
e come è adesso
all'interno possiamo trovare:
Come si è visto, il Santuario è il frutto di diversi momenti costruttivi, dei quali l'ultimo è attribuibile agli anni intorno alla metà del settecento sotto l'egida dell'allora custode Don Niccolò Serchio. Ne risultò un edificio più piccolo di quello seicentesco, che era a tre navate, del quale si conservavano alcune parti che resistettero allo scempio austriaco: il campanile, costruito nel 1722-23, il tabernacolo dell'altare maggiore e la Sacrestia.
www.santuariodellavittoria.it/images/capp.jpg
sul lato destro, ma questa volta della navata, si apre una cappella mediana destinata a spazio per la preghiera invernale.
La copertura è costituita da una volta a botte ad arco ribassato interamente decorata ad affresco con vari soggetti e partiture architettoniche, così come decorate risultano le pareti della chiesa e del coro
Lo sguardo del visitatore è comunque volutamente indirizzato, come di consueto, verso il pregevole altare marmoreo sormontato dalla statua della Madonna, attualmente racchiusa da una nicchia ma che in origine doveva trovarsi in altra posizione forse al lato dell'altare o all'ingresso della chiesa.
Per Quanto attiene la statua, le fonti sono discordi ma si pensa di poterla attribuire alla fine del seicento od all'inizio del settecento.
Secondo lo storico Cambiaso è stata donata dal Senato nel 1654, ed è opera dello scultore milanese Tomaso Orsolino. In essa la S. Vergine è rappresentata con la palma della vittoria nella mano sinistra, e il Bambino che tiene nella mano destra la bandiera crociata della repubblica, sul braccio destro.
Questa iconografia fu poi copiata nel 1936 dallo scultore di Ortisei che fece la statua lignea presente attualmente nell'atrio.
alcune curiostà
Sul lato destro della facciata del Santuario, guardando l'entrata, vi è posto un obice della I^Guerra Mondiale, dono del Duca della Vittoria Armando Diaz; il pezzo di artiglieria è posto sotto il bollettino della Vittoria.
Sul lato sinistro, invece, campeggia un cannone anticarro tedesco della II^ Guerra Mondiale su cui è affissa una targa dove troviamo scritto che fu sottratto alle truppe germaniche, dopo combattimento con forze ribelli (partigiani); la realtà però è diversa, infatti il mezzo, come tanti altri, fu lasciato per strada dai tedeschi in ritirata verso nord, nell'aprile 1945.
Come arrivare al Santuario in auto
Percorrendo la A7, venendo da Milano, si esce al casello di Busalla e si seguono le indicazioni per il Passo dei Giovi, arrivati allo scollinamento, si gira a sinistra e, dopo un paio di chilometri si giunge davanti alla Chiesa.
Transitando sempre la A7 ma provenendo da sud, si può usicre lo stesso a Busalla o a GE-Bolzaneto e seguire le indicazioni per Pontedecimo, Passo dei Giovi e poi al Santuario.
Come arrivare al Santuario a piedi.
Se siete appassionati escursionisti, potete giungere a piedi alla Vittoria partendo da diversi posti come Casella, Orero, Savignone, seguendo le paline dell'Alta Via dei Monti Liguri; potete partire anche da Valleregia da dove attraverseremo le borgate di Fraccia, Paxio, Castello, Cascina, l'Altopiano dei Fontanini, Pian di Barche e poi, dopo un tratto boschivo, si arriva
al Santuario.
Posso farvi da guida.
Nella camminata a seconda delle stagioni potremo incontrare: mucche e pecore al pascolo, cavalli, porcastri (incrocio tra cinghiali e maiali), caprioli, poiane, diverse specie di passeracei e il picchio.
Come flora, diversi tipi di orchidea selvatica, prugni selvatici (dal cui frutto si ricava un ottimo liquore), rose canine (dalla cui bacche si può fare una marmellata), castagni e pini.
le foto inserite sono a solo scopo didattico/culturale/educativo, non si intende violare alcun diritto d'autore
il materiale della ricerca è stato reperito presso l'archivio dello stesso santuario e alcune cose nel suo sito internet; la parte dedicata alle curiostà e al "come arrivarci" sono opera mia
...continua...
saluti
Piero e famiglia
Edited by Nihil Obest - 13/10/2018, 21:00. -
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In memoria della battaglia dei Giovi, a Genova resta un "ricordo" piuttosto particolare LA COLONNA INFAME
Passeggiando per Via del Campo, poco prima di arrivare alla Porta dei Vacca (da Vachero, il nome di una famiglia originaria di un paesino vicino a Nizza) si trova sulla nostra destra una piccole fontana, un fontanile eretto tre due colonne su una parete.
Se passate tra la fontana e i palazzi nello stretto spazio vedrete che dietro c’è una piazzetta. Su un lato, subito dietro al fontanile una colonna quadrata con un iscrizione latina.
Queste due costruzioni: fontana e colonna ricordano un episodio accaduto nel 1628:
all’inizio del 1600 la Repubblica di Genova era politicamente molto debole a differenza delle nobili famiglie che si arricchivano. Tra le potenze che avevano delle mire territoriali su Genova e il suo porto stava crescendo d’importanza la dinastia dei Savoia.
Nel 1628 i Savoia tentarono un “colpo di stato” con l’aiuto di Giulio Cesare Vachero che avrebbe dovuto organizzare l’uccisione del Doge e dei componenti più importanti della Repubblica così da permettere la rapida occupazione dei Sabaudi; la congiura fallì e gli spagnoli chiamati in aiuto dai Savoia rifiutarono di intervenire contro Genova.
Il Vachero fu decapitato e la sua casa in Via del Campo fu rasa al suolo.
A eterno ricordo del tradimento dei Vachero fu eretta la Colonna Infame.
La scritta, in latino ricorda:
Memoria infamante sia, di Giulio Cesare Vachero, uomo scelleratissimo, il quale avendo cospirato contro la Repubblica, mozzatogli il capo, confiscatigli i beni, banditigli i figli, demolitagli la casa, espiò le pene dovute. A.S. 1628
Più tardi, nel 1644, al posto della casa dei Vachero, fu edificata una fontana: quella che si vede oggi è stata modificata; la testa in marmo del leone è originale di Taddeo Carlone.
Ecco la storia della congiura riportata dallo storico Donaver:
“Viveva in Torino nelle grazie di Carlo Emanuele certo Giovanni Antonio Ansaldo figlio di un oste di Voltri, divenuto mercante ed ora innalzato alla dignità di Conte; uomo scialacquatore e vizioso, il quale venne incaricato dal duca di trovargli partigiani in Genova che gli dessero in suo potere la città.
L'Ansaldo recatosi in Genova s'abboccò con taluni ricchi borghesi, facinorosi ambiziosi di nobiltà, tra quali principalissimo Giulio Cesare Vacchero nato in Sospello in quel di Nizza, di padre malvagio, il quale nella sua giovinezza era stato relegato in Corsica per reati commessi, e un giovane Fornari, vano ed impetuoso che si credeva invidiato dai nobili per le ricchezze che aveva e a sua volta li odiava per non essere loro pari, e il medico Martignone, e si tennero conciliaboli in casa del Vacchero, nei quali l'Ansaldo prometteva larghi aiuti del duca di Savoia, di cui si spacciava incaricato d'affari.
Il Vacchero insieme all'Ansaldo si condusse segretamente in Torino a concretare gli accordi col duca, e questi gli fornì denari per assoldare qualche centinaio di soldati, coi quali impadronirsi del palazzo ducale, gli promise che al primo avviso, suo figlio sarebbe accorso alle porte di Genova colla cavalleria, e intanto gli consegnò i diplomi di colonnello per lui e pel Fornari.
Tornato in città il Vacchero, cogli altri congiurati cominciò l'assoldamento di quanti individui poté, scegliendo i capitani fra coloro che più erano abili nelle armi, e già era fissato il giorno e le modalità della rivolta, quando uno dei congiurati, Gianfrancesco Rodino, recatosi dal doge Gian Luigi Chiavari, dietro una cospicua somma di denaro, tutto gli rivelò.
Radunati prestamente i Collegi, furono colpiti da stupore a tanta audacia, e non avendo il coraggio di assalire la casa del Vacchero ove stavano radunati i congiurati in arme, il doge diede ordine al bargello di arrestare il Vacchero senza dirgliene il motivo.
Il bargello meravigliato di ricevere un tal ordine, essendo il Vacchero conosciutissimo in tutta la città, ne fece parola con due amici incontrati per via, i quali, essendo due dei capitani assoldati, subito ne fecero avvertiti il Vacchero e gli altri che rapidamente fuggirono alla campagna. Però le perquisizioni eseguite in sua casa fornirono numerose prove della congiura, per cui inseguiti i fuggitivi molti caddero nelle mani della giustizia.
Il Vacchero s'era ricoverato in una villa solitaria insieme ad un complice volgare; ma poiché il governo offriva un premio a chi glielo consegnava, un tale rivelò dove egli stava nascosto e rivelò pure dove s'era nascosto il Fornari, onde entrambi cadder nelle mani della signoria. Processati, vennero condannati a morte.
Il duca di Savoia prese le difese del Vacchero e suoi complici, minacciò rappresaglie se la repubblica eseguiva la sentenza, mise in moto il governatore di Milano in favore dei congiurati; ma nulla valsero le sue pratiche. Tutti furono condotti al patibolo, e la casa del Vacchero in piazza del Campo venne rasata al suolo.
In seguito a questa congiura, venne istituito, nell'ottobre dello stesso anno, il magistrato degl'Inquisitori di Stato perché invigilasse alla sicurezza della repubblica.
L'anno seguente 1629 per mandato del duca di Savoia, un bandito di Voltri doveva appiccare il fuoco al Senato facendolo saltare in aria quand'era congregato; ma avendo egli confessato la cosa ad un padre Barnabita, questi ne fece avvertito il governo che condonò ogni pena al bandito, gratificandolo di un'annua pensione.
Per buona fortuna, la morte di Carlo Emanuele liberò la repubblica di quell'insidiatore costante della sua indipendenza, e il 5 luglio 1633 poté firmarsi l'atto definitivo di pace col suo successore Vittorio Amedeo I restituendosi reciprocamente prigionieri, armi e terre occupate, restando Zuccarello proprietà dei Genovesi e pagando questi al duca una somma per frutti estratti dalla valle d'Oneglia.”
(tratto da Federico Donaver, Storia di Genova, Nuova Editrice Genovese, Genova, 1990)
Circa questo terribile manufatto, scrisse Giovanni Ansaldo, rivolgendosi ad un ipotetico turista americano che accompagna nei vicoli di Genova:
“Il vostro è il paese della giustizia. Ma sapete che cos’era New York quando la colonna infame del Vacchero fu murata pietra su pietra? Era un povero borgo di baracche di legno,: c’era più lavoro di muratura e più marmo nella sola Colonna Infame che in tutta la New York di allora. Noi abbiamo troppa storia alle spalle, per credere seriamente.(…) Nel caso Vacchero siamo di fronte a un tipico esempio della crudeltà della storia. Il povero Giulio Cesare vacchero, mel milleseicento e tanti congiura contro la Repubblica, d’accordo con Carlo Emanuele di Savoia. La congiura è scoperta. Vacchero scappa, ma è agguantato, torturato e decapitato: di più, sul suo nome pesa ancora oggi la grave mora della Colonna Infame, l’ultima Colonna Infame d’Italia; e voi, perfino voi uomo d’America, passate l’oceano per leggere le parole dell’abominio. Se il Vacchero fosse riuscito nel suo intento, di aprire le porte ai Savoini, molto probabilmente oggi avrebbe al proprio attivo un bellissimo monumento. Gli storici gli troverebbero delle insigni qualità: una meravigliosa energia, una coscienza altissima delle necessità della storia, una tempre di precursore dell’unità nazionale. Voi lo paragonereste a Garibaldi, che sopportò anche lui la tortura, o a Washington….”
(Tratto da “Genova Segreta di Giampiero Orselli e Stefano Roffo – Casa editrice Ligurpress, Genova 2010)
Purtroppo la gloriosa storia della Repubblica si concluse col Congresso di Vienna che regalò la repubblica ai Savoia, visto che nulla avevano potuto con le armi.
le foto inserite sono a solo scopo didattico/culturale/educativo, non si intende violare alcun diritto d'autore
....continua....
Edited by Nihil Obest - 13/10/2018, 22:27. -
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...gli austriaci...un obice caduto...che l'inse ?...la rivolta...insomma...IL BALILLA [IMG][/IMG]
LA STORIA
Giambattista Perasso noto come il Balilla è una figura eroica popolare della storia genovese. L'evento che lo vede protagonista si inserisce in un quadro storico funesto per Genova.
Nel 1740, alla morte di Carlo VI°, alla figlia Maria Teresa, sicura di succedere al padre sul trono imperiale, viene preferito il Duca di Baviera (Carlo VII°).
Il 13 settembre 1743, con il trattato di Worms, il Marchesato di Finale, già acquistato dalla Repubblica di Genova nel 1713, viene promesso da Maria Teresa al Regno di Sardegna.
La Repubblica si vede costretta a firmare l'Alleanza di Aranjuez (1 maggio 1745) con Francia, Spagna e Napoli in difesa dei propri diritti violati a Worms.
Allo scoppio delle ostilità si registra una serie di successi delle truppe francesi, spagnole e napoletane. La sconfitta di Piacenza, 16 giugno 1746, ferma l'avanzata degli alleati e inverte le sorti della guerra. Le truppe franco-spagnole riparano a Genova per poi abbandonarla proseguendo la ritirata. La città resta indifesa.
Il 4 settembre 1746 gli austriaci sono a San Pier d'Arena (Sampierdarena).
Le trattative diplomatiche con il Generale Brown risultano vane. Il 6 settembre 1746 la situazione già critica precipita con l'arrivo del Marchese Antoniotto Botta Adorno. Nonostante appartenga al patriziato genovese, nutre forte rancore per ragioni familiari nei confronti della Repubblica. Il Marchese, evidentemente accecato dall'odio, avanza richieste umilianti ed economicamente esosissime.
Le pretese eccessive, l'occupazione dei punti chiave di Genova, il tentativo di sottrarre le artiglierie cittadine e il comportamento delle truppe, portano, il 5 dicembre 1746, alla rivolta popolare.
L'insurrezione scoppia a Portoria. Un mortaio genovese in mano agli austriaci rimane impantanato durante il trasporto. Le truppe d'occupazione, con la forza, vogliono costringere i passanti a liberare il pezzo d'artiglieria. Lo sdegno e l'ostilità della popolazione si concretizza nel gesto del Balilla che al grido "che l'inse?" scaglia la prima pietra di una fitta sassaiola. Le truppe sono costrette ad una fuga precipitosa dovendo abbandonare il cannone.
Nei giorni seguenti si alternano scontri a tregue e trattative diplomatiche.
La sollevazione dei genovesi costringe Botta Adorno ad abbandonare la città riparando a Novi. Il successivo tentativo di tornare a Genova viene prontamente contrastato costringendo il Marchese a rifugiarsi nuovamente a Novi.
Nel febbraio del 1747, il Marchese Antoniotto Botta Adorno che tradendo la Patria d'origine volle umiliare l'intera città di Genova, viene ripagato con ugual moneta subendo l'umiliazione della sostituzione al comando delle truppe.
Successivamente, anche il nuovo comandante Schulembourg tenta invano la presa di Genova.
Con la pace di Aquisgrana (18 ottobre 1748) ha termine il conflitto e la Repubblica mantiene il controllo sul Marchesato di Finale.
LA LEGGENDA DIVENUTA REALTA'
Il suo nome è una leggenda, indissolubilmente legata ad un quartiere, uno di quelli che non sono più come erano secoli fa.
Un tempo qui c’erano vicoletti ripidi e stretti, ora ci sono i grattacieli.
Un tempo qui c’era l’Ospedale di Pammatone, adesso al suo posto, nello stesso edificio, c’è il Tribunale.
Il tempo scorre, cambia la geografia delle strade, muta il profilo delle città.
Restano le memorie, i gesti, carichi di significato e densi di ideali, ideali nei quali ancora crediamo.
Siamo sempre stati ribelli, a Genova.
Siamo sempre stati poco inclini a farci assoggettare dal potere altrui.
Siamo un popolo indomito, schivo, duro, caparbio ed orgoglioso.
E qui, in questo quartiere, a Portoria, è nato il mito di Balilla.
La vicenda, assai nota, risale a giorni lontani, giorni bui e difficili, gli Austriaci occupano la città e i genovesi sono privati della loro indipendenza.
E’ inverno, è il 5 dicembre 1746, serpeggia lo scontento, i cuori battono come tamburi, la rabbia cresce ormai da giorni.
Nella piazza di Portoria, i soldati austriaci stanno trasportando un mortaio, che, a causa del peso eccessivo, provoca il cedimento della strada.
I soldati intimano i genovesi di aiutarli, ma questi, sdegnati, rifiutano.
Come è prevedibile, la reazione degli austriaci è violenta, prendono a minacciare il popolo, perché obbedisca all’ordine impartito.
Un ragazzo, con un gesto, accende la miccia della rivolta, infiamma gli animi e fa esplodere quel malcontento che da tempo alberga nel popolo tutto.
E’ lì, tra i suoi concittadini, è appena un adolescente, un fanciullo imberbe.
E non teme nulla, a lui il nemico non fa paura.
Pronuncia una frase, in dialetto, poche parole che passeranno alla storia:
Che l’inse?
Il loro significato è: la comincio?
E scaglia un sasso contro un ufficiale austriaco.
Balilla la comincia così, la rivolta.
Il popolo lo segue, piovono pietre sull’esercito nemico, e quelli che le tirano sono falegnami, facchini, pescivendoli, ciabiattini, merciai, è l’insurrezione.
Il 10 dicembre, cinque giorni dopo, la gente di Genova trionferà sull’invasore.
Ma chi è il ragazzo che ha lanciato quel sasso?
Il mito, per sua natura, necessita di un certo mistero e intorno alla figura del Balilla molti sono gli interrogativi rimasti insoluti.
Dieci anni dopo, in una traduzione dialettale di La Gerusalemme Liberata, per la prima volta comparirà il soprannome con il quale è ricordato questo giovane coraggioso, la cui reale identità rimane non del tutto chiarita.
Ma il mito supera la realtà, va oltre, si imprime nella memoria storica e resta inciso per l’eternità; e così Goffredo Mameli, il cantore dell’Unità e autore del nostro inno nazionale, dedicherà un verso al suo giovane concittadino, queste sono le sue parole: i bimbi d’Italia si chiaman Balilla.
Ma davvero, quale fu il suo vero nome?
Molteplici sono le interpretazioni; la più accreditata, risalente al 1845 identifica il ragazzo che lanciò il sasso in un certo Giovanni Battista Perasso.
Originario di Montoggio, avrebbe avuto diciassette anni all’epoca degli eventi di cui fu protagonista ed abitava a Portoria, dove era a bottega per apprendere l’arte di tintore. Ma a Genova, a quel tempo, visse un altro giovane che ugualmente si chiamava Giovanni Battista Perasso, di sei anni più giovane del suo omonimo.
Si scoprì, in seguito, che il primo dei due ragazzi, Giovanni Battista Perasso da Montoggio, aveva subito un processo per contrabbando di sale, per il quale gli venne comminata una condanna a due anni di galera.
Il padre, nell’implorare la clemenza delle autorità, fece presente che in passato il figlio si era comportato bene, ma non fece cenno ad una sua attiva partecipazione alla rivolta del ’46 e ciò ha fatto dubitare gli storici del fatto che si tratti del vero Balilla.
Si è aggiunta inoltre, in anni più recenti, una terza figura risponde al nome di Andrea Podestà.
Nativo di Portoria, di professione stoppiere, faceva parte della Compagni degli Scelti, una sorta di corpo militare i cui componenti prestavano servizio di guardia.
Anch’egli era noto come Balilla, lo si è desunto da alcuni documenti d’archivio che riguardano un processo per rissa nel quale il Podestà ricopriva il ruolo di imputato.
Tutt’altro che un tipo tranquillo, quindi.
Non è realmente chiarita la reale identità di Balilla, se consultate i testi risorgimentali il nome più diffuso è Giovanni Battista Perasso da Montoggio, a lui è attribuito il famoso gesto, è lui che viene riconosciuto come il vero Balilla.
Le autorità del tempo, si legge in testi dell’epoca, per sdebitarsi con questo valoroso cittadino, gli concessero la licenza di aprire un fondaco di vino alle porte del Portello.
Mito, agiografia, leggenda.
Di questo è ammantata la vicenda di un ragazzo che passò alla storia.
E forse poco conta sapere chi fosse realmente, certo è che visse a Genova, nel 1746.
E chiunque egli fosse, è rimasto nei cuori e nei pensieri dei genovesi.
Lanciò una pietra contro il nemico, questo fece.
Quando i tedeschi, nella II^ Guerra Mondiale, tornarono a Genova, un ignoto scrisse sotto la statua dedicata al Balilla
“Chinn-a zù, che son torna chì.”
Scendi giù, che sono di nuovo qui.
Dal libro “Magia Ligure” di Kazimiera Alberti, la cronaca della ribellione genovese:
"...Il mortaio rimase dove era, ed attorno a questo trofeoil popolo decise di scacciare completamente gli austriaci da Genova. Si adunò tutto il sestiere di Portoria . Al grido A palazzo! A palazzo a prendere le armi!” si avviò verso il palazzo ducale….
...I senatori, pieni della loro responsabilità, non vollero cedere le armi richieste….La folla, vista La mancanza di decisione del senato, seppe trovare le armi dovunque erano. Ma in tale ricerca non toccò altro, al di fuori delle armi. Fu nominato un quartier generale che si installò nel collegio dei gesuiti. Lo componevano tappezzieri, pittori, pescivendoli, scritturali, commercianti, calzolai, tintori, fornai facchini, osti. Generale delle milizie un mediatore. Presidente: Tommaso Assereto, detto l’indiano.
I nobili e coloro che avevano qualcosa da perdere si erano asserragliati in casa…..Al popolo si aggiunsero le truppe della Repubblica, stanche di starsene in ozio nelle caseme. Gli stessi detenuti della Malapaga e le ciurme delle galere generosamente si dimostrarono degni della libertà loro concessa e della fiducia avuta…..
….Gli austriaci perdettero quasi 8000 uomini (di cui 1000 morti) e 800 ufficiali. I popolani ebbero solo 30 feriti e 13 uccisi. La stessa sera del 10 ...Giovanni Carbone, garzone di osteria, a nome del popolo si presentava a palazzo, dove il Doge ed i senatori erano riuniti in attesa che il tempo decidesse per loro. Recava le chiavi della porta S. Tommaso, la più contesa, e la consegnava al Doge, accompagnando il gesto con queste parole:
«Signori, ecco le chiavi che loro, con tutta franchezza, hanno dato ai nostri nemici: procuriamo in avvenire di meglio custodirle, perché noi col nostro sangue recuperate le abbiamo!»
….La rivolta genovese del 1746 offre spunto a molte e diverse considerazioni. Come già Cola da Rienzo e Masaniello, Balilla fornisce ancora una prova di cosa possa la ferma decisione di un popolo. E come proprio nelle classi umili, in coloro che nulla hanno da perdere ma anche nulla da guadagnare, risieda quell’audacia, quel sentimento, quell’erica incoscienza contro cui mai nulla han potuto ‒ e nulla potranno mai ‒ le più poderose armate di ogni tempo….”
il quartiere della rivolta
l'iscrizione sotto il suo monumento
la via a lui dedicata
CURIOSITA'
Il Balilla compare nella versione integrale nell'Inno d'Italia e precisamente:
Fratelli d'Italia,
L'Italia s'è desta;
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma;
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci;
L'unione e l'amore
Rivelano ai popoli
Le vie del Signore.
Giuriamo far libero
Il suolo natio:
Uniti, per Dio,
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.
Dall'Alpe a Sicilia,
Dovunque è Legnano;
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla;
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute;
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia
E il sangue Polacco
Bevé col Cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
L'Italia chiamò.
Il Balilla, durante il fascismo rappresentava la generazione nuova
ma anche un fucile, il "balillino"
un'auto che faceva sognare gli italiani
e il famoso calcio "balilla"
detto anche "biliardino"
fu scritta anche una canzone in suo onore. -
.
La Lanterna
La Lanterna di Genova (o semplicemente "Lanterna", in genovese a Lanterna de Zena o a Lanterna) è il faro portuale del capoluogo della Liguria, la città un tempo definita la Superba o Dominante dei mari.
Oltre che strumento indispensabile alla navigazione notturna delle navi in entrata ed uscita dal porto, la Lanterna è anche il monumento simbolo cittadino, quasi un totem alla genovesità, e come tale fa parte della storia della città.
Con i suoi settantasei metri è il faro più alto del Mediterraneo ed il secondo in Europa dopo il Faro di Île Vierge, nel dipartimento francese di Finistère, che nel 1902 tolse alla Lanterna il primato mondiale superandola in altezza di circa cinque metri. Risulta attualmente essere il quinto faro più alto del mondo ed il secondo, sempre dietro quello di Île Vierge, fra quelli tradizionali, ossia costruiti dalle rispettive autorità portuali con lo scopo primario di supporto alla navigazione.[4] Considerata nella sua monumentalità, che comprende anche lo storico scoglio sul quale si poggia, raggiunge i 117 metri d'altezza.
L'edificio consiste in una torre su due ordini di sezione quadrata con terrazza alla sommità di ciascun ordine. Costruito nella sua struttura attuale nel 1543, è inoltre il terzo faro più antico al mondo fra quelli tuttora in attività, dopo la Torre di Hércules, faro della città spagnola di La Coruña e il faro di Kõpu, sull'isola estone di Hiiumaa.
La Lanterna sorge al margine orientale del quartiere di Sampierdarena, su uno scoglio isolato oggi interamente inserito all'interno del contesto portuale, estrema punta di quella che un tempo era la collina di promontorio di San Benigno.
Il luogo in cui fu costruita veniva chiamato Promontorio poiché, prima che la mano dell'uomo ridisegnasse i contorni della baia genovese, era circondato da tre lati dal mare. Ad ovest la collina delimitava l'originario porto di Genova, quello che oggi è il porto antico. Con il passare del tempo la collina ha assunto il nome di Capo di Faro o di San Benigno, dal nome dell'omonimo conventoche su essa sorgeva. Di fatto oggi la collina non esiste più, rasa al suolo nella seconda metà degli anni '20 del XX secolo per creare nuovi spazi per la città, il porto stesso ed i suoi insediamenti produttivi, e l'unica porzione che ne è rimasta oggi è proprio la piccola propaggine rocciosa su cui sorge il faro.
Parallelamente, fra gli anni venti e gli anni trenta si sono svolti i lavori per l'ampliamento del Porto di Genova, con la creazione dei nuovi moli di Sampierdarena, realizzati tramite cospicui riempimenti a mare. In seguito all'operazione lo scoglio della Lanterna non è più direttamente sul mare ma a breve distanza da esso, in corrispondenza del molo di Ponte San Giorgio.
La Lanterna è costituita da una torre su due ordini di sezione quadrata, costruita in pietra naturale dalle cave di Carignano, con terrazza aggettante alla sommità sia del primo che del secondo tronco. Per raggiungere la sommità al suo interno si sviluppa una scala in muratura di 365 gradini totali, di cui 172 aperti al pubblico per raggiungere la prima cornice.
Si tratta di un faro di II ordine. La lanterna è posta sulla sommità della torre ed è costituita da un ambiente a pianta circolare di 4 metri di diametro, con vetrata di 3,44 metri di altezza. L'ottica rotante, da 700 mm di distanza focale, è formata da 4 pannelli lenticolari con assi a 45° e 135°, parte diottrica con occhio di bue centrale, 3 elementi anulari superiori e 10 inferiori tutti interrotti lateralmente; su ogni pannello è sistemato un secondo pannello di prismi deflettori per il funzionamento aereo. Oltre all'ottica principale ed al relativo impianto il faro è dotato di un gruppo elettrogeno di soccorso per l'alimentazione elettrica degli impianti di emergenza e del FIR (faro elettrico indipendente di riserva).
La Lanterna nel Medioevo
La prima torre, secondo alcune fonti non ufficiali, risale all'epoca medioevale (1128) ed era caratterizzata da una struttura architettonicaformata da tre tronchi merlati sovrapposti. Purtroppo non si hanno riscontri ufficiali poiché i documenti del secolo XI, le prime cronache e gli atti ufficiali del nascente comune genovese forniscono dati sicuri sulla torre di segnalazione, ma non la sua data esatta di costruzione. Alla sommità venivano accesi, allo scopo di segnalare i legni di avvicinamento, fasci di steli secchi di erica ("brugo") o di ginestra ("brusca") allo scopo di segnalare le navi in avvicinamento, i cui padroni dovevano pagare una tassa "pro igne facendo in capite fari"[5] al momento dell'approdo. La torre sorgeva lungo la strada di collegamento tra Genova ed il ponente, la cosiddetta Via di Francia, che costeggiava l'arco portuale ed il Promontorio, sull'ultima propaggine della costa di Sampierdarena, allora luogo di villeggiatura, su cui si affacciavano numerosi palazzi e ville nobiliari. All'epoca la strada era probabilmente a picco sul mare e passava a mare del faro; le rappresentazioni grafiche della strada la descrivono invece in una veste più recente, sicuramente non anteriore al XVII secolo, passante all'interno del faro attraverso la cosiddetta "tagliata", una profonda trincea scavata a monte della Lanterna.
A livello urbanistico la Lanterna era in quel periodo quindi relativamente lontana dalla città, e solo nel XVII secolo venne inglobata nella cosiddetta Cerchia Seicentesca, la poderosa cerchia di mura lunga quasi diciannove chilometri attorno alla città, quasi interamente esistente ancora ai nostri giorni.
La torre diventò protagonista della guerra tra Guelfi e Ghibellini, quando venne danneggiata da questi ultimi che tentarono di far scendere i guelfi che vi si erano rifugiati all'interno.
Era il 1318 e, tre anni dopo, nel 1321, si procedette ad un primo consolidamento scavando un fossato a difesa. Nel 1326 vennero installate in entrambi i fari le prime lanterne alimentate ad olio di oliva[6], per aiutare le navi a bene individuare l'ingresso alla città. Del 1371 è la prima raffigurazione grafica del fare di Capo Faro (perlomeno tra quelle giunte a noi), presente nella copertina della pergamena intitolata Manuale dei Salvatori del Molo e del Porto[7]. Attorno al 1400 la torre diventò anche prigione per ospitare come ostaggi, per cinque anni, il re di Cipro, Giacomo di Lusignano, qui rinchiuso assieme alla moglie.
A meglio identificare la Lanterna con la città, nel 1340[8] venne dipinto alla sommità della torre inferiore lo stemma del Comune di Genova, opera del pittore Evangelista di Milano. Nel 1405 i sacerdoti guardiani della Lanterna posero sulla cupola un pesce ed una croce di metallo dorato, simbolo di cristianità e nel 1413 un decreto dei "Consoli del Mare" stanziò un fondo di "lire 36" per assicurare la gestione del faro, divenuto ormai indispensabile per la sicurezza della navigazione.
La ricostruzione del 1543
Nel 1507, durante un periodo di dominio francese sulla città, re Luigi XII fece edificare ai piedi della Lanterna il "Forte Briglia", una fortificazione atta ad ospitare la guarnigione dell'esercito invasore. Dal forte, con il supporto di un vascello da guerra che bloccava il traffico navale, nel 1513 i francesi assediarono il porto di Genova, liberato in seguito dalle forze genovesi capitanate da Andrea Doria, comandante del porto e della flotta. Durante questa battaglia la Lanterna venne pesantemente danneggiata dal fuoco amico dei colpi di bombarda esplosi dagli insorti genovesi contro i dominatori francesi.
Dopo trent'anni, nel 1543, la Lanterna venne ricostruita per volontà del doge Andrea Centurione Pietrasanta che fece finanziare il lavori dal Banco di San Giorgio. Il faro assunse così l'aspetto attuale, legato stilisticamente al mondo rinascimentale, applicando ai plinti di coronamento mensole aggettanti.
Fu posta in opera una nuova lanterna con cupola costruita in doghe di legno di rovere e ricoperta con fogli di rame e di piombo fermati con ben 600 chiodi di rame. Per l'occasione fu posta alla sommità della prima torre, all'interno del ballatoio, una targa a memoria della ricostruzione. La lanterna era formata da un'ampia vetrata i cui vetri, di notevole spessore e peso, erano forniti, così come già dal 1326 da maestri vetrai dapprima liguri ed in seguito veneziani. I vetri della lanterna spesso esplodevano si spaccavano o si inclinavano a causa della violenza del vento, delle oscillazioni della torre, della deformazione dei montanti in ferro per la caduta di fulmini e non ultimo per avvenimenti bellici, per cui erano richiesti in gran quantità. Ai fanalisti, custodi della Lanterna o Turrexani della torre, così definiti nei documenti del tempo, si faceva obbligo di vivere con la famiglia all'interno della torre e "di curare che i vetri fossero sempre tersi e puliti affinché la luce della lampada apparisse nitida e brillante".
Nel 1565 si ritornò a lavorare sulla cupola per renderla stagna e, nel 1681 si ricostruì la cupola con legno di castagno selvatico ricoprendo il tutto con pece e stoppa, ed infine con fogli di piombo stagnati a bordi sovrapposti.
L'assedio francese
Nel 1692 si ebbe poi la ricostruzione della vetrata distrutta dal bombardamento del 1684 voluto dall'ammiraglio franceseMarchese di Segnalay per ordine di re Luigi XIV.
A seguito dei ripetuti danni causati dai fulmini e dagli avvenimenti bellici, nel 1711 la torre venne incatenata a mezzo di chiavardee tiranti che ancora oggi sono visibili all'interno e nel 1791 vennero effettuati, alla base della prima torre, lavori di consolidamento per renderla più stabile. Al 1778 risale la costruzione di un impianto antifulmine ad opera del fisico Padre Glicero Sanxais, destinato a mettere fine ai numerosi danni provocati dai nell'arco di diversi secoli dai fulmini. Va detto che per secoli l'illuminazione è avvenuta con lampade di metallo o di vetro a stoppino.
Le innovazioni del Risorgimento e del Novecento
Nel 1840 venne realizzata un'ottica rotante su carro a ruote con lente di Fresnel e il 15 gennaio del 1841 venne acceso ed avviato il nuovo sistema di illuminazione, il cui studio era stato eseguito dal Professor Plana. Il nuovo impianto si componeva di una lanterna di diametro di 4 metri, di forma dodecagonale a 4 ordini di cristalli piani sul lato verso mare, mentre la parte verso monte, nel settore fra 110° e 290°, era oscurata per mezzo di lamiere di rame di forma circolare. La base della Lanterna poggiava dal lato mare su lastre di piombo e dal lato terra su lastre di ferro; il tutto era rinforzato con montanti e traversini di ferro. Le principali caratteristiche erano: luce bianca fissa con portata a 15 miglia a cui erano sovrapposti splendori intervallati di un minuto visibili fino a 20 miglia circa.
Verso la fine dell'Ottocento il faro iniziò ad essere ritenuto inadeguato in relazione all'arco di costa che doveva segnalare; nel1881 si propose persino di declassarlo e di costruirne uno nuovo sul promontorio di Portofino, in questo meglio rispondente alle necessità della navigazione. Tale proposta venne tuttavia accantonata tre anni dopo, perché alla luce delle nuove possibilità che l'evoluzione tecnica consentiva, fu possibile adottare la soluzione di potenziare il faro di Genova in modo da ottenere la copertura della costa a est fino al settore del Faro del Tino e ad ovest fino al settore del Faro di Capo Mele.
Dopo gli ulteriori aggiornamenti del 1898 e del 1913, nel 1936 si ebbe il passaggio alla elettrificazione moderna. Quindi nel1956, dopo i danni ricevuti dall'aviazione statunitense e britannica nella Seconda guerra mondiale, la vecchia lanterna venne sostituita insieme all'ottica rotante ed a tutti i congegni. Le dimensioni della nuova lanterna, per non modificare lo stile architettonico dell'antico monumento, furono similari alla precedente del 1841. Contestualmente venne inoltre sistemato un impianto per l'erogazione dell'energia di emergenza, messo in opera un montacarichi nell'angusto spazio della tromba delle scale e ritinteggiato lo stemma della gloriosa Repubblica Marinara sulla facciata della torre inferiore.
Come ultima modifica degna di nota, nel 1970 l'antico impianto di rotazione a peso motore, rimasto in sito quale riserva, fu sostituito da un impianto di rotazione elettrico ed a seguito dell'apertura dell'aeroporto di Genova, posto a pochi chilometri della torre, alla sommità della cupola della Lanterna fu messo in opera un fanale intermittente rosso, di modesta portata, quale segnale di pericolo per gli aerei.
L'intero complesso, comprendente faro, fortificazioni, piazzali e parco urbano, è stato restaurato e reso accessibile al pubblico tra il 1995 ed il 2004.
Il Museo della Lanterna
Annesso alla torre sorge il Museo della Lanterna raggiungibile attraverso una passeggiata di circa seicento metri che costeggia levecchie mura fino ai piedi del faro partendo da via Milano (parcheggio del terminal traghetti). L'area è raggiungibile dal vicino casello autostradale di Genova-Ovest (Sampierdarena).
Dopo una prima opera di riqualificazione del sito portata a termine nel 2004, nell'aprile del 2006 è stato completato ad opera della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici della Liguria il restauro e l'adattamento della Porta Nuova della Lanterna, adiacente alle fortificazioni che ospitano i locali del museo (in origine la porta aveva una rotazione di 90° in direzione nord, chiudendo l'accesso alla città dalla parte di ponente).
In particolare, il lavoro di restauro ha riguardato il riassetto e la pulizia degli elementi in marmo della porta, il riposizionamento di elementi distaccati dall'attico e la sistemazione della pavimentazione in pietra antistante la via di accesso. Contestualmente è stata ripristinata l'agibilità del parco urbano situato a nord della torre.
Lo scopo principale del Museo della Lanterna è quello di restituire il nuovo spirito che anima Genova dopo i massicci interventi di restauro a cui è stata sottoposta negli anni novanta, fornendo testimonianze sulla trasformazione della città e sulla sua scelta di mantenere vivi i più significativi legami con il proprio storico passato.
In questo senso essenziali sono i materiali video di repertorio e d'archivio, i filmati di attualità (frutto di circa 250 ore di riprese per oltre otto ore complessive di documentazione video) e le fotografie restituite con effetto olografico in grado di fissare le fasi della trasformazione urbanistica e del vissuto cittadino, trasformazione esplicata anche attraverso una grafica didascalica multilingue. L'indagine visiva approfondisce e mette in stretta connessione, nella sostanza, temi e situazioni che solo apparentemente sono slegati tra di loro.
Una parte del museo - ovvero le Sale dei cannoni - è riservata specificatamente all'uso ed alla funzione dei fari navali e ai sistemi di segnalamento in mare. Un tipo particolare di lente - la lente di Fresnel, simile a quella adottata dal faro genovese - riproduce per il visitatore, con il proprio fascio di luce in rotazione, la visione in soggettiva dall'interno dell'ottica di un faro vero e proprio.
All'interno del museo sono ospitate periodicamente anche mostre tematiche.
Curiosità
Una leggenda narra che il progettista della Lanterna venisse lanciato nel vuoto proprio dalla sua cima, affinché non potesse ricreare in altro luogo una costruzione analoga.
Durante il periodo in cui la Lanterna fu utilizzata come prigione, essa ospitò come ostaggi per cinque anni il Re di Cipro Giacomo di Lusignano e sua moglie, che tra quelle mura diede alla luce il figlioletto Giano
Dai registri del faro si apprende che nel 1449 tra i custodi della Lanterna, venne nominato anche Antonio Colombo, zio paterno di Cristoforo.
Nel corso della storia la Lanterna è stata colpita più volte da fulmini; i danni più gravi si registrarono nel 1481 quando un fulmine colpì la torre uccidendo uno dei guardiani. Nel 1602 un fulmine colpì nuovamente la Lanterna demolendo la parte merlata della torre superiore. A seguito dell'episodio nel 1603, alla base esterna della torre superiore, venne murata, a scopo propiziatorio, una targa in marmo recante una scritta “Jesus Cristus rex venit in pace at Deus homo factus est”. Ancora oggi l'antica targa è murata su fronte a terra alla base della torre superiore, anche se oramai quasi illeggibile.
Un tempo la Lanterna non era sola, ma aveva una "sorella minore", chiamata Torre dei Greci, eretta dopo la metà del 1200 e che si trovava come in tutti i porti all'estremo opposto dell'arco portuale, all'incirca nella zona dove attualmente sorgono i Magazzini del cotone nel Porto Antico
Ed infine
A Lanterna è stato un periodico domenicale radiofonico del "Gazzettino della Liguria". Era un programma molto seguito, proponeva parecchie scenette spassose in dialetto, fra le quali la macchietta "U scu Ratella", un attacca brighe la cui filosofia di vita era che per far andar le cose bene ci volesse sempre una bella lite (ralella, appunto.
Lanterna de Zena l'è faeta a trei canti
Sono i primi versi di una vecchia canzone/ninnananna genovese
Video
le foto inserite sono a solo scopo didattico/culturale/educativo, non si intende violare alcun diritto d'autore
Fonte Wikipedia
....continua.....
Edited by Nihil Obest - 14/10/2018, 15:10. -
frida65.
User deleted
Molto interessante questa idea di parlare di Genova descrivendone la storia e la bellezza! Si coglie il tuo amore per questa città che considero tra le più interessanti e suggestive del nostro Paese e che ci ha regalato, tra gli altri, un poeta come De André..... . -
.Molto interessante questa idea di parlare di Genova descrivendone la storia e la bellezza! Si coglie il tuo amore per questa città che considero tra le più interessanti e suggestive del nostro Paese e che ci ha regalato, tra gli altri, un poeta come De André.....
...insieme a Marina (marmari) parleremo di tutto, anche della "scuola" genovese dei cantautori, dove sicuramente De Andrè occupa uno spazio importantissimo.
Grazie Frida
saluti
Piero e famiglia. -
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Su DeAndré ho qualche difficoltà, per eccesso di materiale. Ma poi ci si arriverà. . -
.Su DeAndré ho qualche difficoltà, per eccesso di materiale. Ma poi ci si arriverà.
con calma, prima ci sarà un "certo" Nicolò Paganini. -
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...una collina...un Principe...una fontana...una diga...un lagaccio...un biscotto che vive tuttora ...il Biscotto del Lagaccio...
Il biscotto del Lagaccio deve il suo nome al bacino artificiale del Lagaccio, voluto da Andrea D'Oria nel 1593, nelle cui immediate vicinanze nacque un forno che diventò famoso per un biscotto particolare.
All'origine, i biscotti del Lagaccio erano delle semplici fette di pane biscottate per consentire la lunga conservazione in barca. Ben presto diventarono celebri grazie all'utilizzo di ingredienti semplici e naturali, alla rinomata fragranza e all'elevata digeribilità dovuta alla lievitazione naturale e alla doppia cottura. Adatto alle prime colazioni è ottimo anche per una pausa pomeridiana e in altre innumerevoli occasioni.
Non esattamente un biscotto, sicuramente non un pasticcino, molto di più di una fetta biscottata: l'ennesima riprova della dolce ruvidità dei liguri.
ottimo semplice, fantastico con il miele o la marmellata fatta in casa, si accompagna benissimo con un tea corposo (tipo scottish o irish breakfast) o con del caffè miscela "robusta"...
CURIOSITA' e STORIA
Nel 1539 Andrea Doria, che aveva appena costruito la sua sontuosa villa di fronte al mare, sotto la collina di Granarolo, aveva necessità di una grossa riserva di acqua per la sua fontana del Nettuno, per i mulini del suo palazzo e per la provvista della flotta.
Con un’ardita opera di ingegneria idraulica, il Principe chiese al Maggior Consiglio e naturalmente ottenne di poter formare una diga tra le due colline di Oregina e Granarolo, per la raccolta della acque sorgive e piovane. Costruita la diga, si formò logicamente un lago artificiale, che poi fu di utilità anche per gli abitanti della zona, ma che, a voce di popolo era tanto vituperato da chiamarlo spregiativamente Lagaccio.
Naturalmente il Lagaccio dispiegò la sua opera benefica nella zona , e rese al Principe i servigi per cui era stato costruito.
Circa un secolo dopo, nel 1652 la Repubblica pensò bene di costruire in quella zona, ricca d’acqua, una fabbrica di polveri da sparo, per la lavorazione delle quali era necessaria una buona riserva idrica.
Il governo sardo, due secoli dopo ampliò la fabbrica e ne fece un opificio di proiettili e la Direzione di Artiglieria.
Tutto ciò potrebbe interessarci relativamente, se non che a quel primo insediamento si affiancò, un laboratorio della galletta per le flotte della Repubblica ed in quello stabilimento si iniziò a fare un biscotto ricco e leggero che prese il nome di Biscotto del Lagaccio, nome che ha conservato nei secoli, pur aggiornandosi e affinandosi.
LA RICETTA
RICETTA E PREPARAZIONE
Ingredienti e dosi: 2000 gr di farina 00; 1300 gr pasta lievitata; 1000gr zucchero; 850gr acqua; 800gr burro; 20gr semi di anice; 20 gr lecitina di soia; 5 gr sale. Dopo aver preparato la pasta lievitata, dopo la seconda lievitazione si aggiungono, nell’ordine i prodotti qui indicati in dosi: farina, zucchero, semi di anice, sale miscelati attraverso un setaccio. Addizionare a questa parte ”secca” l’acqua, il burro e la lecitina di soja. Impastare accuratamente prima di unire alla pasta lievitata e procedere per un composto unico e ben amalgamato.
Poggiare la massa d’impasto sul tavolo da lavoro infarinato e tagliare in pezzi da circa mezzo chilo cadauno.
Tornire i pezzi in filoni di una cinquantina di centimetri e porre a lievitazione su teglie unte, avendo cura di distanziare l’uno dall’altro, perché nel corso della lievitazione i filoni si sviluppano molto e naturalmente non devono toccarsi. Porre le teglie a lievitare in luogo ben caldo, perché si possa ottenere nel corso di sei - otto ore il massimo dello sviluppo. Quando la lievitazione sarà completata infornare a 190° - 200°C per una cottura e doratura perfetta. A cottura avvenuta, ritirare i filoni dal forno e porli su retina o tela con la parte bassa verso l’alto per un più rapido raffreddamento ed evaporazione della residua umidità.
Trascorse dodici ore dalla cottura, tagliare diagonalmente ( a mostacciolo) i filoni allo spessore di due centimetri e porli a biscottare in forno a 200°C prima da una faccia e poi dall’altra.
la vecchia diga
e cosa c'è adesso
il vecchio opificio militare
fonti utilizzate
DOLCE LIGURIA da Ventimiglia a Sarzana di Elio Casati e Giorgio Ortona - De Ferrari editore
le foto sono inserite a solo scopo didattico/culturale NON si intende violare alcun diritto d'autore
saluti
Piero e famiglia
Edited by Nihil Obest - 16/10/2018, 07:48. -
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Bene, ora che ci siamo rifocillati con dei sanissimi biscotti del Lagaccio, magari intinti in una bella tazza di latte e cacao, andiamo alla scoperta di una chiesa fra le più belle ed antiche della città, nascosta in mezzo ai palazzi del centro storico.Se dal Porto Antico saliamo verso De Ferrari, passando per gli orefici, prenderemo il vico S.Matteo. Alla fine della salita si aprirà una piazzetta e dinnanzi a noi apparirà la nostra chiesa Chiesa di San Matteo
Si affaccia sull'omonima piazza, che nel Medioevo era il centro dell'insediamento della famiglia Doria, e rappresenta forse l'angolo meglio conservato della Genova medioevale. La chiesa è formalmente ancora oggi abbazia dei Doria.
La Chiesa di S. Matteo nacque come cappella gentilizia della famiglia Doria.
Nel 1125, il vescovo di Genova Sigifredo concesse a Fra Martino Doria, che rimasto vedovo era entrato nel convento benedettino di Capodimonte a San Fruttuoso, di costruire, sui terreni di sua proprietà, la piccola chiesa.
Venne dedicata a San Matteo perché in vita era stato gabelliere, come i Doria lo erano per la Repubblica.
La consacrazione del tempio eretto "al Campetto dei Fabbri in loco Domoculta", fu fatta nel 1132 dal vescovo Siro, alla presenza di papa Innocenzo II. Oberto nel 1266 portò una bella campana per il campanile, presa da una torre veneziana, come bottino di guerra.
Nel 1278 venne costruita la piazza, si effettuò un primo ampliamento dell'edificio e venne aggiunta la facciata a bande bianche e nere sulle quali vennero incise le gesta della Famiglia.
Agli inizi del secolo successivo, fu costruito il chiostro, al quale si accede dalla piazza attraverso un arco a lato della chiesa.
Il chiostro che, come si legge dall’iscrizione di un capitello angolare, venne realizzato nel 1308 da un "Magister Marcus Venetus” ha mantenuto l’originaria forma quadrangolare e l’elegante sequenza di colonnine binate che sostengono la serie dei leggeri archi acuti. Nel centro il pozzo; all'interno sulle pareti sono murate le lapidi che riguardano la famiglia (in parte provengono dalla chiesa di San Domenico demolita per fare posto al teatro Carlo Felice in piazza De Ferrari) e copia del bassorilievo di Portopisano. Vi è anche una preziosa arca fatta costruire nel 1356 da Raffaello Doria, usata sino al 1934 per custodire i corpi dei Santi Mauro ed Eleuterio patroni di Parenzo.
Della chiesa realizzata nel XIII secolo rimane pressoché inalterata la facciata, mentre il carattere gotico dell’interno è stato quasi interamente cancellato dai successivi rifacimenti cinquecenteschi, rimangono alcune tracce negli archi ogivali che inquadrano la cupola.
La struttura dell’edificio gotico, a pianta longitudinale, aveva verosimilmente tre navate, copertura lignea, transetto non sporgente e tre absidi. Probabilmente inoltre vi era un tiburio ottagonale successivamente trasformato in cupola.
Tra il 1543 e il 1559 Andrea Doria affidò a Giovanni Montorsoli la ristrutturazione del presbiterio con la costruzione della cripta sottostante e a Giovanni Battista Castello il Bergamasco, insieme a Luca Cambiaso, il completamento della ristrutturazione.
Le trasformazioni operate determinarono all’interno una strana commistione tra elementi gotici ed elementi rinascimentali, e una nuova distribuzione degli spazi dovuta all’eliminazione di una distinzione netta tra navate e transetto, forse motivata dalla volontà di dare all’ambiente una più forte impronta cinquecentesca.
Per quanto riguarda la ricca decorazione affidata a stucchi ed affreschi, sono chiaramente identificabili l’apporto del Montorsoli nella cripta, nella zona absidale e nel transetto e l’opera del Bergamasco e del Cambiaso nelle navate.
Nella chiesa sono sepolti molti dogi Doria (altri erano in S. Domenico o a S. Fruttuoso di Camogli) tra questi Oberto, vincitore della Meloria, Pagano dominatore dei greci e dei catalani, Luciano espugnatore di Pola, Lamba trionfatore a Curzola, e in un magnifico sarcofago il più grande di tutti: Andrea.
Dal 1910 al 1930 ebbero corso lavori di sistemazione del chiostro, della facciata e della piazza antistante la chiesa. Restauri del 1934 intervennero a correggere in parte trasformazioni cinquecentesche poco indovinate. La scalinata d'accesso al piazzale, unica anziché doppia, è lavoro del 1935.
Negli anni 1991-92 in occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America, il Banco di Chiavari e della Riviera Ligure sponsorizzò il rifacimento delle coperture e il restauro conservativo della facciata e del chiostro.
In riferimento alla sua posizione giuridica si sa che la chiesa fu dapprima priorato dipendente dall'abbazia di San Fruttuoso di Capodimonte. Per decreto di Nicolo V divenne badia benedettina nel sec. XV; dal 1621 i Doria cominciarono a nominare abati dal clero secolare.
Da una vertenza del 22 settembre 1235 risulta che la parrocchialità privata era già in atto, anche se furono due bolle di papa Giovanni XXIII (uno dei tre che tra il 1410 e il 1415 si presentarono come papi contemporaneamente) che nel 29 gennaio 1413 costituirono ufficialmente per i Doria il diritto parrocchiale, quello di patronato e la diretta dipendenza di S. Matteo dal Sommo Pontefice.
ESTERNO
Della sistemazione gotica si è conservata intatta la facciata a strisce bianche (marmo) e nere (pietra di Promontorio), tripartita da due leseneincorniciate da archetti; il paramento bicromo è arricchito da un grande rosone centrale e da due larghe monofore ai lati. Nel prospetto è inserito unsarcofago tardoromano (secondo l'uso locale, attestato anche nella cattedrale di San Lorenzo) con Allegoria dell'autunno, già sepoltura di Lamba Doria, che lo aveva portato da Curzola (Dalmazia). Le liste di marmo bianco sono ricche di iscrizioni che esaltano le gesta di alcuni componenti della famiglia Doria. Nella lunetta sopra al portale d'ingresso è inserito un mosaico medioevale raffigurante S. Matteo.]
INTERNO
Con la ristrutturazione cinquecentesca l'interno, a tre navate, ha perso quasi completamente il carattere gotico originario, del quale restano solo i quattro archi ogivali alla base della cupola, sostenuti da due pilastri verso il presbiterio e due colonne verso le navate. La navata centrale è separata da quelle laterali da colonne binate. La cantoria, l'altare con trofei, i due pulpiti e le urne del presbiterio sono attribuiti a Silvio Cosini e Giovanni Angelo Montorsoli.
Tutte le decorazioni presenti sono riconducibili alla ristrutturazione cinquecentesca. Nella volta della navata centrale si trovano il Miracolo del dragone d'Etiopia di Luca Cambiaso e la Vocazione di San Matteo di Giovanni Battista Castello. Sull'altare alla destra del maggiore è collocato un dipinto della Sacra Famiglia con Sant'Anna di Bernardo Castello, del XVI secolo; in quello di sinistra, Cristo tra i Santi e i Donatori di Andrea Semino.
Alle pareti del presbiterio si trovano le arche in marmo dei santi Pelagio e Massimo, patroni di Cittanova, in Istria, le cui reliquiesarebbero state trasportate a Genova da Gaspare Spinola nel 1381. Sotto all'altare maggiore è conservata una spada appartenuta al "Padre della Patria" Andrea Doria, donatagli secondo la tradizione dal pontefice Paolo III.]
In una nicchia della navata sinistra si trova una Deposizione di Gesù nel sepolcro, scultura lignea policroma di Anton Maria Maragliano, mentre le statue nelle nicchie dell'abside (Pietà, di ispirazione michelangiolesca, Davide, Geremia, S. Giovanni Battista, e Sant'Andrea) sono opera del Montorsoli, al quale si deve anche la cripta sotto il coro, con la volta in stucchi dorati, alla quale si accede per una scala in marmo, che ospita la tomba di Andrea Doria, anch'essa opera dello stesso artista. Nella chiesa si trovano anche le tombe di altri esponenti della famiglia Doria, tra cui Lamba Doria, vincitore di Curzola, Oberto, vincitore della Meloria,Luciano, artefice della vittoria nella battaglia di Pola, in cui egli stesso perse la vita, Filippino, Giannettino e Pagano.
Un tempo nella chiesa si conservava lo stendardo preso ad una galea pisana nella battaglia della Meloria del 6 agosto 1284, qui deposto da Oberto Doria ed ancora esistente nel XVII secolo.
Organo
Nella chiesa si trova un antico organo a canne barocco, costruito dall'organaro romano Antonio Alari nel 1773. Lo strumento, collocato sulla cantoria del transetto sinistro, è atrasmissione meccanica ed ha un'unica tastiera di 45 note con prima ottava scavezza ed una pedaliera a leggio scavezza di 14 pedali costantemente unita al manuale e sempre con il registro di Bassi 8' inserito; il 14° pedale non corrisponde a nessuna nota, ma al Tamburo. Il prospetto dello strumento è composto da 23 canne appartenenti al registro diPrincipale 8' formanti un'unica cuspide e suddivise in tre campi da un elaborato intaglio dorato.
CHIOSTRO
Dalla piazza attraverso un arco sul lato sinistro della chiesa si accede al chiostro, racchiuso tra le facciate delle case adiacenti; di forma quadrangolare, con eleganti archi a sesto acuto in mattoni su colonnine binate, fu costruito tra il 1308 ed il 1310 ad opera di un "Magister Marcus Venetus"] per volere del priore Andrea di Goano, come ricorda l'iscrizione su un capitello presso l'ingresso; al centro sorge un piccolo pozzo. Lungo le pareti del loggiato, numerose lapidi sepolcrali della famiglia Doria, in gran parte provenienti dalla demolita chiesa di S. Domenico], ed un'arca marmorea fatta costruire da Raffaello Doria nel 1356 per custodirvi i corpi dei santi Mauro ed Eleuterio, patroni di Parenzo, trafugati nel 1354 dalla cittadina istriana, alla quale furono restituiti nel 1934; dopo la restituzione delle reliquie, l'arca ormai vuota fu spostata dall'interno della chiesa al chiostro.]
Dal 2004 l'antico chiostro è divenuto la sede dell'Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori di Genova.
Video
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Edited by Nihil Obest - 19/10/2018, 18:39. -
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...dediche...frasi...impressioni...proclami...Genova declamata nel corso dei secoli FRASI STORICHE SU GENOVA
Quando durante la guerra ero sfollato in Piemonte, Genova per me era un mito. A cinque anni la vidi per la prima volta e me ne innamorai subito, tremendamente.
(Fabrizio De Andrè)
Arrivando a Genova vedrai una città imperiosa,
coronata da aspre montagne,
superba per uomini e per mura,
signora del mare.
(Francesco Petrarca)
Quando uno va a Genova è ogni volta come se fosse riuscito ad evadere da sé: la volontà si dilata, non si ha più coraggio di essere vili. Mai ho sentito l’animo traboccante di gratitudine, come durante questo mio pellegrinaggio attraverso Genova.
(Friedrich Nietzsche)
Genova è la città più bella del mondo.
(Anton Čechov)
Da Voltri a Genova si vedono sempre case, tutto annuncia una grande città. Presto il porto appare e si vede la bella città seduta ai piedi delle montagne: il faro della Lanterna, come un minareto, dà all’insieme qualche cosa d’orientale e si pensa a Costantinopoli.
(Gustave Flaubert)
Genova austera, vibrante, ampia! Luogo unico dai trecento ripiani a terrazza sul mare, ornata di parchi stupendi! Genova, dove i tramways sono gli ascensori! Le strade ed i quartieri, sovrapposti, si aggrovigliano, si superano, si ricongiungono, si dividono ancora… Città a sorpresa!, il cui uso insinua un’astuta saggezza: una scalinata, un àndito, un archivolto, una passerella, una galleria conducono in pochi minuti ad un palazzo, ad una piazza alla quale non si sarebbe giunti che in un’ora, seguendo le strade.
(Valery Larbaud)
Splendida città che ti specchi nelle acque azzurre del Mediterraneo. Le rocce e i promontori, il cielo luminoso e gli allegri tuoi vigneti erano il mio mondo…
(Mary Shelley)
Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al compimento del trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi carruggi, gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le graziose di via del Campo. I fiori che sbocciano dal letame
(Fabrizio De Andrè)
Preferisco Genova a tutte le città che ho abitato.
Mi ci sento perduto e familiare, piccolo e straniero
(Paul Valery)
In alto, sulla cima delle colline, giardini lussureggianti, ville marmoree, veri nidi d’amore che fanno ricordare i voluttuosi alberghetti francesi del tempo della Reggenza; in basso, vicino al porto, quartieri che sono veri ghetti con viuzze strette e sotterranee, dove le grondarie si toccano e tre persone non possono camminare fianco a fianco per la rapida discesa dell’acciottolato.
(Vicente Blasco Ibanez)
Mi piacerebbe restare qui, preferirei non procedere oltre. Può darsi che vi siano in Europa donne più graziose, ma io ne dubito. La popolazione di Genova è di centoventimila anime: di queste, due terzi sono donne, e almeno due terzi delle donne sono belle; ben vestite, fini, leggiadre quanto si può senza essere angeli. Gli angeli, però, non sono molto ben vestiti, mi pare: almeno quelli dei dipinti: non hanno che le ali
(Mark Twain)
Ho visto una bellissima strada, la via Aurelia, ed ora sono in una bella città, una vera bella città, Genova. Cammino sul marmo, tutto è di marmo: scale, balconi, palazzi. I palazzi si toccano tanto sono vicini e, passando dalla strada, si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati. Vado a visitare le chiese, sento cantare suonare l’organo, guardo i monaci, osservo i paramenti sacri, gli altari, le statue; in altri momento (ma non so bene quali) forse avrei riflettuto di più e guardato di meno. Invece qui spalanco gli occhi su tutto, ingenuamente, semplicemente, e forse è molto meglio…
(Gustave Flaubert)
I genovesi è difficile osservarli: vi guizzano di continuo davanti agli occhi, corrono, si affacendano, scorazzano di qui e di là, si affrettano. I vicoli verso il mare brulicano di gente, ma quelli che stanno fermi non sono genovesi, sono marinai di tutti i mari e di tutti gli oceani .
( Aleksandr Herzen)
Genova è la città di marmo.
(Vicente Blasco Ibanez)
Vengo da Amburgo, vengo da Francoforte, vengo dalla Sardegna ma vengo soprattutto da Genova. Genova, che tutte le volte che ti ci trovi fuori ti rendi conto che è una città soprattutto da rimpiangere. Nel senso che ci nasci e ci vivi fino a vent’anni – dove un nostro amico poeta diceva che si arde di inconsapevolezza – poi a vent’anni cerchi di trovare lavoro e (…) ti rendi conto che è difficile lavorarci. Allora te ne vai. E dopo che te ne sei andato cominci a rimpiangerla.
(Fabrizio De André)
Io sono nato a Genova: funicolari ascensori crêuze
Io sono nato a Genova, città viva di troppe attese
Genova città ripida, buone gambe per camminare
Flipper messo in bilico, dove rotola un temporale.
(Max Manfredi)
E lungo tutta la Foce l’acqua era limpida e pura
E sugli scogli i pescatori avevano la mano sicura
È così che tanti anni fa era il nostro quartiere
(Bruno Lauzi)
Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.
(Giorgio Caproni)
Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d’urti da non scordare.
(Giorgio Caproni)
Genova la conosci: è imponente, solida, quasi altera, pulita, benestante; notevolissima è la diffusione della lingua tedesca negli alberghi e nei negozi… vi sono più insegne tedesche a Genova che a Trieste o a Praga… Alla fine della settimana ritornerò, avendo consumato buona parte dei miei onorari editoriali, presto vedrò l’ultimo olivo, l’ultima magnolia e così via.
(Sigmund Freud)
Ma dentro di me so che tornerò
Alla spiaggia della Foce quando tornan le lampare
Sarò tra i pesci che avran tirato su
Rinchiuso tra le loro reti gettate nel più profondo mare
(Umberto Bindi)
Se Venere vivesse, non preferirebbe
più Cipro o il monte Citera o il bosco Idalio, ma verrebbe
ad abitar Genova, sì come dimora fatta per lei.
(Enea Silvio Piccolomini, poi papa Pio II)
O Genova! o Genova! Chi può mai descrivere i tuoi palazzi di via Balbi, della Nunziata, della Nuova o della Nuovissima, e le casette a otto piani nelle strettucce che sembrano scolatoi al mare? Chi ti dirà il nobile effluvio dei cedri e il plebeo fetore del baccalà; la splendida pace dei pensili orti e l’arrabattarsi lucroso nel porto: la vita opulentemente stanca nelle sale d’ozio e la insaziabile voluttà della marmaglia saettata dal sole: la bianca melanconia degli atri, degli scaloni, delle corti solitarie e l’immensa gazzarra delle mille navi?
(Ambrogio Bazzero)
Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagna cinerea
Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto
Ride l’arcano palazzo rosso dal portico grande: Come le cataratte del Niagara
Canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare:
Genova canta il tuo canto!
(Dino Campana)
Genova giace presso il mare come lo scheletro di un gigantesco animale buttato lì dalla risacca.
(Heinrich Heine)
Ai Liguri, aspri figli dei monti, insegnò la stessa terra che nulla
si ottiene se non con tenacia e fatica.
(Cicerone)
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogni costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
(Dante Alighieri)
Via, mettiamo via, questa città ne ho nostalgia, andando via non è più mia o forse non lo è stata mai… magari un po’…
(Negramaro)
Voglio conoscere la potenza di Genova? Vado a gustare la grandiosa poesia del suo Porto.
(Ambrogio Bazzero)
La mia città dagli amori in salita,
Genova mia di mare tutta scale
e, su dal porto, risucchi di vita
viva fino a raggiungere il crinale
di lamiera dei tetti.
(Giorgio Caproni)
Con quella faccia un po’ così
quell’espressione un po’ così
che abbiamo noi prima di andare a Genova
e ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
non c’inghiotte non torniamo più
(Paolo Conte)
Chi guarda Genova sappia che Genova
si vede solo dal mare
quindi non stia lì ad aspettare
di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più
di quei gerani che la gioventù
fa ancora crescere nelle strade
(Ivano Fossati)
Roma la santa, Bologna la dotta, Genova la superba, Firenze la bella, Venezia la ricca. (Proverbio francese)
Genova per noi che stiamo in fondo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza rare volte
e il resto è pioggia che ci bagna
Genova dicevo è un’ idea come un’ altra
(Paolo Conte)
Genova hai i giorni tutti uguali
in un’ immobile campagna
con la pioggia che ci bagna
e i gamberoni rossi sono un sogno
e il sole è un lampo giallo al parabris
(Paolo Conte)
L’abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i genovesi sono detti signori del mare.
(Descrizione di Genova, Cronache del Regno di Luigi XII di Francia, 1502, Jean d’Auton)
Genova, la Superba Dominante dei mari
(Benito Mussolini)
Edited by Nihil Obest - 21/10/2018, 09:10. -
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La Commenda di San Giovanni di Prè
Il complesso di San Giovanni di Prè, conosciuto come la commenda di San Giovanni di Prè, è un edificio di culto cattolico di Genova sito in piazza della Commenda, nel quartiere di Prè, nei pressi della stazione ferroviaria di Genova Principe.
Il complesso consta di due chiese in stile romanico, sovrapposte l'una all'altra, che costituiscono il grosso del corpo architettonico, e di un edificio a tre piani, la commenda, ovverosia il convento e l'ospitale (locali al piano terra), che assolveva alla duplice funzione di stazione marittima sulle rotte della Terrasanta e di ospedale (ospitaletto), inizialmente per i pellegrini ed in seguito per i malati e gli indigenti della città.
Mentre il convento, l'ospitale e la chiesa inferiore sono oggi parte del Museoteatro della Commenda di Pré, sede di mostre ed esposizioni, inserite nel percorso museale del Mu.MA, la chiesa superiore, intitolata a san Giovanni evangelista, è invece ancora oggi un luogo di culto la cui comunità parrocchiale fa parte del vicariato "Centro Ovest" dell'arcidiocesi di Genova
Il terreno dove sorge la Commenda di San Giovanni di Prè si affacciava in origine direttamente sul mare ed era situato tra due avvallamenti al centro dei quali scorreva il “Rio Sant' Ugo” (oggi sotterraneo), un breve corso d' acqua proveniente dall'arco collinare retrostante (l'Acquaverde). Quando il complesso venne strutturato alla fine del XII secolo si trovava fuori dalle mura cittadine, quelle dette del Barbarossa, costruite nel 1155. La zona era scarsamente urbanizzata come dimostrano i toponimi Acquaverde e Prè (da prati), il percorso viario antico che si percorre per raggiungerla dalla Porta dei Vacca. La zona fu compresa nell'ampliamento della cinta muraria del 1347. Nel '400 la Commenda si doveva presentare come proposto nel disegno pubblicato sul volume di E. Poleggi - I. Croce , Ritratto di Genova nel '400, Genova 2008, p.105. Il complesso monumentale era immerso nel verde. Sul lato mare il terreno risulta occupato da alcune costruzioni tra le quali un Oratorio (demolito nell' Ottocento).
Successivamente nel tratto di mare antistante venne costruita la darsena, come si vede nel particolare del dipinto di Jan Matsys, datato 1561, raffigurante Flora con veduta di Genova.
Il complesso monumentale della Commenda era formato dalla chiesa, dedicata a San Giovanni Evangelista, officiata in origine dall' Ordine dei Cavalieri di Gelusalemme. Ad essa si accedeva dall' annessa Commenda, un edificio ospedaliero che subì nel tempo varie trasformazioni. L' ospedale ospitò in origine i pellegrini diretti in Terra Santa e in seguito i malati e i poveri della città. La struttura possedeva tutti i servizi utili alle varie necessità d' uso e possedeva orti e giardini coltivati con piante idonee all' ospitalità.
Con il passare dei secoli l' edificio venne inglobato in sovrastrutture che nascosero gli elementi architettonici originali, gli affreschi e le soffittature lignee, rimessi in luce con il restauro avviato negli anni Sessanta del '900 ed esteso anche agli spazi retrostanti occupati un tempo dagli Oratori di Santa Brigida e di san Giovanni Evangelista
Sul retro la nascita della stazione Principe e l' apertura di via Andrea Doria hanno soffocato la Commenda con una serie di edifici molto imponenti in altezza che purtroppo hanno modificato l'ambiente in modo irreversibile.
STORIA
L'attuale complesso venne fabbricato a partire dal 1180 alla foce del rio S.Ugo, un breve torrente, oggi interamente coperto, che scende dalla retrostante collina. In quest'area, in origine affacciata direttamente sul mare, anticamente sorgeva una chiesa intitolata al Santo Sepolcro, eretta secondo alcune fonti nel 636, anche se la prima attestazione documentata è del 1098, quando vi furono deposte le presunte ceneri del Battista, qui trasportate dall'oriente all'epoca della prima crociata, prima che fossero trasferite nella cattedrale di San Lorenzo. La chiesa apparteneva all'Ordine dei canonici del santo Sepolcro; con la caduta del regno cristiano di Gerusalemme l'ordine fu disperso e le sue proprietà in Italia passarono ai cavalieri ospitalieri di san Giovanni di Gerusalemme.
La fondazione del complesso, che serviva principalmente come ricovero per i pellegrini diretti in Terrasanta, all'epoca delle crociate (da Genova salpava infatti in quegli anni la terza crociata) fu voluta da frate Guglielmo, un appartenente ai cavalieri gerosolimitani, organismo che nel 1420 avrebbe dato vita all'Ordine dei cavalieri di Malta.
L'edificio, allora chiamato "S. Giovanni de Capite Arene", all'epoca della sua costruzione era situato fuori dalle mura cittadine, in una zona ancora scarsamente popolata, e fu compreso all'interno della cinta muraria solo con l'ampliamento trecentesco.
L'ospitale di San Giovanni di Prè per tutto il Medioevo fu un importante punto di contatto tra le vie di terra provenienti dal Nord Italia e più in generale da tutta l'Europa occidentale e le rotte che da Genova portavano in tutti i porti del Mediterraneo. Per secoli fu un punto di riferimento essenziale per tutti coloro, cavalieri, soldati, mercanti, ecclesiastici e pellegrini, che per i motivi più diversi da qui transitavano diretti verso le sponde del nord Africa, l'Asia Minore e la Terrasanta.
Su piazza della Commenda sono affacciate le strutture architettoniche più elaborate: le logge del convento e il lato meridionale della chiesa in cui si apre una serie di bifore. La chiesa superiore, priva di facciata, nel Medioevo era adibita ad uso esclusivo dei cavalieri gerosolimitani, che vi accedevano direttamente dal piano loggiato, mentre quella inferiore era destinata ai pellegrini e agli abitanti, anche se a quell'epoca la zona circostante non era ancora molto popolata; nel XVIII secolo la chiesa superiore divenne luogo di culto pubblico e quella inferiore sede di confraternite. Un cunicolo dal salone-dormitorio a pianterreno portava direttamente al vicino approdo, sicché i cavalieri potevano imbarcarsi senza uscire dall'edificio.
Una lapide ricorda il soggiorno del papa Urbano V dal 13 al 20 maggio 1367, durante il suo viaggio di rientro da Avignone. Per oltre un anno, tra il 1385 e il 1386, vi soggiornò Urbano VI. Questo pontefice, fuggito dal castello di Nocera, dove era assediato dalle truppe di Carlo III, re di Napoli, si era rifugiato a Genova portando con sé come prigionieri alcuni cardinali che avevano congiurato contro di lui, e che proprio alla Commenda furono giustiziati nel dicembre 1385 (o nel gennaio 1386) e sepolti in un luogo prossimo alla chiesa. I loro resti furono rinvenuti nel 1829 durante lavori in un terreno adiacente al complesso.
In origine il complesso formato dalla chiesa inferiore e dall'ospedale era probabilmente intitolato al protettore degli ospitalieri, san Giovanni Battista, e solo agli inizi del Seicento si ha notizia dell'intitolazione a san Giovanni evangelista, mentre la chiesa superiore era chiamata "di S. Maria". Nel tempo si ebbero altre variazioni della denominazione: dal 1697 il titolo di S. Giovanni Evangelista passò alla chiesa superiore e quella inferiore fu intitolata a sant'Ugo, finché nella prima metà dell'Ottocento i due titoli furono uniti.
A causa delle leggi di soppressione degli ordini religiosi emanate nel 1798 dalla Repubblica Ligure il complesso, esclusa la chiesa superiore, fu espropriato dal governo ed adibito a vari usi. Nel 1834 una parte della chiesa inferiore fu concessa in locazione alla congregazione degli operai evangelici franzoniani. La chiesa fu consacrata dall'arcivescovo Salvatore Magnasco l'8 giugno 1873.
Il complesso, dopo i recenti restauri, si presenta pressoché integro nel suo aspetto romanico, con la severità dei muri in pietra nera di Promontorio, il calore dei mattoni, l'eleganza delle colonne in marmo e dei soffitti in legno dipinti con motivi geometrici e floreali.
Subì una prima ristrutturazione nel 1508, per iniziativa del commendatore Brasco Salvago, nella parte conventuale e una seconda, nel tra il 1721 e il 1731, ad opera di Gerolamo Basadonne, nella chiesa superiore quando fu addirittura capovolto l'orientamento della chiesa stessa, in origine rivolto a levante come tutte le antiche basiliche. Questa inversione si rese necessaria per creare un accesso indipendente dall'esterno alla chiesa superiore, fino ad allora riservata solo ai cavalieri e quindi accessibile solo dall'interno del convento.
Vari interventi di restauro furono eseguiti a più riprese tra il 1870 e il 1936, ed ancora, a cura della Soprintendenza ai beni architettonici e ambientali, negli anni sessanta quando la struttura fu riportata all'originale stile romanico; questa fase dei restauri ha rimesso in luce anche gli affreschi e le soffittature lignee.
Un nuovo restauro complessivo si attuò nel 1992 in occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America adibendo le sale a spazi espositivi e quindi sede di mostre di carattere storico.[7]
Da maggio 2009, dopo anni di restauri, l'Ospitale della Commenda è divenuto sede di un “museoteatro”, un allestimento in collaborazione con il Galata − Museo del mare in cui, in forma multimediale, i documenti della storia medievale diventano dialoghi e racconti interpretati dagli attori del “teatrodelsuono”, diretti da Andrea Liberovici, che danno vita a personaggi legati alla Commenda, a partire dal fondatore frate Guglielmo, ed a protagonisti delle crociate, cristiani e musulmani, come il sultano Saladino. Inoltre nel cortile interno è stato realizzato il “Giardino dei semplici”, un orto in cui sono coltivate le principali erbe officinali utilizzate nell'antico ospitale.
Struttura
La chiesa superiore
La chiesa è accessibile attraverso l'attigua salita San Giovanni, ingresso che fu ricavato al centro dell'antico abside nel 1731 quando la chiesa, fino a quel momento ad uso esclusivo dei cavalieri, fu aperta al culto pubblico. Con l'operazione realizzata dal Basadonne furono invertiti gli spazi interni causando la soppressione della prima campata e quindi la costruzione di una nuova abside dalla parte opposta della navata centrale.
La struttura si presenta a tre navate con una volta a crociera in pietra nera, sostenuta da possenti costoloni e massicce colonne e considerata una delle più vaste volte in pietra tra le chiese europee.
Chiesa inferiore.
Si accede alla chiesa inferiore lateralmente attraverso un portale aperto nel porticato sotto il fianco destro della complesso. Anticamente spazio dedicato al culto pubblico, come la chiesa superiore si presenta anch'essa a tre navate con volta a crociera.
Una ristrutturazione e conservazione degli interni si attuarono in occasione del Giubileo del 2000 dove gli interventi riportarono gli spazi alle origini. Tra le diverse opere che qui furono conservate vi fu una pala d'altare, Dottori della Chiesa, del pittore Pier Francesco Sacchi e databile al 1515; l'opera è oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi.
Il campanile
Il campanile
Il campanile, a base quadrata, ornato da tre ordini di trifore, fu realizzato contestualmente alla chiesa e nel XIII o XIV secolo fu completato con la cuspide piramidale a base ottagonale, elemento tipico del romanico genovese, circondata da quattro pinnacoli agli angoli. Durante gli avvenimenti del 1746 (occupazione di Genova nel corso della guerra di successione austriaca) la cuspide fu gravemente danneggiata. Un'epigrafe alla base del campanile riporta la data di inizio lavori, il 1180, e ricorda Guglielmo, il fondatore del complesso, con la sua effigie a bassorilievo.
Le opere[modifica | modifica wikitesto]
Tra le opere pittoriche conservate nella chiesa superiore vi sono i dipinti, nelle pareti dell'abside, della Madonna con i Santi Giovanni Battista e Brigida del pittore Giulio Benso e a sinistra la Madonna in trono con San Giovanni e altro santo del pittore Bernardo Castello e databile al 1599.
Nel primo altare della navata destra vi è la tela di Carlo Giuseppe Ratti raffigurante Il presepe, nel secondo il dipinto Sant'Ugo Canefri di Lorenzo De Ferrari databile al 1730 circa; A destra nel coro il dipinto di Lazzaro Tavarone del 1614 ritraente Il Battista ammaestra i discepoli, al centro la tela di Giovanni Domenico Cappellino de I figli di Zebedeo e a sinistra San Leonardo assiste una regina partorientedel pittore Simone Barabino del 1615 circ
le foto inserite sono a solo scopo didattico/culturale/educativo, non si intende violare alcun diritto d'autore
....continua....
Edited by Nihil Obest - 26/10/2018, 13:38.