"Caffè Zibaldone"

GENOVA per VOI

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    E questa sera non vi racconterò di un monumento in marmo ed ardesia, ma di uno di note ed armonia

    Niccolò Paganini





    Talentuoso, istrionico, amante degli eccessi, sempre lontano dalle convenzioni. Niccolò Paganini non è stato soltanto uno dei più grandi violinisti mai esistiti, compositore, tra l’altro, dei celebri Capricci per solo violino. È stato anche un personaggio che per i suoi caratteri di genio e sregolatezza perfino ai giorni nostri risulterebbe stravagante, figurarsi cosa pensavano di lui i suoi contemporanei nel lontano Ottocento.
    Aveva i capelli lunghi e scarmigliati, gli mancavano dei denti, l’imponente naso aquilino spiccava sul viso pallido e ossuto. Magrissimo e cupo, esaltava questi caratteri vestendosi sempre di nero e portando occhiali dalle lenti blu, perché sapeva che parte della sua fama era dovuta all’aura di mistero che lo circondava. Non sbagliano, dunque, quelli che lo considerano l’“inventore del divismo”, la prima star musicale a curare in modo maniacale la propria immagine, alimentando il mito di se stesso con oculate strategie di marketing. All’apice della carriera, infatti, gli uomini si acconciavano i capelli à la Paganini, si preparavano dolci con il suo nome, a Vienna la banconota da 5 fiorini veniva chiamata Paganinerl, il cognome Paganini veniva usato come sostantivo per definire qualunque virtuoso.
    Nacque a Genova il 27 ottobre del 1782 da una modesta famiglia originaria di Carro (nell'odierna provincia della Spezia). Il padre Antonio faceva imballaggi al porto ed era appassionato di musica; con la madre Teresa abitavano in Vico Fosse del Colle, al Passo della Gatta Mora, un caruggio di Genova nella zona di via del Colle.
    Fin dalla più giovane età Niccolò apprese dal padre le prime nozioni di musica sul mandolino e, in seguito, fu indirizzato, sempre dal padre, allo studio del violino. Non a torto Paganini è considerato un autodidatta, in quanto i suoi due maestri furono di scarso valore e non ricevette che una trentina di lezioni di composizione da Gaspare Ghiretti. Malgrado ciò, all'età di 12 anni, già si faceva ascoltare nelle chiese di Genova e diede un concerto nel 1795 al teatro di Sant'Agostino, eseguendo delle sue variazioni per chitarra e violino sull'aria piemontese "La Carmagnola", andate perdute. Il padre lo condusse a Parma nel 1796, all'età di 14 anni. Qui Niccolò si ammalò di polmonite e venne curato con il salasso, che lo indebolì e lo costrinse a un periodo di riposo nella casa paterna a Romairone, in val Polcevera, vicino a San Quirico dove studiò anche fino a 10-12 ore al giorno su un violino costruito dal Guarneri, regalatogli da un ammiratore di Parma. Paganini imitava i suoni naturali, il canto degli uccelli, i versi degli animali, i timbri degli strumenti, come il flauto, la tromba e il corno. In seguito diede dei concerti nell'Italia Settentrionale e in Toscana. Raggiunta una portentosa abilità, andò di nuovo in Toscana, dove ottenne le più calorose accoglienze.
    Nel 1801, all'età di 19 anni, interruppe la propria attività di concertista e si dedicò per qualche tempo all'agricoltura e allo studio della chitarra.



    Nel 1802, a vent’anni, l’incontro della vita, quello con il violino Guarnieri del Gesù, che lo accompagnò fino all’ultimo dei suoi giorni. Paganini lo chiamava “il mio cannone” per il suono robusto che produceva. Non è accertato storicamente, ma si dice sia stato dono di un certo Livron, uomo d’affari che glielo regalò in occasione dell’inaugurazione del teatro di Livorno, a patto che da quel momento lo suonasse soltanto lui. Secondo una precisa disposizione testamentaria del musicista, lo strumento è stato lasciato alla città di Genova e oggi possiamo ammirarlo in una sala di Palazzo Tursi, sede del Municipio



    In breve tempo diventò virtuoso anche di chitarra e scrisse molte sonate, variazioni e concerti non pubblicati; insoddisfatto, si mise a scrivere sonate per violino e chitarra, trii e quartetti in unione agli strumenti ad arco.
    Paganini scriveva per chitarra a sei corde, che in quel periodo soppiantò quella "spagnola" a cinque cori (quattro corde doppie e una singola nella parte alta detta cantino), e questo spiega il suo estro negli scoppiettanti pizzicati sul violino.
    Alla fine del 1804, all'età di 22 anni, riapparve a Genova, ma tornò a Lucca l'anno successivo, dove accettò il posto di primo violino solista alla corte della principessa di Lucca e Piombino Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone I. Quando la nobildonna, nominata granduchessa di Toscana, si trasferì a Firenze nel 1809, Paganini la seguì, ma per un banale incidente se ne allontanò e non volle più tornarvi, malgrado i numerosi inviti. A Torino fu invitato a suonare nel castello di Stupinigi da un'altra delle sorelle dell'imperatore francese, Paolina Borghese.
    Nella sua vita, Paganini percorse l'Italia tre volte, facendosi applaudire in numerose città. La prima di queste città fu Milano nel 1813, a 31 anni, il 29 ottobre, al teatro Carcano. I critici lo acclamarono primo violinista al mondo. Qui nel giro di diversi anni diede 37 concerti, in parte alla Scala e in parte al Carcano.
    Nel marzo 1816 trionfò nella sfida lanciatagli da Charles Philippe Lafont e due anni dopo ripeté il trionfo in un confronto con Karol Lipiński. Strinse amicizia con Gioachino Rossini e con Louis Spohr. Nel 1817, a 35 anni, suonò a Roma, suscitando una tale impressione che il Metternich lo invitò a Vienna. Ma, già allora, le precarie condizioni di salute gli impedirono di realizzare quel progetto.
    Invece andò al Sud, a Palermo, dove il 23 luglio 1825 vide la luce Achille (1825-1895), il figlio avuto con una "mediocre cantante e per giunta nevrotica", Antonia Bianchi (Como, 1800 - 1874). Paganini convisse con la Bianchi dal 1824 al 1828 prima che lei venisse sposata dal milanese Carlo Felice Brunati. Pur non ufficializzando mai il legame con la madre di suo figlio, Paganini tuttavia si dimostrò affettuoso verso questo bimbo illegittimo, tanto che per averlo con sé dovette sborsare 2.000 scudi alla madree poi farselo riconoscere manipolando le sue conoscenze altolocate.



    Nel 1828 finalmente andò a Vienna, dove le lodi ai suoi concerti furono unanimi. L'imperatore Francesco II lo nominò suo virtuoso di camera.
    Dopo aver dato 20 concerti a Vienna, si recò a Praga, dove sorsero aspre discussioni sul suo valore.
    Compose anche dal 1817 al 1830 sei concerti per violino e orchestra (famosissimo il finale del secondo, detto La campanella); ritornato a Genova nel 1832 iniziò la composizione dei famosi Capricci per violino e, nel 1834, una sonata per la grande viola, variazioni su temi di Süssmayr e Gioachino Rossini, serenate, notturni, tarantelle. La gran viola in questione è uno speciale strumento a cinque corde, andato perduto, che Paganini aveva fatto produrre a Francesco Borghi, liutaio di Forlì, e che divenne nota anche col nome di "controviola Paganini".
    Tra il 1832 e il 1833 si alterna tra Parigi e l'Inghilterra e conosce la giovane Charlotte Watson, figlia del suo accompagnatore al pianoforte, e se ne innamora. A Boulogne fissa un incontro con lei ma vi trova il padre e scoppia uno scandalo. Nel 1833 acquista nei pressi di Parma la grande Villa Gaione, con l'intenzione di trascorrervi i periodi di riposo tra una tournée e l'altra.
    Il 1834 segna l'inizio dei sintomi più eclatanti di una malattia polmonare all'epoca non diagnosticata, segnata da accessi di tosse incoercibile, che duravano anche un'ora, che gli impedivano di dare concerti e che lo spossavano in maniera debilitante, per la quale furono interpellati almeno venti fra i medici più famosi d'Europa, ma che nessuno riuscì a curare minimamente. Il dottor Sito Borda, pensionato dell'Ateneo di Pavia, finalmente pose la diagnosi di tubercolosi e lo curò con un rimedio dell'epoca, il latte di asina. Solo in seguito propose medicamenti mercuriali e sedativi della tosse, tipici dell'epoca, con poco risultato e grossi effetti collaterali. I disturbi alla gola si presentarono molto tempo prima che insorgesse la laringite vera e propria e la necrosi dell'osso mascellare. Comunque la reazione di Paganini alla malattia fu molto dignitosa e composta; malgrado non avesse una grande opinione dei medici, che non erano riusciti a curarlo, si rivolgeva sempre con fiducia a qualcun altro, sperando di trovare un medico che potesse aiutarlo. Nonostante la difficoltà in cui si trovava, non si abbandonò mai alla disperazione e bisogna riconoscere che in questi estremi frangenti dimostrò una grande forza d'animo. Al tempo gli diagnosticarono una laringite tubercolare; dagli sforzi della tosse non poteva più parlare e diventò completamente afono. Gli faceva da interprete il figlioletto Achille di 15 anni, che si era abituato a leggergli le parole sulle labbra e quando anche questo non fu più possibile, si mise a scrivere dei bigliettini, che sono stati conservati e sottoposti a esame grafologico. Morì a Nizza in casa del presidente del Senato. Achille, diventato adulto, cercherà di dare continuità all'opera del padre, continuando a riordinare e a pubblicare le sue opere, autenticandone la firma. In seguito i nipoti, che non avevano conosciuto il nonno Niccolò, venuti in possesso dell'intera opera paganiniana, decideranno di venderla allo Stato e, solo dopo un rifiuto, metteranno l'opera all'asta.
    Morte e sepoltura
    Paganini morì il 27 maggio 1840. Il vescovo di Nizza ne vietò la sepoltura in terra consacrata. Il suo corpo fu quindi imbalsamato con il metodo Gannal e conservato nella cantina della casa dov'era morto. Dopo vari spostamenti, nel 1853 fu sepolto nel cimitero di Gaione e successivamente nel cimitero della Villetta di Parma.



    Per comprendere la personalità di Paganini dobbiamo scrollarci un po’ di dosso l’aneddotica della biografia ufficiale, ricca di episodi romanzati creati ad arte per accrescere la suggestione intorno al personaggio.
    Prendiamo, ad esempio, la celebre frase «Paganini non ripete», che non era affatto, come si pensa, un suo normale intercalare dovuto all’altezzosità. Lo disse soltanto una volta in risposta al re Carlo Felice di Savoia che gli aveva chiesto un bis. Lui improvvisava, perciò ogni sua esibizione risultava unica e irripetibile. Suonava poi con tale ardore che spesso finiva stremato con i polpastrelli sanguinanti. La sfacciataggine gli costò comunque cara: venne infatti espulso per due anni dal Regno di Savoia, il che gli diede modo di coniare un suo tipico modo di dire: «I grandi non temo, gli umili non sdegno».
    In due lettere inviate all'amico avvocato Germi scrisse: «La mia costellazione in questo cielo è contraria. Per non aver potuto replicare a richiesta le variazioni della seconda Accademia, il Sig. Governatore ha creduto bene sospendermi la terza...» (il 25 febbraio 1818) e poi «In questo regno, il mio violino spero di non farlo più sentire» (l'11 marzo dello stesso anno).

    E proprio ai più umili manifestò il suo lato generoso. Ci è giunta infatti testimonianza di doni elargiti ai membri della famiglia e ai musicisti in difficoltà; era inoltre solito dare spettacoli il cui ricavato destinava ai poveri e agli ammalati delle città in cui si esibiva. Viene così smentita un’altra diceria, quella sull’estrema avarizia di Paganini.

    I Concerti per violino

    I concerti per violino e orchestra presentano una singolarità di concezione, che alla loro epoca fu talvolta scambiata per esibizionismo esagerato. Le serie di accordi di difficile impostazione, i trilli e i salti di registro, sono dovuti anche al fatto che Paganini, per questioni economiche, voleva essere l'unico in grado di suonare la propria musica in modo da essere l'unico a potervici lucrare. Volendo mantenere segrete le partiture, le consegnava al direttore d'orchestra solo qualche ora prima dell'esecuzione. Questi aveva quindi la possibilità di studiarle solo per poco tempo; perciò il compositore doveva limitarsi a un'orchestrazione di facile interpretazione (l'orchestra doveva infatti essere in grado di poter suonare il brano a prima vista). In questo modo, gli assoli di violino risultano maggiormente complicati all'orecchio dell'ascoltatore che nel frattempo si è abituato all'accompagnamento semplificato dell'orchestra. Un esempio di quanto detto lo si trova nel primo e nel secondo concerto per violino e orchestra. In particolare nel secondo, il movimento denominato la Campanella è considerato dalla critica un capolavoro e venne trascritto per pianoforte da Franz Liszt.

    Opere

    24 Capricci per violino solo op.1
    No. 1 in mi maggiore
    No. 2 in si minore
    No. 3 in mi minore
    No. 4 in do minore
    No. 5 in la minore
    No. 6 in sol minore
    No. 7 in la minore
    No. 8 in mi bemolle maggiore
    No. 9 in mi maggiore ("La caccia")
    No. 10 in sol minore
    No. 11 in do maggiore
    No. 12 in la bemolle maggiore
    No. 13 in si maggiore ("La risata")
    No. 14 in mi bemolle maggiore
    No. 15 in mi minore
    No. 16 in sol minore
    No. 17 in mi bemolle maggiore
    No. 18 in do maggiore
    No. 19 in mi bemolle maggiore
    No. 20 in re maggiore
    No. 21 in la maggiore
    No. 22 in fa maggiore
    No. 23 in mi bemolle maggiore
    No. 24 in la minore ("Tema e Variazioni")
    12 sonate per violino e chitarra (Op.2 e Op.3)
    Op. 2, No. 1 in la maggiore
    Op. 2, No. 2 in do maggiore
    Op. 2, No. 3 in re minore
    Op. 2, No. 4 in la maggiore
    Op. 2, No. 5 in re maggiore
    Op. 2, No. 6 in la minore
    Op. 3, No. 1 in la maggiore
    Op. 3, No. 2 in sol maggiore
    Op. 3, No. 3 in re maggiore
    Op. 3, No. 4 in la minore
    Op. 3, No. 5 in la maggiore
    Op. 3, No. 6 in mi minore
    15 Quartetti per Chitarra, Violino, Viola e Violoncello
    No. 1 in la minore (Op.4 No.1)
    No. 2 in do maggiore (Op.4 No.2)
    No. 3 in la maggiore (Op.4 No.3)
    No. 4 in re maggiore (Op.5 No.1)
    No. 5 in do maggiore (Op.5 No.2)
    No. 6 in re minore (Op.5 No.3)
    No. 7 in mi maggiore
    No. 8 in la maggiore
    No. 9 in re maggiore
    No. 10 in la maggiore
    No. 11 in si maggiore
    No. 12 in la minore
    No. 13 in fa minore
    No. 14 in la maggiore
    No. 15 in la minore
    3 Quartetti per Archi (2 Violini, Viola e Violoncello)
    No. 1 in re minore
    No. 2 in mi bemolle maggiore
    No. 3 in la minore
    6 Concerti
    Concerto per violino e orchestra n. 1, in re maggiore, Op. 6 (1817)
    Concerto per violino e orchestra n. 2, in si minore, Op. 7 (1826) (La Campanella)
    Concerto per violino e orchestra n. 3, in mi maggiore (1830)
    Concerto per violino e orchestra n. 4, in re minore (1830)
    Concerto per violino e orchestra n. 5, in la minore (1830) - parti orchestrali ricostruite da Federico Monpellio (pubbl. 1959)
    Concerto per violino e orchestra n. 6 (n. 0), in mi minore (1815?) - completamemento e orchestrazione a cura di Federico Monpellio e Francesco Fiore (pubbl. 1973)
    Le Streghe (The Witches Dance), Op. 8, danza delle Streghe, variazioni per orchestra su un tema di Süssmayr (29 ottobre 1813 successo al Teatro alla Scala di Milano)
    Il carnevale di Venezia (O Mamma mamma cara), Op. 10
    Moto Perpetuo in sol maggiore, Op. 11, per violino e pianoforte (o orchestra)
    Non più Mesta, Op. 12
    I Palpiti, Op. 13, Introduzione e Variazione su un tema di Rossini per Violino e Orchestra ( o pianoforte)
    60 Variations on Barucaba for violin and guitar, Op. 14 (1835)
    Cantabile in re maggiore, Op. 17
    Cantabile & Valse (waltz), Op. 19 (c. 1824)
    18 Centone di Sonate, for violin and guitar
    Grand sonata for violin and guitar, in A major, Op. 39
    Duetto amoroso, Op. 63 (c. 1807)
    Sonate per Violino e orchestra e altri lavori
    La Primavera , sonata con variazioni
    Sonata con variazioni (Sonata Militaire)
    Napoleon Sonata
    Romanza in la minore
    Tarantella in la minore
    Sonata per la Grand Viola in sol minore
    Sonata in sol per violino solo
    Sonata Varsavia
    Sonata Maria Luisa
    Balletto Campestre , variazioni su un tema comico
    Polacca con variazioni
    43 Ghiribizzi per Chitarra
    Perpetuela (Sonata Movimento Perpetuo)
    Larghetto
    Andante Amoroso
    Introduzione, tema e variazioni da Paisiello 'La bella molinara' (Nel cor più non mi sento) in sol maggiore, Op. 38
    Introduzione e variazioni sulla 'Cenerentola' di Rossini (Non più mesta)
    Introduzione e variazioni sul' Mosè' di Rossini (Dal tuo stellato soglio)
    Introduzione e variazioni sul 'Tancredi' di Rossini (Di tanti palpiti)
    Maestosa sonata sentimentale (Variazioni sull'inno nazionale dell'Austria))
    Sonata con variazioni su un tema di Joseph Weigl
    Variazioni sull'inno inglese God Save the King, Op. 9
    Per chitarra
    5 pezzi per chitarra (1800)
    12 pezzi per chitarra senza numero:
    a1) Minuetto (mi maggiore)
    a2) Rondò Allegro (mi maggiore)
    b) Andantino (do maggiore)
    c) Allegretto (la maggiore)
    d1) Allegretto (la maggiore)
    d2) Minuetto (la minore)
    e1) Valtz (do maggiore)
    e2) Valtz (do maggiore)
    f1) Valtz (mi maggiore)
    f2) Andantino (do maggiore)
    5 pezzi per chitarra
    Scherzo (do maggiore)
    Sonatina (do maggiore)
    Rondò (do maggiore)
    Allegretto (mi maggiore)
    Minuetto (mi maggiore)
    Musica da camera
    "6 Duettini" per violino e chitarra
    "Variazioni di bravura" (sul Capriccio n. 24) per violino e chitarra
    "6 Duetti Fiorentini" per violino e pianoforte
    "Sonata a violino principale" (per violino solista, violino e violoncello)
    "Introduzione e tema con variazioni" (per violino solista e quartetto d'archi)
    "6 Preludi" (per 2 violini e basso)
    "Sonata e variazioni" per chitarra, violino, viola(parte perduta) e violoncello
    Vocale
    "Fantasia vocale" (aria per soprano e orchestra)
    La Farfalletta (per voce e pianoforte)

    Premio Paganini

    Per promuovere l'attività concertistica dei violinisti debuttanti, dal 1954 si svolge annualmente (dal 2002 solo negli anni pari) a Genova, nel mese di ottobre, presso il Teatro Carlo Felice, il Premio Paganini, giunto nel 2015 alla 54ª edizione.
    Il concorso, di notevole difficoltà (al punto che talvolta il primo premio non viene assegnato), si articola in 3 prove (nelle prime due l'ingresso in teatro è libero), nel corso delle quali i concorrenti devono eseguire vari pezzi per violino solo o con accompagnamento di pianoforte e – nella finale – un concerto per violino e orchestra.
    Il 12 ottobre all'eventuale vincitore è concesso l'onore di suonare il "Cannone", il famoso violino di Paganini, costruito nel 1743 dal liutaio Bartolomeo Giuseppe Guarneri, lasciato dal musicista alla sua città natale onde fosse «perpetuamente conservato». Oggi è conservato a Palazzo Doria-Tursi, Musei di Strada Nuova - Genova.



    E, per finire, prima di proporre qualche brano, ciò che scrive Tonino Conte, del teatro della tosse, nel suo libro “Genova in venti storie” Ed Laterza. L'illustrazione finale è un disegno di Lele Luzzati

    A un giramondo nervoso e inquieto come Niccolò Paganini, magro, elettrico, bizzarro, incapace di star fermo nello stesso posto per più di cinque minuti, può capitare di proseguire la sua carriera di instancabile viaggiatore anche da morto. E proprio quel che è capitato al famoso violinista genovese. Il suo vagabondare da vivo è cominciato a poco più di undici anni, dopo aver debuttato al Teatro da Sant'Agostino di Genova, attuale sede del Teatro della Tosse. Ben presto è partito per Parma, sua seconda patria, per poi morire a Nizza dopo aver girato il mondo esibendosi nei maggiori teatri del suo tempo. Viaggiava a dispetto della salute poco buona e del fisico da trampoliere: con quel naso a becco sembrava un diavolo e davvero diabolica era la sua abilità nel toccare il violino. Gli tornava comodo far credere che il suo virtuosismo fosse alimentato dalle fiamme dell'inferno, era un divo che sapeva crearsi un'immagine da dare in pasto alle gazzette e ai pettegolezzi dei salotti. Non disdegnava di ricorrere a questi espedienti pur di affollare le platee per le quali si esibiva.
    Diavoli e streghe ricorrono spesso nelle poche pagine di musica che ci ha lasciato. Davvero era un diavolo?
    Nemmeno per idea! Era un geniale violinista e un musicista di valore. Compose 24 Capricci per violino che vennero giudicati impossibili da eseguire per un essere umano.
    Come uomo si sforzò in ogni modo di essere un buon padre per l'amato figlio Achillino, anche se come artista conduceva una vita disordinata e non proprio esemplare.
    Guadagnò molto ma non morì ricco. Tanto per contraddire la fama di avarizia dei Genovesi regalò 20.000 franchi, una somma enorme per quei tempi, al musicista povero Hector Berlioz, il quale componeva musica troppo esagitata per i Francesi suoi contemporanei, ma apprezzata da Paganini. Tentò una speculazione finanziaria per assicurarsi una tranquilla vecchiaia che invece quasi lo rovinò.
    Paganini si esibiva volentieri nel «trillo del diavolo» però non fece mai professione di ateismo. Nel testamento lasciò la somma necessaria per la celebrazione di cento messe in suffragio e affidò la sua anima «alla immensa misericordia del suo Creatore». Nonostante queste precauzioni, e anche perché al momento del trapasso non ricevette i sacramenti, il vescovo di Nizza proibì la sepoltura religiosa. Nella speranza che il vescovo cambiasse idea, la salma stette per un po' nella cantina del dottore che aveva provveduto all'imbalsamazione.
    Poi fu collocata nell'ospedale di Nizza, poi nel lazzaretto di Villafranca. Poi fu spedita a Marsiglia infestata dal colera, da qui spedita a Genova e rispedita a Marsiglia.
    Finalmente raggiunse Genova, dove sostò nella proprietà dei Paganini in Valpolcevera, dopo un anno passò nella villa di Gaione. Nel 1876, ottenuto il permesso di seppellimento in terra consacrata, quel che restava di Paganini venne interrato nel vecchio cimitero di Parma.
    Nel 1896 fu trasferito in un bel monumento eretto nel nuovo cimitero.
    Niccolò era morto nel 1840, a 57 anni. Da vivo aveva viaggiato per poco più di quarantanni, da morto lo hanno fatto viaggiare per 56 anni.
    Può sembrare uno scherzo, ma qualcuno ha pensato seriamente di far riprendere il viaggio a Paganini per collocarlo entro un solenne monumento nel cimitero della sua città natale. A proposito, lo sapevate che i Genovesi oltre alla mania per la casa hanno anche quella per la tomba? Se non ci credete, andate a fare un giro nel cimitero monumentale di Staglieno. Ma forse questa bella pensata è venuta ai suoi concittadini per lavarsi la coscienza dopo aver demolito la casa natale del musicista nel corso della ristrutturazione di Via Madre di Dio. Qualche decennio prima le bombe della seconda guerra mondiale avevano completamente cancellato il bel teatro di via Caffaro intitolato al suo nome. In conclusione ai Genovesi di Paganini non rimane che il violino di Paganini, custodito come una reliquia nel palazzo Comunale.
    Alla fine dell'ultima guerra Genova fu definita la Stalingrado dei teatri. Infatti per una strana combinazione quasi tutti i teatri della città vennero colpiti dai bombardamenti.
    Primo fra tutti il teatro dell'Opera Carlo Felice che solo pochi anni fa è stato finalmente ricostruito.
    E poi il Politeama Margherita, il Genovese, il Teatro da Sant'Agostino, il Paganini… già, del povero Niccolò ci rimane ben poco, il teatro bombardato, la sua casa demolita, la sua tomba a Parma.
    Non ci rimane che suonare il suo violino.




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    le foto inserite sono a solo scopo didattico/culturale/educativo, non si intende violare alcun diritto d'autore


    ....continua.....

    Edited by Nihil Obest - 15/11/2018, 10:35
     
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    ...i blue jeans...


    la tela blu Genova, storpiata dagli americani in blue jeans, è nata a Genova durante il MedioEvo; questa tela molto robusta e resistente veniva usata come protezione per vele e merci ma anche, sotto forma di pantaloni e giubbe veniva usata dai lavoratori portuali genovesi (quelli poi chiamati camalli) proprio perchè molto indicata per i lavori pesanti e molto difficile a rompersi o sgualcirsi.

    portogenovacamalliln



    Nel corso degli anni ha valicato i confini della Repubblica Marinara di San Giorgio, fino a diventare la "divisa" ufficiale dei cercatori d'oro nell'Alaska, nel Klondike e dei cowboys; Garibaldi li indossava nello sbarco a Marsala durante il Risorgimento;
    Ma, come sempre, c'è chi fiuta l'affare, quindi il "signor" Levi (facile indovinare, dal cognome, la sua etnia "eletta") li ha trasformati in un indumento di massa, conosociuto in tutto il mondo, da qui l'ignoranza dei più, convinti che i Jeans, siano americani...

    un libro ne narra la storia
    La storia dei jeans dal Medioevo a oggi,
    dalla nascita ai recenti tessuti biologici.

    In un libro pubblicato da Mursia editore
    Il capo d’abbigliamento più diffuso al mondo nasce in Italia
    e diventa presto simbolo e mito, fino al boom degli Anni ’60
    di Rosina Madotta
    Il fustagno è suo nonno; il denim suo fratello gemello; il blu scuro il colore che lo caratterizza. Avremmo potuto trovare i suoi antenati indosso agli operai in fabbrica, ai contadini in campagna, ai minatori in miniera o ai cowboy nel Far West. È stato rappresentativo prima di lavoro, poi di rivoluzione, trasgressione e libertà. Le giovani generazioni ne hanno fatto il loro simbolo per eccellenza trasformandolo in un capo d’abbigliamento adatto in ogni occasione. Non è un indovinello ma il capo d’abbigliamento più diffuso e conosciuto al mondo: il jeans. E l’ultimo libro del giornalista e autore genovese, Remo Guerrini, Bleu de Gênes. Piccola storia universale dei jeans (Mursia, pp. 168, € 12,00) è un viaggio nella storia – non solo dei jeans ma anche dell’umanità – e ne tratteggia le tappe principali dai primi modelli di qualche secolo fa, ai jeans organici rispettosi dell’ambiente messi in commercio nel 2006.

    L’inizio di una leggenda e la fortuna di Strauss, Lee e Wrangler
    L’autore inizia il suo excursus storico con un ricordo: sono gli Anni Sessanta e, ancora giovanissimo, per procurarsi dei jeans deve recarsi in Sottoripa, la zona del centro storico di Genova nei pressi del porto dove sono allineate numerose botteghe dalle mille mercanzie. Molte vetrine espongono questo capo d’abbigliamento in tela robusta, rigidi come cartone e dall’etichetta con le scritte in inglese.
    Per intraprendere il suo viaggio nel tempo e approfondire maggiormente l’origine del tessuto blu per eccellenza, Guerrini compie un balzo indietro nel Medioevo. È, in effetti, a partire dal XII secolo che il fustagno, tessuto misto di cotone e lana, economico, robusto e adattabile a molteplici usi, trova i suoi centri di maggiore sviluppo in Francia e soprattutto in Italia. Destinato alle vele delle navi o ai mantelli per signore, il fustagno – privilegiando il cotone – rappresenta la valida alternativa ai tessuti misti con un’alta quantità di lana e si può considerare un precursore del tessuto in jeans.
    Ma dobbiamo attendere ancora qualche secolo per ritrovare un tessuto che si avvicini al nostro jeans. Siamo alla fine del Cinquecento quando, dalle banchine del porto di Genova, partono alla volta dell’Inghilterra numerose balle di fustagno contrassegnate da scritte con lo scopo di stabilirne la provenienza. E Jeans (dal termine francese Gênes) indica i tessuti provenienti dal porto ligure.
    Remo Guerrini, da adolescente, nei retrobottega dei negozietti genovesi avrà sicuramente misurato i Levi’s, i Lee e i Wrangler: tre marchi ai quali è legata indissolubilmente la produzione, la diffusione e il successo riscosso – in tutto il globo – dai loro cuciti.
    Ma quando nascono i Levi’s, i blue jeans più famosi al mondo? Il 20 maggio 1873 può essere considerata la loro nascita ufficiale. In questa data l’ufficio americano dei brevetti rilascia al commerciante di origine tedesca Levi Strauss di San Francisco, in California, e al sarto Jacob Davis, di Reno, nel Nevada, l’autorizzazione di produrre in esclusiva pantaloni di cotone pesante cuciti insieme, oltre che dai punti tradizionali, da rivetti metallici. Non sono ancora di colore blu ma marrone chiaro, si chiamano waist overalls; hanno la funzione di coprire il vestiario abituale durante il lavoro e proteggerlo dallo sporco. La Levi’s Strauss & Co. ha fin da subito una grande fortuna e, da una prima collaborazione con sarte e cucitrici che lavorano ognuna per conto proprio, passa alla produzione in un grande stabilimento, all’interno del quale trova vita il famoso – e ancora oggi commercializzato – “modello 501”.
    Nel 1890, scaduto il brevetto, altri produttori possono liberamente realizzare calzoni simili in tutto e per tutto agli overalls di mister Levi.
    Nel corso dei decenni successivi altri due personaggi s’interessano alla produzione dei jeans come abbigliamento da lavoro: mister Lee e mister Wrangler che producono i loro modelli di pantaloni e altro abbigliamento, come tute e giacchette, in cotone grezzo pesante.
    All’origine dei jeans ci sono, dunque, l’esigenza di un indumento resistente e protettivo abbinata al lavoro manuale e pesante dei ricercatori d’oro e dei minatori, degli operai e dei contadini, dei meccanici e dei muratori.

    Gli Anni Sessanta: nasce il termine “blue jeans”
    La Grande Crisi del 1929 e la conseguente depressione economica, vede cambiare lo stile di vita di milioni di persone e il workwear (abbigliamento da lavoro) diventa abbigliamento da tempo libero.
    Successivamente, negli Anni Cinquanta James Dean, protagonista del film Gioventù bruciata, ne fa simbolo di trasgressione sociale, culturale e sessuale.
    Ma una piccola precisazione è doverosa. Il termine “blue jeans” non esiste ancora, non è ancora entrato in scena. Dobbiamo attendere gli Anni Sessanta quando dei nuovi consumatori, i teenager, entrano nei negozi d’abbigliamento e, per la prima volta, chiedono di vedere un paio di “blue jeans”. Nasce così, dopo quasi un secolo dal suo debutto ufficiale, il neologismo che distinguerà inequivocabilmente questo capo di vestiario.

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    Le tecniche dell’industria
    Nell’ultimo capitolo del libro, l’autore offre un vero glossario di nozioni e di tecniche proprie del settore tessile.
    La necessità, dettata dal mercato della moda, d’ottenere un effetto vintage, vale a dire una sensazione di jeans vecchio, ha indotto le industrie a ricercare dei metodi per ammorbidire e invecchiare il tessuto con lo scopo di rendere i pantaloni – seppure appena usciti dalla fabbrica – come usati. Le tendenze parlano chiaro: i jeans, più sono strappati, scuciti, sdruciti, più acquistano valore estetico; più hanno un aspetto vissuto e vecchio, più hanno il fascino del capo d’abbigliamento originale di qualche decennio fa e appartenuto, magari, ai propri genitori.
    Guerrini spiega i concetti di stone washing (il lavaggio con la pietra pomice o altro materiale), di biostone washing (il lavaggio con degli enzimi), di sabbiatura (una levigatura del tessuto con la sabbia), di spazzolatura automatica (intervento con spazzole abrasive) accendendo tra le altre la curiosità d’aprire il proprio armadio e toccare con mano se l’ultimo acquisto è abbastanza ammorbidito e alla moda o se, invece, è simile ai primi pantaloni rigidi e pesanti prodotti da Levi’s.

    Rosina Madotta

    le foto sono inserite a solo scopo educativo/culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

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    Edited by Nihil Obest - 10/1/2019, 19:01
     
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    E' un vecchio nastro di trentasei anni fa. La qualità è bassina, ma ci tenevo a farvela ascoltare. E' una rarità

    E oggi ci sta proprio perchè parleremo di:

    Il Trallalero



    Trallalero


    « Il più perfetto canto corale dell' Europa occidentale »
    (Alan Lomax, The Trallaleri of Genoa)
    Il trallalero o trallallero (in ligure, tralalêro) è una forma di canto polifonico tipico del Genovese
    ORIGINI
    Non esiste una storiografia precisa del trallallero. Antesignani sono nella documentazione storica i riferimenti a "canti a crocchia" derivanti da una antica tradizione polifonica, parente del canto a bei toscano, dei tenores sardi, forse anche dei canti della Georgia russa

    CARATTERISTICHE
    Il trallallero è praticato da gruppi esclusivamente vocali e - con pochissime eccezioni - esclusivamente maschili. La sua caratteristica (riflessa nell'onomatopea del nome stesso) consiste nell'imitazione di una completa gamma di sonorità vocali e strumentali ad opera di un complesso in realtà limitato a sole voci maschili. Sono così presenti, accanto alle voci che interpretano la melodia principale, ruoli di ausilio armonico, di accompagnamento, di sostegno ritmico. Il ricco tessuto ritmico-melodico, dovuto a questa polifonia e poliritmia, è la caratteristica distintiva di questo particolare stile musicale.
    Se il testo talvolta sembra appena un pretesto o uno spunto tematico da armonizzare con la musicalità, la vera energia del trallalero, sintesi della tradizione polifonica e polistrofica nordica e della liricità meridionale, viene evidenziata dalla forza persuasiva che invita gruppi di persone a partecipare ad un canto corale.
    Quindi il trallallero non richiede particolari luoghi per la sua esecuzione, e nemmeno doti musicali virtuose, visto che esprime un linguaggio raffinato ma nello stesso tempo popolare, come popolari appaiono le sue origini lontane nel tempo e vicine al mondo dei viaggiatori e dei marinari.

    La squadra
    I gruppi di trallalero o "i trallaleri" come si usa dire localmente, vengono chiamati squadre. La disposizione a cerchio permette di guardarsi e vedere i segnali di chi porta a squaddra (colui che dirige l'esecuzione). Una squadra può essere composta da sette, nove, e anche dodici elementi.
    Ogni squadra si compone di cinque voci:
    tenore, chiamato in genovese o primmo - "il primo", poiché è colui che intona il canto e ha il compito di dare alla melodia la giusta tonalità che in genere e quella di sol# maggiore/minore;
    contralto, in genovese contræto, detto però anche o segóndo ("il secondo") o a bagascetta ("la bambinetta"), poiché la sua esecuzione è in falsetto. Grande rilievo alla voce del contralto è stata data dal M° Paolo Besagno che nel 1996 è risultato vincitore con la squadra "I Giovani Canterini di Sant'Olcese" del premio Città di Recanati - Nuove tendenze della canzone d'autore, con il brano "O Trallalero Canzon de 'na vitta";
    baritono, chiamato controbasso insieme alla chitâra ha il compito di tenere costante il ritmo del trallalero;
    a chitâra, letteralmente "la chitarra", una voce con funzione ritmica ottenuta mettendo davanti alla bocca il dorso della mano, serve per accompagnare il canto con rapide successioni di note che imitano il suono di uno strumento a corde pizzicato;
    basso, anzi i bassi, poiché ve ne sono sempre diversi ad accompagnare con una tonalità "scura" il canto, a volte (in cerchi del canto particolarmente numerosi) si dividono in "profondi" e "cantabili".

    Le squadre di canto oggi ancora attive sono:
    La Squadra
    I Giovani Canterini di Sant'Olcese
    La Lanterna
    Gruppo Spontaneo Trallalero
    Gruppo Canterini Valbisagno
    Canterini delle Quattro valli
    Albenga Canta
    I Canterini delle Quattro Province

    Gli arrecogeiti
    Uno degli elementi più caratteristici di questo canto è la spontaneità: spesso infatti, soprattutto dopo concerti dove partecipano più squadre di canto, è facile vedere canterini di diverse provenienze aggregarsi in cerchi improvvisati e cantare, ognuno con la sua differente cadenza, fondendo in un unico trallalero i diversi stili di canto. Questi cori "improvvisati" prendono il nome di Arrecogeiti (raccogliticci). La formazione di questo tipo più facile da incontrare è quella che si esibisce tutti i sabati pomeriggio intorno alle 16 presso Piazza Luccoli, nel cuore dei vicoli genovesi.
    Il repertorio
    I brani eseguiti fanno parte della tradizione popolare in dialetto genovese, ma comprendono tipicamente anche trascrizioni di brani contemporanei di musica leggera e operetta. Anche la canzone d'autore è entrata a far parte del repertorio delle squadre di canto. Nel 1996 infatti, la squadra "I Giovani Canterini di Sant'Olcese" risulta vincitrice alla VII edizione del Premio Città di Recanati - Musicultura - Nuove tendenze della canzone d'autore. L'ambizioso progetto del M° Paolo Besagno e dei canterini era quello di utilizzare la squadra di canto come vero e proprio strumento per poter rappresentare un genere ad essa apparentemente lontano. Il brano "O trallalero Canson de 'na vitta", una canzone di Besagno, eseguita normalmente con il solo accompagnamento della chitarra - pratica comune nella canzone d'autore - viene riarrangiato e presentato in squadra, permettendo all'autore di aggiudicarsi l'importante riconoscimento recanatese.
    Tra i titoli più significativi della tradizione del trallalero si annoverano: La partenza, A bunnaseia, L'usignolo, Sento d' un certo canto, con testi sia in italiano che in genovese.
    Una caratteristica costante di tutto il repertorio è l'inclusione non solo di parti cantate, ma anche e soprattutto di sezioni strumentali. Queste sono arrangiate in modo da far sfoggio di una varietà di colori, tessiture e sovrapposizioni ritmiche, consentiti dalla particolare formazione della squadra, che è ispirata più all'organico di una piccola orchestra che a quella di un coro.



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    le foto e i filmati sono inserite a solo scopo educativo/culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    .....Continua..............

    Edited by marmari - 9/12/2016, 16:44
     
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    ...una piazzetta incastrata...una Santa "foresta"...un monastero con frati e suore ben divisi...le mille voci...il terrore giacobino e la distruzione...il restauro

    I TRUOGOLI E PIAZZA SANTA BRIGIDA



    se prendete il treno per venire a Genova, potete scendere in diverse stazioni ma oggi scendiamo a P. Prinicipe e, una volta
    sbarcati in Piazza Acquaverde con, alla nostra sinistra, il monumento a Cristoforo Colombo, scendiamo per Via Balbi, sede
    dell'Ateneo genovese e, dopo circa trenta metri giriamo a destra e...

    truogoli-santa-brigida-cartolina-antica-233x300


    I truogoli di Santa Brigida nell'Ottocento, in una foto di Alfred Noack

    un racconto da "fiaba" viaggiando nel tempo
    Lassù, in cima a Via Balbi, c’è un archivolto al di là del quale si cela una delle meraviglie del nostro centro storico. Venite con me e non fate rumore, vi prego. E’ mattina presto, il cielo è limpido e terso e potrete assistere allo spettacolo dei raggi del sole che lentamente scendono sulla Piazza dei Truogoli di Santa Brigida, accarezzando le facciate, riscaldando i suoi muri, facendo luccicare i vetri. Non c’è nessuno, a quest’ora, in Santa Brigida ma, sapete, da queste parti accadono cose davvero strane.
    Mentre ero lì, con la mia macchina fotografica tra le mani, intenta ad inquadrare il panorama, ho visto una signora piuttosto avanti con l’età che, da una finestra calava un cestino nel quale, un giovane, probabilmente il figlio, ha riposto il sacchetto del pane.
    Cose d’altri tempi, mi verrebbe da dire.
    E adesso chi arriverà? Forse delle massaie con le loro conche piene di panni?
    Guardate: usano il turchinetto e nella tasca del grembiule portano una spazzola, quasi tutte, poi, portano i capelli raccolti dentro ad un fazzoletto.
    E come chiacchierano queste popolane attorno a quel lavatoio, quasi incuranti della fatica grande che tocca loro in sorte, strigliano e sbattono i panni sulla pietra e intanto ridono, raccontano le vicende di casa, parlano dei loro figli, dei mariti e per tutta la piazza si sente il loro gradevole cicaleccio.
    Che magia antica si trova in questo posto. E poi, dopo il bucato, bisogna tornare a casa.
    E quanto è dura quella salita! Se non si ha una certa fibra, ci si sfianca a portare quelle pesantissime conche sulle testa.


    piazza-dei-truogoli-di-santa-brigida-31


    La storia racconta che Santa Brigida nel 1346 mentre si recava a Roma dal papa con Santa Cristina, passò sulle alture di Genova e indicando la città profetizzò che un giorno sarebbe stata distrutta e che i viandanti, guardando là dove un tempo si ergeva la Superba, avrebbero detto: là era Genova!
    I genovesi alla Santa svedese hanno dedicato questa splendida piazza, forse con la speranza che Brigida, di fronte a tanta bellezza, non faccia mai mancare alla città la sua protezione.


    “Superba ardeva di lumi…Genova… dal suo arco marmoreo di palazzi” (Giosuè Carducci), edifici, come dice l’ode citata, eburnei, imponenti, che incombono granitici su quell’antica “via Nuova” (via Balbi) che i nobili Durazzo e Balbi, insediatisi nel quartiere nel XVII secolo, vollero a monte dell’angusta via di Pré, per dotare le loro ricche dimore di un agevole sbocco viario verso il ponente.

    Tra queste solenni residenze s’incuneano angusti viottoli che scendono ripidi e tortuosi verso il porto o s’inerpicano, in salita, verso il monte tra un affastellarsi di case sovrapposte. L’attuale aspetto è il risultato di quel rimaneggiamento edilizio ottocentesco che intrappolò, nei loro intricati meandri, piccole creuze nella cui toponomastica riecheggia il glorioso passato della Repubblica Marinara e dei suoi domini: via di Famagosta, di Montegalletto, salita di Balaclava, di Montebello, tutte nate da un unico sentiero: salita Santa Brigida.

    Lasciata, dunque, l’ampia piazza del Vastato (l’attuale piazza della Nunziata) e procedendo in direzione della Stazione Principe, percorrendo quella “Strada delli Signori Balbi”, ricchi banchieri genovesi, si giunge in quel tratto di via dove un dimesso “stendardo”, che ben poco ha di storico, ci annuncia di essere giunti nel luogo dove, il 24 marzo 1403, l’arcivescovo di Genova, Pileo de Marinis, pose la prima pietra di quel monastero che dalla santa prese il nome. Sulla destra, un sottopasso, seguito da una scalinata, da accesso ad una piccola piazzetta dove il tempo sembra essersi fermato: le facciate, completamente rinnovate, di tipiche case medievali, che sembrano gioire dei loro nuovi vestiti gialli e rossi, fanno da cornice ai vecchi truogoli (gli antichi lavatoi di Santa Brigida), approvvigionati , da una fonte detta Bocca di Bove, un angolo di silenzio dove tendendo l’orecchio pare ancora di percepire il garrulo chiacchiericcio delle allegre lavandaie.

    Sulla vetusta tettoia, brillante di restauro, si specchia una preziosa edicola, unico ornamento di spicco nell’essenzialità della piazza. A sinistra, un solido arco, antico ingresso del monastero, continua in un dedalo di vicoli, ricchi di storia, che s’inerpicano in alto, scalando la collina, fino in Corso Dogali.

    Sono questi i luoghi dove giunsero, provenienti dalle turbolente alture di Sarzano, le monachelle agostiniane con l’intento di costruire una chiesa e di dedicarla alla santa, Brigida, di cui seguivano la regola (la regola dell’Ordine del Santissimo Salvatore di Santa Brigida è un’integrazione, in 27 capitoni, di quella di Sant’Agostino).

    Appartenente alla famiglia reale svedese, Brigida (1303-1373), sposa giovanissima del nobile Ulf Gudmarsson e madre di 8 figli, alla morte del marito si spogliò dei suoi beni per darsi a una vita di fede. In uno dei tanti pellegrinaggi, fatto a piedi o a dorso di un mulo, giunse a Genova dove trovò ospitalità, per qualche mese, nell’abbazia di San Gerolamo di Quarto, in attesa di imbarcarsi per Roma, ospitalità che certo non ricambiò se, come narra la leggenda, dall’alto del Peralto, volgendo gli occhi verso la città ne abbia vaticinato la completa rovina.
    Il monastero brigidino di Genova aveva una caratteristica peculiare: era pensato per una “coabitazione”, seppur rigorosamente separata, tra frati e suore, entrambi di clausura, il che impose la costruzione di passaggi labirintici che ci danno conto delle future creuze. Oltre alla chiesa vi erano stanze, dormitori, mense, biblioteche per i religiosi, laboratori ed officine per gli operai, nonché ampi spazi esterni come campi ed orti: una costruzione enorme, che occupavano quasi l’intero poggio. Era inevitabile che una così prossima contiguità fosse fonte di tentazioni e che, nel tempo, desse adito a malevoli sospetti, cui cercò di porre rimedio, nel 1600, Papa Clemente VIII, il cui intervento, atto a porre fine all’ “onta” rappresentata dal convento “misto”, si concretizzò, nel 1606, con la dipartita dei poveri fraticelli. Rimaste sole in tanto spazio, le suore misero in vendita i loro terreni, la cui cessione permise, due secoli dopo, la costruzione di via Balbi.

    Ma i guai non erano finiti: alla fine del settecento, in linea con le idee giacobine che giungevano dalla vicina Francia, molti ordini religiosi furono soppressi e molti possedimenti confiscati tra cui quello conventuale di santa Brigida: tutti gli edifici furono riadattati ad uso abitativo, stessa sorte che toccò alla chiesa, demolita per fare posto a tre palazzotti conosciuti come “palazzi Dufour”, dal nome del casato del compratore. Prima di questa triste fine subì la “vergogna” di essere adibita, prima, ad officina di un fabbro e, successivamente, trasformata in filanda. Dell’antica abbazia rimane solo l’arco d’ingresso, una colonna, una finestra, un muro, un residuo di affresco sotto un’arcata, tracce nascoste che potete trovare, dopo un’attenta ricerca, tra le ombre dell’intreccio dei vicoli.

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    la fontana e la piazza dopo il restauro

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    Questa volta andiamo nell'estremo ponente, a Voltri, ultima delegazione ad ovest di Genova a visitare un piccolo gioiello, una villa con il suo vastissimo parco
    Gli antichi nobili genovesi, come ovunque, avevano le loro sontuosissime residenze estiva. Questa era la villa di questa signora



    Il parco si distende sui fianchi di due colline ed arriva alla Chiesetta di S. Maria delle Grazie.



    Alle spalle solo orti e campagna ed un'osteria piuttosto conosciuta, ma che personalmente non ho mai testato, quindi non posso giudicare



    villa Brignole Sale Duchessa di Galliera





    La villa Brignole Sale Duchessa di Galliera è una villa nobiliare genovese ubicata nel quartiere di Voltri sui colli Castellaro e Givi. Si è sviluppata in seguito all'annessione successiva di diverse proprietà.
    Il corpo più antico denominato "Paraxo" era stato fatto costruire dalla famiglia aristocratica Mandillo. Il corpo centrale, sormontato al centro dallo stemma dei Brignole, corrisponde al nucleo originario secentesco mentre le due ali sono state aggiunte in un secondo tempo.
    Contrariamente ai canoni abituali, l'ingresso principale non è situato al centro dell'edificio ma sotto un portico posto sotto l'ala ad oriente. Gli interni conservano affreschi settecenteschi e decorazioni in stile rococò. Di particolare pregio la Sala delle Conchiglie. Sul retro trova spazio un interessante giardino d'inverno. Contiene anche un teatro inaugurato nel 1786 e riadibito ad ospitare spettacoli nel 2010 dopo restauri.





    La villa - collocata su una terrazza a mezza costa a cui si accede da due monumentali scale simmetriche - ha anche delle dépendance: il Caffè, la Latteria e il Castello Belvedere che dopo anni di decadenza sono state ristrutturate utilizzando i finanziamenti elargiti in occasione delle manifestazioni colombiane del 1992.
    Dal 1992 il parco ha subito una serie di danni provocati da atti vandalici e di una mancanza di manutenzione sufficiente dovuta alla carenza di giardinieri in loco. Il Comune di Genova, tuttavia, ha provveduto al restauro del giardino all'italiana (per la cronaca, quando i Signori erano ivi residenti durante le estati, il giardino all'italiana veniva lavorato di notte, con impianto di nuove essenze, per fare in modo che i proprietari ed i visitatori avessero al risveglio sempre una vista nuova), che sarà aperto al pubblico il 27 settembre in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio. Il restauro, durato quasi un anno è il primo lotto di un'altra serie di interventi che vedranno restaurate nuovamente le dépendance e lo spettacolare impianto scenografico delle cascate e le terrazze panoramiche costruite nel XVIII secolo alle spalle del palazzo.











    La storia
    Nel 1675 la villa fu acquistata da Giovanni Francesco Brignole Sale, dopo lavori di ampliamento i Brignole Sale la rinominarono villa Grande.
    Nel 1699 il marchese Anton Giulio Brignole Sale commissionò i lavori di costruzione del giardino formale terminati nel 1711. Al doge Giovanni Francesco Brignole Sale si devono nel 1746 le terrazze, lo stemma e la scalea. Nel 1780 il voltrese Giuseppe Canepa decorò gli interni della villa in stile rococò a cui seguì l'intervento di Gaetano Cantone per la realizzazione del teatro storico. Nel 1803 vi lavorò Emanuele Andrea Tagliafichi che progetto un parco all'inglese e si dedicò ad alcuni interni del palazzo. Nel 1814 Carlo Barabino completò il bosco detto "del Leone" e nel 1872, Maria Brignole Sale De Ferrari, duchessa di Galliera, fece realizzare il vasto giardino romantico progettato da Giuseppe Rovelli. Nel 1888 la duchessa la lasciò in eredità perpetua all'Opera Pia Brignole Sale. Dal 1931 è in uso al Comune di Genova, inizialmente in affitto e poi dal 1985 in proprietà tranne il palazzo e l'antistante giardino.
    Negli anni ha ospitato diversi ospiti illustri tra cui: Luisa Maria Adelaide di Borbone-Penthièvre, Maria Cristina di Savoia, Ferdinando II di Borbone, re Carlo Alberto, la regina Maria Teresa d'Asburgo e gli imperatori Francesco Giuseppe d'Austria e Guglielmo II di Germania.
    Il giardino divenne famoso nella prima metà dell'Ottocento per le sue camelie e la collezione di agrumi, talmente apprezzati che venivano inviati regolarmente come regalo a Maria Teresa, regina di Sardegna e moglie di Carlo Alberto di Savoia. Di quegli anni è la rappresentazione di M.P. Gauthier e la descrizione fatta dal Bertolotti nel 1832: "tra principesche sale, nel mezzo di giardini e boschi di rinomanza europea".
    Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale le truppe tedesche la dotarono di opere difensive per il controllo della costa e delle valli Leira e Cerusa. Mentre le trincee non sono più visibili sono ancora presenti bunker di vedetta e di ricovero.
    Il parco
    Il parco della villa, attualmente adibita dal comune a parco urbano si estende per circa 32 ettari di cui 25 visitabili.
    È costituito da una parte a giardino formale, nei dintorni della villa, con elementi botanici classici dei giardini dell'epoca quali cedri, cipressi, ippocastani, magnolie, e palme. Con i restauri effettuati nel corso del 2013 è stata ricostituita la collezione di amarillidacee e piante sudafricane, secondo gli elenchi dei giardinieri della Duchessa: spiccano per la loro fioritura Amaryllis, Hippeastrum, Agapanthus e Nerine. Il bosco romantico si presenta con innesti di vegetazione tipica ligure quali pini marittimi e lecci ed un'altra tipicamente agricola con olivi e alberi da frutto e abitazioni contadine. Tra le specie della flora spontanea si segnalano crocus biflorus, iris foetidissima e l'orchidacea spiranthes spiralis, entità piuttosto rare in Liguria.
    Nella valle del Leone, in pessimo stato di conservazione, è stato realizzato un bosco ispirato alla Divina Commedia, con la porta degli inferi, la lonza (attualmente conservata nel palazzo) e il monumento a Dante Alighieri e Gabriello Chiabrera.
    Nel cuore del parco, l'area del Belvedere (1872) ideata da Giuseppe Rovelli è frutto di un ardito progetto di modellazione del terreno, con un'imponente grotta attraversata da ruscelli e spaccata da una cascata che proveniente dall'antro posto nei sotterranei del castello.
    In una spianata erbosa si trova un recinto per i daini, vera attrazione del parco. Subito fuori di due dei cancelli del parco vi sono due chiese: in basso il convento di San Francesco, ora in disuso, e il santuario della Madonna delle Grazie (intitolato anche a san Nicolò) in cima alla collina.
    Nella parte alta è conglobata la porta nord all'abitato di Voltri inserita nella cinta muraria medioevale in parte ancora presente all'interno del parco.















    Aggiungo un articolo del Secolo XIX riguardante un presepe storico in mostra nella chiesatta

    Genova - Sullo sfondo non ci sono le palme o le grotte, nemmeno le dune del deserto. Nel Santuario di Santa Maria delle Grazie, all'interno del parco di Villa Duchessa di Galliera, la scena è ambientata in strade conosciute e frequentate, la Voltri del 1700, con i palazzi che hanno quasi gli stessi colori di oggi. Come ogni anno, e con l'inaugurazione pochi giorni fa, è possibile assistere alla magia del presepe della Duchessa, in parte donato dall'aristocratica Maria Brignole Sale De Ferrari, in parte risalente ad epoche precedenti, con alcune statuine riconducibili alla manifattura napoletana del tardo Seicento, nelle sale all'interno del Santuario.
    Tanti scorci e personaggi, dai pastori e ai commercianti in attesa della nascita di Gesù, anche le figure tipiche del presepe genovese, come il moro e il “mendicante zoppo”, un personaggio che affonda le sue radici in epoche lontane e il suo valore simbolico proprio nel muovere commozione, tanto da essere riposto anticamente nel cesto delle offerte per la fine della messa. Personaggi e statuine di pregio, anche della scuola del Maragliano.




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    Il Natale di una volta



    Si sa, oggi è tutto differente, ma come si festeggiava il Natale a Genova una volta? Cosa si metteva in tavola?
    Intanto vi do una curiosità. Per la Genova antica l'albero di Natale era il corbezzolo (armun), perchè fiorisce in questo periodo ed è uno dei pochi arbusti che ha fiori, foglie e frutti contemporaneamente. I monti liguri ne sono pieni.
    Ma veniamo alla cucina ed alla tavola.

    "Tutto l'anno con gran stento
    se se mangia pe no moi,
    quande a Zena ven Natale
    ciaschedun mangia pe dui..."



    "Tutto l'anno a gran fatica / se si mangia per non morire, / quando a Genova vien Natale, / ciascuno mangia per due...".
    Così inizia un'antica filastrocca: e in effetti - a parte l'aspetto religioso - Natale, che per lunghissimo tempo coincise con l'inizio dell'anno, rappresentava una sorta di rivalsa mangereccia nei confronti delle privazioni di dodici mesi. A costo di qualsiasi sacrificio, abiurando magari alla risaputa assennatezza ligure, come consigliava un'altra canzoncina:

    "Andae a impegna a strapunta
    a-o monte de pietae;
    fae debiti per zonta
    oppure zazzùnae!'



    "Andate a impegnarvi il materasso / al monte di pietà; / fate debiti per giunta / oppure digiunate!".
    Al gran cimento, appunto, meglio ci si preparava col rigoroso digiuno della vigilia. E anche la mattina del famoso giorno - a portare al diapason l'attesa - ci si asteneva dal cibo, concedendosi appena una tazza di brodo. A tavola, sull'orlo del collasso, si sedeva soltanto alle cinque del pomeriggio, per rimanervi sino a notte inoltrata. Era il capofamiglia a sistemarsi per ultimo: aveva infatti sbarrato la porta di casa con tutte le serrature, a significare che da quel momento l'intimità non doveva essere turbata da nessuno.
    L'avvio - dopo il segno di croce - era affidato ai lunghi, tipici maccheroni, detti appunto "natalin". Cotti in brodo di cappone e sposati a piccole sfere di salsiccia: un riferimento alle monete, quindi un augurio di prosperità.
    Come ammoniva Nicolò Bacigalupo, "no sae manco Natale, / se finn-a menestra eguale / a fòsse elimina":
    non sarebbe neppure Natale, / se una minestra eguale / fosse eliminata.
    Ma al proposito ci pare utile aprire una considerevole parentesi, per occuparci della nascita dei maccheroni stessi. Sfatando anzitutto la credenza della nascita partenopea: un teste ineccepibile come Benedetto Croce, per limitarci a lui, assicura che ancora alla fine del '500 la pasta era a Napoli considerata quasi un cibo esotico, e "mangiamaccaruni" rappresentava insulto riservato ai Siciliani. Sfatata anche la leggenda d'una derivazione dalla Cina - oltretutto la preparazione offerta a Marco Polo presentava farina tratta dall'albero del pane - o dalla Grecia classica, rilevato che la "makaria" consisteva in farina d'orzo intrisa nel brodo, sembra che la palma spetti proprio alla Sicilia. Ciò, almeno, affidandosi alla più remota testimonianza attendibile: il trattato di geografia ultimato nel 1154 dall'arabo Idrizi, che annotò a proposito di Trabia: "si fabbricano spaghetti in quantità tale da approvvigionare oltre ai paesi della Calabria - intendendosi allora con tale termine tutta la porzione meridionale d'Italia - quelli dei territori musulmani e cristiani dove se ne spediscono consistenti carichi".
    Ma il secondo documento inconfutabile nella storia della pasta è tutto genovese, e risale al 1279. In quell'anno, e precisamente il 4 febbraio, il nostro concittadino Ronzio Bastone, di professione soldato, ebbe l'ottima idea di far testamento, affidandosi al notaio Ugolino Scarpa. Non sappiamo quanto gli eredi si mostrassero entusiasti del particolare, ma tra le poche cose inventariate una è per noi di speciale importanza "barixella una piena de macaronis" un cestello colmo di maccheroni.
    Si può argomentare che derivassero appunto dalla Sicilia, con cui erano fitti i rapporti commerciali, ma sta di fatto che presto si giunse - e prima d'una quantità di altre regioni - ad una produzione artigianoindustriale, su cui si fanno via via più numerosi i documenti. La pasta del soldato Bastone, del resto, era chiaramente secca, il che presuppone già, rispetto alla fresca, una certa "tecnica". Cibo per raffinati, se Gian Andrea Doria - limitandoci ad un esempio - in previsione della visita di Margherita d'Austria nella sua villa di Fassolo, s'era provvisto di "libre 100 di fidelli" e "libre 50 di gnocheti": in quegli anni venduti rispettivamente a 4 e 6 soldi alla libbra, secondo i prezzi stabiliti dall'Arte dei Fidellari, vera e propria associazione di categoria, nata a Genova nel 1574.
    Ma quantità di prodotto a parte, notevolissima era pure la qualità. Lo testimonia un ghiottone esperto quale il milanese Ortensio Landò, che nel suo «Commentario delle cose d'Italia» così lodava nel 1553 i nostri maccheroni, dandoci pure una "ricetta" un tantino curiosa: "Soglionsi cuocere insieme con grassi capponi et così freschi da ogni lato stillanti butirro et latte, et poi con liberale e larga mano vi sovrappongono zucchero et canella della più fine che trovare si possa: aimé, che mi viene la saliva in bocca solo a ricordarmene"... Tommaso Garzoni, inoltre, emiliano di Bagnacavallo, pubblicando nel 1585 «La piazza universale di tutte le professioni e i mestieri», nella descrizione del paese di Bengodi - dove fagiani cotti alla perfezione corrono verso la bocca al semplice suono d'una tromba, e il cielo manda per pioggia brodetto di capponi - asserisce che le mura "sono fabbricate di pasta di Genova"...
    Scegliendo il meglio in ogni campo alimentare, il bizzarro scrittore si affidò dunque alla valentìa dei nostri "fidellari". E l'eccellenza non dovette conoscere flessioni nel tempo, se ancora nel 1740 i "maextri lasagnari" di Venezia invitavano il nostro conterraneo Paolo Adami a recarsi là, per apprendere da lui le caratteristiche delle "paste fini all'uso di Genova".
    Tornando al pranzo natalizio, diremo che ai "natalin" seguivano in sapiente avvicendarsi il cappone lesso, il tacchino arrosto, i "berodi" davvero i sapidi sanguinacci - col contorno di radici, possibilmente di Chiavari, a mitigare il grasso eccessivo; e ancora i "frìtti nell'ostia", delizie di evidente derivazione orientale, la scorzonera egualmente fritta, per arrivare al pandolce...
    Sua Maestà il Pandolce: di per sé un simbolo natalizio. Lo storico Cervetto addirittura prospettò l'ipotesi della sua derivazione da un rito persiano: al primo accendersi dell'aurora di capodanno il giovane più aitante recava doni al re, fra cui un pane di inusitate proporzioni e qualità, diviso poi coi dignitari. Portato fra noi da marinai o mercanti, fu detto dapprima "Marzapane Reale", e anche "Pane di Natale". Figurava pure tra le portate natalizie del Doge, come dei Governatori delle varie colonie...
    Naturalmente la maggior parte delle donne lo confezionava a casa propria, con la certezza di custodire determinati segreti a proposito della più corretta lievitazione, poniamo, e della dose ottimale di "acqua nanfa", com'era chiamata l'essenza di fior d'arancio. Si asserisce che ancora nel secolo scorso qualche massaia addirittura portasse l'impasto nel proprio letto accanto al praeve, il marchingegno che teneva le lenzuola prudentemente sollevate attorno allo scaldino, nell'occasione chiamato a confortare non soltanto le membra intirizzite, ma anche la lievitazione del dolce in fieri...
    Ma al proposito occorre mettere in guardia contro il cosiddetto "pandolce basso", che appare ancor più surrettizio quando è presentato – come spesso avviene - quale "pandolce antico", quindi più autentico. Si tratta invece d’un falso indecente. Nei tempi più lontani la lievitazione - lo si è detto - era necessariamente naturale; a rigore, il lievito di birra è già un arbitrio; figurarsi il lievito in polvere, "chimico", che così moderno è necessario alla preparazione spacciata per vetustissima. Soltanto, la cosa risulta ai produttori più economica, più spiccia, più sicura, più redditizia.
    Ma anche poco onesta, se gabellata come tradizionale specialità ai ''foresti".
    La fragrante forma bruno-dorata, comunque, sulla tavola natalizia esigeva un vero e proprio rito. Con un ramoscello d'alloro conficcato sul vertice - le foglie della gloria, del trionfo - passava da un commensale all'altro, per il bacio: era assunto a simbolo del pane quotidiano. Poi il più giovane - fosse un poppante guidato nei gesti - doveva togliere l'alloro, e il più vecchio procedere al taglio: una trasparente allegoria della continuità della famiglia. La prima fetta veniva serbata per il primo mendicante che avesse bussato alla porta, la seconda riposta per le affezioni alla gola dell'inverno in corso, ritenendosi prodigiosa in materia…
    Ma le successive fette erano finalmente distribuite ai presenti, che intanto avevano avuto modo di rifiatare un poco.
    Dopo il pandolce, erano proposti all'attenzione generale gli anicini, i piccoli biscotti da tuffare coscienziosamente nel vino opportuno. Un'operazione che i genovesi ripetono almeno dal 1494, data di un «Libro delle Cerimonie» che parla fra l'altro di "vinum muscatellus cum biscotis", in un latino che non ha bisogno di traduzione. Molti ricorderanno, del resto - a ribadire la diffusione della pratica - la veste genovese della Pastorella di Sant'Alfonso de' Liguori, che suonerebbe quasi irriverente se non sapesse tanto di felici Natali lontani, profumati d'alloro e mandarini:
    "A Natale - si afferma - se mangia o pandoçe, cò-i bescheutti toccae in to vin'...
    Poi il ruscellare della frutta fresca e secca, in cui erano indispensabili le noci: un altro riferimento alle monete, quindi un altro augurio di prosperità.
    Dovevano per questo essere presenti su tutte le mense, e perciò "dinâ da noxe", denaro per la noce, era detta la mancia natalizia ai subordinati: l'unica che i dipendenti del Banco di San Giorgio potevano accettare nel corso dell'anno, secondo le intransigenti disposizioni del 1444. Quanto alla frutta fresca, i più - che vorremmo alle prese con la sconsolante realtà d'oggi - esigevano per ogni specie determinate origini: arance di Sanremo, marroni della Vara, mele "Carle" del Finale, pere di Camogli, uva delle Cinque Terre e così via. Quindi, canditi e confetti.
    I primi nati verosimilmente proprio a Genova, e ovunque tenuti in gran conto già nel '200; i secondi egualmente apprezzati anche all'estero sin da epoca medioevale, specie quelli profumati al muschio o alla rosa: capaci pure - come si credeva - di mantenere candida la cute e determiare la caduta dei bitorzoli.
    Ancora, cioccolatini e torrone, e finalmente, a chiudere boccheggiando il cimento, l'imprevedibile, rugiadoso stracchino: forse a mitigare i troppo dolci sapori. Soltanto a notte inoltrata il pranzo aveva termine. I bimbi da tempo dormivano col viso sulla tavola, racchiudendo fra le bra cia il "tondo di Natale", il piatto con la porzione di leccornie da smaltire con ragionevole dosaggio.


    Il 'Menù

    Natalin in to broddo
    Cappun boggïo co-a mostarda
    Bibbinn-a a rosto co-e patatte
    Frïti in ta négia
    Scorsonaea frïta
    Radicce bogg'ie
    Berodo
    Laete döḉe frïto
    Pandöḉe
    Anexin
    Frûta fresca e secca
    Candii
    Confettûe de Natale
    Ciccolatin
    Torron
    Stracchin


    (traduzione italiana)
    Maccheroni in brodo
    Cappone lesso con mostarda
    Tacchina arrosto con patate
    Frittinell'ostia
    Scorzonera fritta
    Radici di Chiavari in insalata
    Sanguinaccio
    Latte dolce fritto
    Pandolce
    Anicini
    Frutta fresca e secca
    Canditi
    Confetti colorati
    Cioccolatini
    Torrone
    Stracchino
    Vini:
    Dolcetto di "Altare
    Malvasia di Pietra Ligure
    Moscatello di 'Taggia


    Le preparazioni
    (per 4 persone)

    Maccheroni in brodo
    Un cappone; 500 gr. dì manzo magro; una carota; una costa dì sedano; una piccola cipolla; 200 gr. di Natalinì (maccheroni lisci, lunghi circa 20 cm.); 150 gr. di salsiccia; parmigiano grattugiato; sale.
    Spiumare il cappone; togliere le interiora, le zampe, la testa con il collo, e bruciacchiarlo sulla fiamma. Lavarlo ed eliminare il più possibile il grasso eccedente.
    Porre al fuoco una pentola capace di contenere il cappone stesso e il pezzo di manzo. Versarvi l'acqua sufficiente, unire le verdure e - quando alzerà il bollore - il cappone e il manzo.
    Lasciar cuocere finché le carni risulteranno tenere; sgocciolare e deporle su di un piatto da portata. Filtrare quindi il brodo e rimetterlo in una pentola pulita. Porla sul fuoco e a bollore raggiunto gettarvi i “natalin" e la salsiccia, ridotta a piccole palline.
    A cottura ultimata servire con parmigiano grattugiato.

    Cappone lesso
    Vedi sopra, a "Maccheroni in brodo".

    Mostarda
    500 gr. di fichi bianchi non troppo maturi; 500 gr. di zucca mantovana soda; 4 pere non troppo mature; 4 mele non troppo mature; 100 gr. di cedro candito: 100 gr. di ciliegie sciroppate; 500 gr. dì m iele; 1 It. di vino bianco secco; 2 albumi; 75 gr. di senape bianca in polvere.
    Sbucciare le pere e le mele; tagliare le prime a metà e le seconde a quarti.
    Mondare la zucca, eliminare i semi e ridurla a pezzi grandi quanto quelli delle mele. Pulire i fichi con un panno umido; mettere quindi tutti i frutti a bollire in una pentola con acqua.
    Far cuocere per 10 minuti; scolare e far appassire al sole. Sistemare poi la frutta in vasi, assieme al cedro tagliato a pezzi e alle ciliegie private dello sciroppo; lasciare 3-4 cm. di vuoto in alto.
    Porre al fuoco una pentola col vino e il miele; lasciar addensare rimestando sempre. Montare gli albumi a neve e unirli al composto; aggiungere la senape, sciolta con un po' di vino tiepido.
    Versare sulla frutta, non solo ricoprendola interamente, ma superandola di 2 cm. circa. Chiudere ermeticamente e far riposare per almeno 60 giorni.
    Conservare lo sciroppo avanzato: se nei vasi il suo livello dovesse scendere, sarà opportuno aggiungerne.

    Fritti nell'ostia
    6 ostie per fritti (20 cm. di diametro); una piccola cipolla; una manciata di prezzemolo; 150 gr. di vitello, 50 gr. di animelle, 50 gr. di cervella; 100 gr. fra poppa e granelli; 2 cucchiai di piselli lessati; un fondo di carciofo; 2 uova; parmigiano grattugiato, sale, olio extravergine d'oliva brodo.
    Porre in una casseruola un po' d'olio, la cipolla e il prezzemolo tritati unire il fondo di carciofo tagliato a fettine, nonché le carni, tranne la cervella.
    Far rosolare il tutto, quindi tritare finemente e porre il ricavato in una ciotola.
    In acqua bollente salata scottare la cervella, spellarla e unirla alle carni tritate; aggiungere i piselli, 2 cucchiai di parmigiano e i 2 tuorli Salare amalgamare bene, e se l'impasto risulterà troppo asciutto ammorbidire con un po' di brodo.
    Passare sotto l'acqua del rubinetto un'ostia alla volta, tenendola sul palmo della mano; porvi al centro un cucchiaio del composto e ripiegare rapidamente i lati verso l'interno, dando alla preparazione la forma di un pacchetto. Passare nell'albume montato a neve e quindi nel pane grattugiato. A lavoro ultimato, friggere in olio caldo; quando si raggiungerà un bel colore dorato, deporre su carta assorbente da cucina.
    Servire caldo.

    Scorzonera fritta
    2 mazzi dì scorzonera; pane grattugiato; 2 uova; olio extravergine d'oliva; un limone; sale.
    Raschiare e lavare la scorzonera; tagliarla prima a metà nel senso della lunghezza, poi a pezzi lunghi circa 8 cm. Lessare in acqua salata, e a cottura ultimata deporre su di un canovaccio ad asciugare. Passare i pezzi nell'uovo battuto e quindi nel pane grattugiato. Friggere in olio caldo, e quando saranno dorati adagiarli su carta assorbente da cucina. Servire caldi, con quarti di limone.

    Tacchina arrosto
    Una tacchina; 100 gr. di pancetta; 200 gr. dì salsiccia; alloro; olio extravergine d'oliva; vino bianco secco; sale.
    Spennare la tacchina, preferibile per morbidezza al maschio; togliere le interiora, le zampe, la testa con il collo; bruciacchiarla sulla fiamma, quindi lavarla con cura. Legarle le cosce in modo che non abbia a scomporsi, e deporla in un tegame a bordo alto, dove si sarà versato un po' d'olio. Introdurre all'interno della tacchina stessa la salsiccia e 1-2 foglie d'alloro; ricoprirne il petto con alcune fette di pancetta e altre foglie d'alloro.
    Salare e infornare.
    Arrostire a fuoco moderato, avendo cura di bagnare a intervalli col fondo di cottura; cominciando a colorire, versarvi un bicchiere di vino bianco. La cottura sarà ultimata quando la carne avrà assunto una bella tinta bronzea e non opporrà alcuna resistenza alla forchetta.
    Servire caldo e freddo, dopo aver tolto la pancetta dal petto, le foghe d'alloro e la salsiccia dall'interno.

    Patate arrosto
    600 gr. di patatine; olio extravergine d'oliva; sale.
    Pelare le patatine, lavarle e porle in una padella di ferro con un po' d'olio; coprirle e farle cuocere lentamente sul fornello. Quando la cottura della tacchina sarà quasi ultimata, versare nel suo tegame le patatine stesse: salarle e farle insaporire sino alla fine.

    Radici di Chiavari in insalata
    500 gr di radici di Chiavari; aceto di vino bianco; olio extravergine d'oliva; sale.
    È possibile riconoscere le radici di Chiavari perché terminano a punta e recano molte foglie alla sommità. (comunque sono le radici, quelle amare, molto usate nella vecchia Genova – nota mia)
    Pulire le radici raschiandole accuratamente, e ridurle a tronchetti di 5 circa; se molto grosse si dovranno pure tagliare in due parti nel senso della lunghezza, o addirittura in quattro.
    Lessarle in acqua salata per circa 20 minuti; quando risulteranno tenere scolarle e condirle con sale, aceto e olio.
    Servire caldo.

    Sanguinaccio
    2 piccoli sanguinacci; una cipolla piccola; olio extravergine d'oliva.
    Lessare i sanguinacci per una decina di minuti. Scolarli e lasciarli raffreddare. Tagliarli a fette alte 1 cm. circa e adagiarle via via in una padella, dove in precedenza si sarà rosolata in un po' d'olio la cipolla tagliata fine. Soffriggere per alcuni minuti, prima su di una faccia e poi sull'altra.
    Servire subito.

    Latte dolce fritto
    250 gr. di semola di grano duro; 1lt. di latte; 4 uova; 100 gr. di zucchero, pane grattugiato; olio extravergine d'oliva; sale; zucchero a velo.
    Porre al fuoco il latte e quando alzerà il bollore farvi cadere a pioggia la semola. Continuare la cottura per circa 30 minuti, rimestando sempre.
    Ritirare quindi dalla fiamma e amalgamarvi 2 uova e 2 tuorli; versare il composto sulla madia, formando uno strato di circa 1 cm. d'altezza.
    Quando sarà freddo, tagliarlo a losanghe di circa 4 cm. di lato; passare nell’albume battuto e nel pane grattugiato, infine friggere in olio caldo.
    Servire con zucchero a velo.

    Pandolce
    Per il lievito: 20 gr: di lievito di birra; 300 gr. di farina.
    Per il pandolce: 500 gr. di farina; 100 gr. di burro; 250 gr. di zucchero; 1/5 di lt. fra acqua e acqua di fior d'arancio; 200 gr. d'uvetta sultanina; 100 gr. di zibibbo; 100 gr. di pinoli, 100 gr. di cedro candito; 50 gr. di semi di finocchio; sale.
    Porre sulla madia la farina prevista per la prima lievitazione e versarvi il lievito diluito in mezzo bicchiere d'acqua tiepida; impastare con cura, aggiungendo se necessario altra acqua. Disporre l'impasto in una ciotola, ricoprirlo con un panno e tenerlo in luogo caldo per almeno una notte intera.
    Il giorno successivo mettere a bagno in acqua tiepida le due qualità d'uva e tagliare il cedro a piccoli pezzi. Disporre sulla madia la farina rimasta e versarvi il burro precedentemente fuso, l'acqua di fior d'arancio, lo zucchero, un pizzico di sale e la pasta lievitata; amalgamare il tutto, quindi lavorare con cura. L'insieme dovrà risultare morbido e omogeneo, perciò si aggiungerà acqua se necessario.
    Scolare e asciugare l'uvetta, porla sulla spianatoia col cedro, i semi di finocchio e 1 pinoli; incorporare tutto ciò alla pasta e lavorare con forza per almeno un quarto d'ora. Tagliare il ricavato in due parti eguali e porli ciascuna su di una placca unta di burro, dando la forma caratteristica del pandolce; imbrigliare tutt'attorno alla base con un tovagliolo ripiegato, in modo che lievitando non perda la forma stessa; incidere la sommità con un coltello, ad ottenere il disegno d'un triangolo equilatero; ricoprire con un canovaccio e tenere al caldo per circa 12 ore.
    Terminata la seconda lievitazione, togliere il tovagliolo e porre in forno a 180°, cuocendolo per circa 1 ora. Il pandolce sarà pronto quando la crosta avrà un bel colore bruno.
    Servire freddo.

    Anicini
    5 uova; 300 gr. di zucchero; 400 gr. di farina; 4 albumi; un pizzico di bicarbonato di sodio (1 gr.); gusto d'anice.
    Mettere in una terrina le uova e lo zucchero; lavorare con un cucchiaie di legno, tenendo il recipiente fra le ginocchia, in modo da scaldarlo leggermente. Quando le uova saranno ben gonfie, unire gli albumi montati a neve ferma, l'anice e la farina. Versare il composto in uno stampo rettangolare imburrato, della larghezza di 10-12 cm. circa; livellare e cuocere in forno a 170°.
    Ritirare quando si avrà un bel colore dorato, lasciar raffreddare, quindi tagliare dei segmenti a forma di mostaccoli, della larghezza di cm 2,5 circa. Adagiarli sulla placca e farli biscottare in forno.
    Se riposti in una scatola di latta con coperchio, gli anicini si conservano sufficientemente a lungo.

    Vini

    Dolcetto d’Altare - Ottimo per gli arrosti di carni bianche, come pure per le verdure ripiene. Di color rosso rubino intenso, con sapore abboccato, lievemente amarognolo, è da preferirsi vecchio; l'alcolicità è di 11°-13°; deve essere servito alla temperatura di 16° C.

    Malvasia di Pietra Ligure - E indicato per il pandolce e il dessert in genenere giallo dorato, con sapore dolce, è da preferirsi a medio invecchiamento; l'alcolicità di 13°-14°; deve essere servito alla temperatura di 8°-1 0 °C.
    .
    Moscatello di Taggia - Adatto per dessert, particolarmente per intingere biscotti. Di color giallo paglierino, con sapore dolce e frizzante, è da preferirsi a medio invecchiamento; l'alcolicità è di 8°-9°; va servito alla temperatura di 12°-14° C.




    pandolce classico




    Natale 1901: la prima pagina del «Successo», il popolare foglio umoristico nostrano, con una celebre poesìa àeì Bacìgalupo dedicata aììa festività: "stimolo pe-o credente, / delizia do mangion..."



    Tutto quanto sopra è stato tratto da "Le ricette liguri per tutte le occasioni" di Esther e Michelangelo Dolcino - Nuova editrice genovese editore



    poesie riguardanti il tema, non ricordo da dove ho preso questa pagina



    le foto sono inserite a solo scopo didattico/culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

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    L'Epifania



    Ancora un intermezzo tradizionale culinario con tutte le particolarità della Liguria e di Genova in particolare, sempre tratto da "Le ricette liguri per tutte le occasioni" di Esther e Michelangelo Dolcino - Nuova editrice genovese editore


    Se ci affidiamo a un paio di leggende, si deve dedurre che la Befana ha origini liguri, e precisamente ponentine…
    In un convegno orgiastico di streghe al Castello dell'Agugliotto, una di queste aveva portato con sé un'ampolla d'acqua benedetta sottratta alla chiesa d'un villaggio, ripromettendosi di trarne divertimento. Decise infine di farla bere alla collega più giovane e d'aspetto meno laido: cosa che avvenne tra le beffe e le risate delle altre, danzanti oscenamente tutt'attorno alla sprovveduta. La quale si sentì al primo sorso trasformata tanto da scostarsi dal gruppo ripetendo più volte: " Beffa na! Beffa na!" ". ossia "Non scherzare!"… Quindi si allontanò per sempre dalle compagne, trovando un nome da quel "Beffa na" ma anche un'occupazione: queIla, appunto, di recare una gerla di doni ai bimbi, la notte che precede l'Epifania.
    Secondo l'altra tradizione del Ponente, invece, da principio la Befana sarebbe stata una pastorella orgogliosa: rifiutandosi di rendere il dovuto maggio a Gesù Bambino, venne condannata alla particolare quanto faticosa incombenza del 6 Gennaio. Ma per altri, ancora, la pena venne assegnata per false informazioni date ai Magi sulla via da seguire.
    In realtà, il nome di "Befana" deriva da una solenne storpiatura della arola greca "Epifania", "manifestazione". La solennità, fissata dagli apostoli stessi, venne dapprima celebrata col Natale: fu solo con Papa Giulio I, nel IV secolo, che ebbe un giorno particolare: comunque una festa multipla, ricordando contemporaneamente il "manifestarsi" di Gesù ai Re Magi d'Oriente, per mezzo della stella, la "manifestazione" avvenuta quando Cristo fu battezzato da Giovanni, e ancora, la "manistazione" compiuta dal Redentore alle nozze di Cana, quando mutò acqua in vino.
    Per Genova, poi, assumeva anche il significato di ceririmonia civile, giacché nella medesima occasione si offriva alla chiesa di San Giorgio un pallio d'oro, in ringraziamento delle vittorie ottenute. Il Doge in persona apriva con gli Anziani la fiabesca sfilata, seguito dai nobili…
    Ma ancor più fastoso era risultato il corteo che in precedenza, precisamente nell'anno di grazia 1100, accolse l'arrivo nel nostro porto dei Re Magi: naturalmente delle loro spoglie, donate in Terra Santa ai crociati milanesi per il comportamento in battaglia.
    Nei primordi della tradizione cristiana, comunque, non furono considerati tre, ma quattro, cinque, e persino dodici; quando il numero divenne quello a noi familiare diversi suonavano 1 nomi: Appelias, Amerus, Damasus Si ritiene sia stato il venerabile Beda, nell'VIII secolo, a introdurre la denominazione di Gaspal, Bathasal e Melchior, e anche a deliberarne l'aspetto: giovane, glabro e roseo il primo, donatore d incenso al piccolo Gesù; negro e barbuto il secondo, apportatore di mirra; vecchio l'ultimo con barba e capelli canuti, recante un prezioso omaggio d'oro.
    Così li vediamo in ogni presepe, e in tal modo li effigiò pure il nostro del Maragliano. Simboli delle tre età della vita, forse, o delle principali razze umane.
    Solenni - dicevamo - risultarono le cerimonie nella sosta genovese delle supposte spoglie, e forte la tentazione di trattenere reliquie tanto prestigiose; ma i Magi proseguirono il loro viaggio verso Milano, dove furono inumati nella basilica di Sant'Eustorgio. Li rimasero qualche decennio, sinché con la distruzione di Milano stessa ad opera di Federico Barbarossa vennero trasferiti nella cattedrale di Colonia. Inutili risultarono, nei secoli, i tentativi di ottenere la restituzione, persino con interventi papali: fu soltanto nel 1903 che il cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano, conquistò un parziale successo, ricevendo un avambraccio, uno stinco e parte d'una scapola…
    Questi non rappresentarono, tuttavia, i primi prelievi: più fortunato dei milanesi - e più abile - era stato un genovese, Nicolo de David chi con atto del 14 luglio 1322 legò reliquie dei tre Re, ottenute in qualche modo alla chiesa di San Francesco in Castelletto. A tali monaci, appunto si dovette la particolare diffusione genovese del culto per i Magi espresso fra l'altro da un oratorio dello stesso nome - distrutto nei bombardamenti dell'ultimo conflitto - e da un vicolo, una salita e una piazzetta a loro intitolati e ancor oggi esistenti.
    Passando finalmente alla tradizione gastronomica, un proverbio ci suffraga: "Pasqua Epifania, gianca lasagna''. La bianca lasagna impererà appunto nel giorno di Pasqua Epifania: quest'ultima parola coll'accento spostato dalla posizione ortodossa soltanto per ragioni di rima. E alti proverbio ribadisce il precetto: "A Pasquèta, 'na bonn-a lasagnata a l'é consueta''. Ricordandoci pure che il giorno della Befana è anche detto "Pasquèta": con raccomandazione per i genovesi di non chiamare così come ripetiamo a proposito del "Lunedì dell'Angelo", - repetita iuvant appunto la seconda festa di Pasqua: lasciamo ciò ad altre regioni.
    La preparazione specifica, comunque, è tanto importante da meritare sorta di scheda anagrafica:
    Nome: Lasagna.
    Orrigine: Come in alcune nobilissime famiglie arcisecolari, un soffio di leggendaria incertezza. Forse deriva dal greco "laganon" (focaccia), riverso il latino "laganum"; forse - e più verosimilmente – dall'arabo "lisan" "striscia".
    Luogo di nascita-:Impossibile stabilirlo, anche se qualcuno propende per natali siculi, in nome di ciò che s 'è detto sul primo apparire della pasta in genere (v. a Natale).
    Età: Anche questa improponibile. Non tanto perché si tratta di una signora - una vera signora della tavola - ma per la mancanza di dati risolutivi. Al proposito possiamo solo ricordare che fra gli atti dei notai vesi, un contratto di locazione del 7 Gennaio 1316 è a favore di certa Maria Borogno, "che fa lasagne"; e che in un inventario del 1363, steso dal recchese Giacomo Vicini, è menzionato un mestolo forato per lasagne. Altro documento precedente, in data 31 Maggio 1315, c'informa poi che a bordo della galea di Paganin Doria erano due "mastri lasagnari". Certo la ciurma non si abbandonava a pressoché quotidiane "lasagnate", ma sta di fatto che il termine indica la popolarità della lasagna, scelta a rappresentare - per antonomasia - la pasta in genere.
    Residenza: Le lasagne sono presenti in tutta la regione: in alcune località un po' più piccole e spesse - e magari "d", cioè di farina integrale (v. Sant'Antonio) - in altre più ampie e sottili. Amplissime e sottilisime nel savonese, dove perciò sono chiamate per la finezza "mandilli de sea ovvero "fazzoletti di seta".
    A Genova misurano circa 8 cm. di lato. Una notevole superficie, quindi offerta al bacio del sugo di funghi o del pesto, secondo le due scuole di pensiero.
    Quale"seguito", poi, proponiamo le "Tomaxelle": non strettamente messe alle tradizioni dell'Epifania, ma con tutte le carte in regola per mire il ruolo: squisitezza a parte, con la loro brava storia alle spalle.
    Nell'anno 1800 Genova visse una delle congiunture più drammatiche sua esistenza. Le truppe francesi del generale Massena - che doveva essere ribattezzato "Ammassa Zeno," (Ammazza Genova) - vi si erano asserragliate, strette dagli Inglesi sul mare e dagli Austriaci per terra.
    I disagi aumentavano giorno dopo giorno, la fame serpeggiava per tutti, a rivoli sempre più inquietanti… Eppure, quando venne fatto prigioniero un gruppetto d'ufficiali austriaci, fu loro servito un piatto che li constrinse a sbarrare gli occhi: odorose, appetitose "Tomaxelle"…
    Si trattava di un espediente, comune nell'arco della storia, volto a scoraggiare gli assedianti, a mostrar loro che gli assediati erano ben lungi dalla fine per inedia; ma in realtà - almeno allora - non si trattava di preparazione costosa. Le "Tomaselle" - possiamo tradurre così, piuttosto che ricorrere al più anonimo "Involtini di carne"? - rappresentavano il più classico dei "piatti di recupero", preparato utilizzando quant'era rimasto dell'umido o dell'arrosto dei giorni festivi. Soltanto in seguito entrarono per chiari meriti nel libro d'oro della nostra gastronomia, sostituendo qualche ingrediente, e aggiungendone altri con eguale saggezza.
    Nessun Tommaso, al proposito, né alcuna Tommasina è alle origini: il nome - dopotutto un altro particolare che ne illustra la vetustà - deriva dal tardo latino "tomaculum", che designava una sorta di salsicciotto.


    MENÙ
    Lasagne cö tocco de funzi
    Tomaxelle
    Mascë
    Formaggi
    Pandöçe
    Frûta fresca e secca
    Candii
    Torron

    ITALIANO
    Lasagne al sugo di funghi
    Involtini di carne
    Purea di patate
    Formaggi
    Pandolce
    Frutta fresca e secca
    Canditi
    Torrone

    VINI
    Barbarossa asciutto
    Sciacchetrà


    Le preparazioni
    (per 4 persone)

    Sugo di funghi "tocco de funzi"
    250 gr. di funghi porcini freschi o 25 gr. di secchi, una cipolla; una manciata di prezzemolo: un ramoscello di rosmarino; uno spicchio d'aglio;
    200 gr. di pomidoro maturi; olio extravergine d'oliva; 2 foglie d'alloro; vino bianco secco; sale.
    Considerando che nella specifica occasione i funghi freschi risultano introvabili, faremo uso di quelli secchi.
    Mettere a mollo i funghi stessi in una ciotola d'acqua calda. Tagliare la cipolla molto finemente e porla in una casseruola con un po' d'olio; farla stufare con poca acqua. Unire i funghi dopo averli lavati e tagliati grossolanamente. Tritate l'aglio, il rosmarino e il prezzemolo, aggiungendo poi il tutto ai funghi; dopo alcuni minuti, bagnare con mezzo bicchiere di vino bianco e lasciar evaporare.
    Pelare e tritare finemente 1 pomidoro - nel nostro caso, considerando la stagione, saranno in scatola - e versarli nella casseruola. Salare e insaporire con le foglie d'alloro; continuare la cottura per 30 minuti circa.
    Attenendosi alla regola, col sugo di funghi si dovrebbe evitare l'aggiunta di parmigiano grattugiato.

    Lasagne "Lasagne"
    400 gr. di farina; 2 uova; sale.
    Porre sulla madia la farina, formando una fontana; versarvi nel centro le uova e acqua sufficiente ad ottenere un impasto consistente ed omogeneo; lasciar poi riposare per un'ora, coprendo con un canovaccio umido e uno asciutto.
    Ricavare dalla pasta una sfoglia sottile, tagliandovi dei quadrati di circa 8 cm. di lato. Lessare in acqua salata, cui si sarà aggiunto un cucchiaio d'olio: tale accorgimento impedirà alle lasagne di aderire fra loro.
    Scolarle con la schiumarola e condirle a strati.

    Involtini di carne "Tommaxelle"
    8 fette dicoscia di vitellone; 100 gr. di magro di vitello; 100 gr. di poppa, animelle; 50 gr. di schienali; 3 uova; farina bianca; vmo bianbrodo di carne; la mollica d'un panino; una manciata diparmibugiato; una cipolla; alcune fette di funghi secchi: latte; un pizzico spezie miste; olio extravergine d'oliva; sale.
    Porre in una casseruola un po' d'olio, la cipolla tagliata a pezzi, i funghi mollati e le carni, tranne gli schienali che verranno sbollentati a parte in acqua salata, per poterli spellare più agevolmente. Far rosolare bagnando col vino bianco e lasciandolo poi evaporare. Passare quindi al tritacarne, compresi gli schienali, e porre il ricavato in una ciotola; unire le uova, il parmigiano grattugiato, la mollica bagnata nel strizzata, un pizzico di spezie. Salare e amalgamare bene.
    Assottigliare le fette di vitellone col batticarne; suddividere il composto su ognuna di esse e poi arrotolarle, formando altrettanti involtini; legarli con filo bianco, passarli nella farina e farli rosolare con un po' d'olio. Quando saranno dorati, bagnare con vino bianco; farlo evaporare
    Continuare la cottura, aggiungendo via via del brodo caldo. Servire con purea di patate.

    Purea di patate "Mascè"
    f dì patate bianche; latte; burro; sale. le patate, sbucciarle e passarle nello schiacciapatate, raccogliendo il ricavato in una ciotola capace. Unire circa 20 gr. di burro e versarvi un po' per volta - rimestando con cura - del latte bollente, quanto ne occorfe per ottenere una purea morbida ma non liquida. Salare e servire.
    In questo modo la preparazione risulterà più soffice e vellutata, oltreché più digeribile.

    Pandolce (v. Natale)

    Vini
    Barbarossa asciutto - E particolarmente adatto con arrosti di carni rosse, umidi, fritti. Di colore cerasuolo, con sapore asciutto, leggermente amabile, è da preferirsi stravecchio; l'alcolicità è di 12°-13°; deve essere servito alla temperatura di 18°-20° C.
    E vino prodotto in vari comuni, da Borgio Verezzi a Calice, Noli, Finale, Pietra Ligure e altri.

    Sciacchetrà - È ottimo per il dessert. Di colore ambrato, con sapore dolce, è da preferirsi vecchio; l'alcolicità è di 13° -15°; deve essere servito alla temperatura di 8°- 10° C.
    Viene prodotto nelle Cinque Terre.




    le foto sono inserite a solo scopo didattico/culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    ...continua...
     
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    bello e buono lo sciacchetra' ma costa davvero tanto una bottiglietta da 70ml 35euro .....bello il vs post io lo.leggo anche se non commento
     
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    VILLA SAULI e IL PARCO DEL BASILICO



    La villa, situata nell’ultimo lembo di Prà appartenne alla famiglia Sauli sino al 1848, anno in cui venne acquistata dal cavaliere Luca Podestà, da poco proprietario della vicina Villa Lomellini Doria (Villa Doria Podestà).
    La costruzione della ferrovia Genova – Voltri, inaugurata nel 1856, l’allargamento della sede stradale dell’Aurelia, la costruzione dell’autostrada Genova - Ventimiglia, l’apertura e la modifica dello svincolo di Voltri e l’espansione edilizia sulle colline hanno ridotto notevolmente gli spazi verdi che circondavano le imponenti costruzioni seicentesche della zona e segnato la fine dell’attività agricola che, per tanti secoli, era stata la risorsa della popolazione locale.
    La grande avventura agricola del barone Andrea Podestà, eminente personaggio della storia genovese che fu senatore del regno d’Italia, sindaco del comune di Genova per tre volte fra il 1866 e il 1895 e presidente del consiglio provinciale per 25 anni dal 1870 al 1895, anno della sua scomparsa, inizia alla fine dell'Ottocento nella piana sul mare fra Pra e Voltri, nei pressi dell'attuale casello autostradale.
    Qui il padre, il cavalier Luca Podestà, aveva acquistato già nel 1848 due antiche ville sei-settecentesche, edifici di villa secondo la definizione genovese, ovvero fabbricati rurali dotati anche di caratteristiche più o meno auliche di residenze aristocratiche di campagna e giardini di piacere: la villa detta oggi Doria Podestà, più spiccatamente monumentale in quanto progettata all’inizio del Seicento da Bartolomeo Bianco nientemeno che per un doge della repubblica genovese, Giacomo Lomellini, e, trecento metri più a ovest, la villa chiamata oggi Sauli Podestà, di aspetto più marcatamente rurale.
    I due edifici divennero il cuore dell'immensa tenuta agricola che il cavalier Podestà aveva acquistato insieme ad esse, e che si estendeva nel territorio di Pra, Voltri, Mele e Acquasanta, comprendendo campi coltivati con diverse colture ma anche castagneti, vigneti, boschi e pascoli. Il figlio Andrea, che sarà poi insignito del titolo di barone, ampliò la già estesa proprietà acquistando nuovi terreni a Bosio e in Valle Stura (Masone, Campo Ligure e Rossiglione), creando non solo l’azienda agricola più grande della Liguria, regione di estrema frammentazione fondiaria, ma anche la più avanzata e moderna, con una vocazione per l’innovazione che la rese presto celebre. La terza generazione dei Podestà fu rappresentata da Giulio, più interessato all’allevamento, che fece realizzare a Masone le vaccherie e la stazione di monta taurina, e ampliò la già esistente tenuta di caccia.
    Alla morte di Giulio, nel 1959, tutti i beni Podestà finirono in lascito all’Ospedale genovese di San Martino, allegati a una fondazione per i malati di tubercolosi. Le due ville sono poi pervenute alla Provincia di Genova, che già negli anni Novanta avviò nella maggiore di esse, villa Doria Podestà, il Parco del basilico, un progetto agricolo, scientifico, turistico ed espositivo che si riallacciava alla storia del barone Podestà.


    alcune immagini

    la villa

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    i suoi interni
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    IMG_3285

    IMG_3286

    uno scorcio del parco
    IMG_3267

    ecco l'articolo che parla del restauro
    Mercoledì 22 gennaio è stata inaugurata Villa Sauli Podestà nel sestiere di Ca’ Nova, dopo un impegnativo intervento di recupero, iniziato a fine maggio del 2009 e durato quattro anni e mezzo ad opera della Provincia di Genova. L’opera di restauro ha salvato la villa seicentesca dallo stato di abbandono in cui versava ormai da oltre una decina d’anni, tanto che era diventata estemporaneo ricovero per senza tetto e sbandati. E proprio durante i lavori di recupero, nei locali del piano terra è stato rinvenuto il cadavere di una persona, un senza tetto morto per cause naturali. La villa affaccia su Via Prà poco a ponente dell’altra villa seicentesca, Villa Doria Podestà, che sorge accanto al casello autostradale di Pra’, anch’essa ristrutturata e restituita ad un uso pubblico da pochi anni su iniziativa della Provincia. Villa Sauli Podestà fu costruita nel XVII secolo come luogo di villeggiatura e di governo della tenuta agricola per la nobile famiglia Sauli e acquistata poi nel 1848 dal Cavaliere Luca Podestà, da poco proprietario anche della vicina Villa Lomellini Doria (oggi Doria Podestà). Suo figlio Andrea, ottenne il titolo di barone e fu a più riprese Sindaco di Genova, Presidente della Provincia ed anche senatore del Regno d’Italia; tra i vari meriti ebbe anche quello di organizzare il vasto territorio agricolo alle spalle delle due ville secondo criteri davvero moderni e all’avanguardia per l’epoca, basati sull’efficienza e la valorizzazione dei prodotti locali. Interessanti curiosità sulla vita del barone e sull’organizzazione del territorio si possono leggere sui pannelli esposti al primo piano di Villa Doria Podestà. Villa Sauli Podestà ha poi avuto varie vicissitudini e destinazioni d’uso, prima di essere abbandonata negli anni novanta del secolo scorso e successivamente acquistata e restaurata dalla Provincia. I lavori di ripristino della Villa, costati 4 milioni e 652.00 euro, sono stati commissionati dalla Provincia di Genova e sono stati finanziati anche con fondi dell’Unione Europea e della Regione Liguria nell’ambito del progetto di Valorizzazione delle risorse naturali e culturali della nostra regione. I lavori hanno riguardato la messa in sicurezza del corpo centrale della villa, il rifacimento del tetto, l’esecuzione di interventi di conservazione e consolidamento della volta del salone centrale e il rifacimento dei solai interpiano nelle zone destinate agli archivi. Le opere di restauro sono state concordate e condivise con la Soprintendenza ai Beni Artistici e Architettonici della Regione Liguria; la qualità dei restauri appare davvero notevole e rende giustizia ad un edificio storico molto bello ed importante. Al piano nobile sono state ritrovate e recuperate anche ampie superfici decorate mentre resta ancora da completare il recupero della piccola cappella posta a pian terreno.
    All’inaugurazione erano presenti il Presidente della Regione Claudio Burlando, il Commissario staordinario della Provincia, Piero Fossati, gli assessori regionali Paita, Briano, Rossetti, Guccinelli, Rossi, il Presidente del Municipio Avvenente e l’assessore municipale Morlè. Roberta Burroni, della Direzione dei lavori Pubblici della Provincia ha guidato le autorità ed i giornalisti attraverso le stanze ed i locali del pian terreno e dei due piani superiori illustrando al contempo i lavori eseguiti. Al primo ed al secondo piano ampie sale parzialmente decorate ed affrescate si alternano a stanzette più piccole, idonee forse ad ospitare archivi e salette per colloqui di lavoro visto che la villa ospiterà a breve il Centro per l’impiego del Ponente di Genova che verrà spostato qui dalla vicina Villa Doria Podestà. Vi troverà sede anche il Centro Servizi del Parco del basilico, istituito dalla provincia di Genova a tutela e sostegno del tipico prodotto praino e di chi lo coltiva, nel bel mezzo della zona di tradizionale produzione di questo meraviglioso e prezioso prodotto. Al primo piano si trova anche lo storico camino decorato e perfettamente recuperato mentre al secondo piano si può apprezzare la pregevole copertura con moderni soffitti lignei. Con questi interventi sono rinati anche il bel giardino alle spalle dell’edificio, con il prato ben curato, palme ed altri alberi, la graziosa facciata interna che dà sul giardino ed il piazzale di accesso sull’Aurelia; sulla facciata esterna a dire il vero sono evidenti alcuni punti in cui il colore salmone della facciata appare di già scrostato e danneggiato.
    Nelle dependance laterali, demolite e ricostruite, trovano spazio, a levante, un auditorium da ottanta posti a sedere, bello moderno e confortevole: una preziosa risorsa per conferenze, eventi culturali e momenti di incontro che quanto prima dovrebbe essere messa a disposizione del territorio; a ponente c’è invece lo spazio per il laboratorio del centro servizi del Parco del basilico. A proposito di quest’ultimo spazio, il Presidente del Municipio VII Ponente, Mauro Avvenente ci fa sapere: “La finalità doveva essere quella di offrire un’opportunità ai produttori dell'”oro verde” di Prà, il basilico, di poter promuovere degustazioni finalizzate alla valorizzazione della loro attività e del territorio ponentino. Dopo un primo approccio con alcuni produttori pare sia ancora una volta prevalsa la logica, del tutto genovese, del “mani man” che fin ora non ha consentito di fare passi avanti in tal senso.”
    Nei corpi laterali sono state realizzate anche nuove scale ed ascensori per garantire a tutti l’accessibilità di questi spazi. Una delle grandi ville del ponente genovese è tornata quindi al suo antico splendore grazie a un intervento finalizzato al recupero e al risanamento conservativo dell’edificio, che lo riqualifica dal punto di vista funzionale e che strizza l’occhio al basilico e all’eccellenza dei prodotti locali.
    In conclusione abbiamo chiesto alla Dottoressa Burroni quale sarà invece la futura destinazione dell’altra villa, Doria Podestà, che attualmente ospita il Centro per l’impiego, che, come abbiamo visto, nelle prossime settimane si sposterà in questa nuova sede “Al momento non c’è ancora un’idea chiara. Purtroppo la Provincia di Genova oggi non ha le risorse per assicurare il mantenimento contemporaneo dei due palazzi storici, e vista anche l’incertezza sul ruolo futuro delle Province, non è da escludere che Villa Doria Podestà possa anche essere messa in vendita”.
    L’auspicio di SuPra’tutto è che queste due belle ville storiche di Prà, felicemente restituite alla loro originaria bellezza, oltre che un’emergenza ed un fiore all’occhiello dal punto di vista storico ed artistico per la nostra Delegazione, possano anche essere e rimanere spazi al servizio della cittadinanza e che si possa valorizzarne al meglio la fruibilità e le potenzialità di risorsa ed attrattiva turistica.


    nel filmato la storia completa di villa e parco
    Video

    curiosità:
    come narrato anche nel filmato, l'istituto alberghiero Bergese di Sestri Ponente collabora fattivamente con villa ed il parco.

    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 16/1/2017, 15:42
     
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    San Lorenzo, la cattedrale





    La cattedrale di San Lorenzo è il più importante luogo di culto cattolico della città di Genova, cattedrale-metropolitana dell'omonima arcidiocesi.
    È stata consacrata al santo nel 1118 da papa Gelasio II quando non era ancora ultimata e ne mancava la facciata.
    Storia e architettura


    Il fianco su via San Lorenzo



    Veduta con i completamenti quattro-cinquecenteschi.


    Il campanile e la cupola di San Lorenzo, realizzata da Galeazzo Alessi.

    In base ai ritrovamenti archeologici una comunità cristiana stabile è sicuramente presente nella città di Genova già nella metà del III secolo ed impiega effettivamente come luogo di sepoltura, proprio la zona di San Lorenzo. Il cimitero era, in base al materiale rinvenuto, molto probabilmente impiegato già in epoca romana.
    Una prima basilica vi sorse intorno al V - VI secolo Una leggenda vuole che in città si siano fermati San Lorenzo e papa Sisto II, diretti in Spagna, venendo ospitati in una casa sita nella zona dell'attuale cattedrale, dove, dopo la loro uccisione, sarebbero sorte una cappella e poi una chiesa dedicate al santo.
    Dal IX secolo, San Lorenzo affiancò, nella funzione di cattedrale, la Basilica dei Dodici Apostoli, dal VI secolo dedicata a San Siro, allora sita fuori dell'antico nucleo della città[3].
    Nel 1007 la sede vescovile venne trasferita a San Lorenzo, e a partire dal 1098[3] venne iniziata la sua ricostruzione in forme romaniche con finanziamenti provenienti dalle Crociate, da altre imprese militari e tasse comunali. Il cantiere venne affidato ai Magistri Antelami, e rappresenta la base della chiesa attuale (le fiancate e i portali laterali). Il nuovo rango dell'edificio favorì l'urbanizzazione della zona che, con la costruzione delle mura, nel 1155, e la fusione dei tre antichi nuclei urbani (castrum, civitas e burgus) divenne il cuore della città. L'edificio venne consacrato nel 1118 da papa Gelasio II di passaggio a Genova e nel 1133 venne elevata al rango arcivescovile da papa Innocenzo II.
    Verso il 1230 si decise una profonda ristrutturazione dell'edificio, in stile gotico. Si iniziò così la facciata dalla parte bassa caratterizzata dai tre portali gotici. Con l'incendio del 1296 l'edificio, assai danneggiato, viene rimaneggiato. Tra il 1307 e il 1312 si completò la facciata e si iniziò l'elevazione del campanile destro. Il progetto originale prevedeva l'elevazione di due torri campanarie, parte integrante della facciata, come nel gotico francese. All'interno vennero rifatti i colonnati, con capitelli e falsi matronei, mantenendo le parti romaniche superstiti; la controfacciata viene affrescata. Con la morte dell'architetto il campanile rimane incompiuto.
    Tra il XIV e il XV secolo vennero costruiti diversi altari e cappelle, fra i quali la Cappella di San Giovanni Battista nella navata sinistra, atta ad accogliere le ceneri del santo patrono della città, giunte a Genova alla fine della Prima Crociata. Nel 1455 si realizzò la loggia sulla torre sinistra; e al 1522 venne aggiunto il coronamento manierista a quella destra, completandola.
    Nel XVI secolo ci fu un'esplosione del deposito delle polveri, vicino al Palazzo Vescovile, e le coperture del duomo furono gravemente danneggiate. Verso il 1550 il Consiglio cittadino commissiona all'architetto perugino Galeazzo Alessi un progetto di rinnovazione dell'intero edificio. Tuttavia i lavori non videro mai il compimento. Venne rifatta la parte absidale ed eretta la cupola sulla crociera, ma nel piedicroce si eseguirono solo le volte a botte, in sostituzione delle capriate lignee, e il pavimento. Questo cantiere vide la fine nel XVII secolo, quando l'abside venne decorata con le Storie di San Lorenzo da Lazzaro Tavarone, in un tripudio di stucchi dorati.
    Tra il 1894 e il 1900 l'edificio venne restaurato e lo scultore Carlo Rubatto ridisegnò la scalinata esterna d'accesso, con i due leoni.

    Esterno


    I portali della facciata.


    Una delle due statue ottocentesche raffiguranti leoni che affiancano la scalinata della cattedrale, dello scultore Rubatto.


    La lunetta del portale centrale con Cristo con San Lorenzo.
    La facciata presenta i portali gotici, per i quali furono chiamate maestranze francesi nel secondo decennio del XIII secolo, e sopra il paramento a fasce bianche e nere, che nel Medioevo era simbolo di nobiltà, tipico dell'uso locale genovese.
    Il progetto iniziale doveva avere due torri campanarie. La torre di sinistra non venne terminata, ne fu realizzato solo il tronco più basso, al quale venne sovrapposta una loggia nel 1477 eretta da Giovanni da Gandria. Pietro Carlone da Osteno lavorò alla torre di destra, che risulta essere l'unico campanile vero e proprio, ultimato nel 1522. Alto 60 metri, il campanile risulta essere una delle torri campanarie più alte della Liguria e ospita un concerto di sette campane di diverse epoche e fusioni, con nota base do3
    I suoi tre portali gotici sono del primo quarto del XIII secolo e si staccano stilisticamente dal contesto architettonico-scultoreo della cattedrale. Insieme all'endonartece compreso nello spessore delle torri campanarie sono l'unico vestigio di un verosimile progetto di trasformazione di San Lorenzo in una cattedrale gotica, iniziato probabilmente dopo il 1217, poi interrotto e mai condotto a termine. Gli apparati decorativi esibiti lasciano intravedere analogie importanti con l'architettura normanna, ed in particolare con i portali laterali delle opere occidentali di Rouen (coevi) e di Chartres (precedenti), lasciando dedurre l'origine francese delle maestranze impiegate a tale scopo.
    I temi rappresentati dai bassorilievi e altorilievi raffigurano il Cristo con San Lorenzo nella lunetta centrale e, negli stipiti, l'Albero di Jesse. Ai lati della scalinata davanti alla facciata sono due leoni stilofori di epoca gotica; altri leoni, ma in scene da bassorilievo, stanno sopra il portale centrale, e sono realizzati dalla scuola di Benedetto Antelami.
    Altri due portali, precedenti la facciata, di epoca romanica si trovano nelle due fiancate, rispettivamente il Portale di San Giovanni nel lato Nord, sulla omonima piazzetta (circa 1130), e il Portale di San Gottardo, sulla via San Lorenzo, coevo alla realizzazione (1155) della Porta Soprana.
    I due leoni che fiancheggiano la scalinata risalgono all'Ottocento (1840) e sono opera dello scultore Carlo Rubatto.

    Interno


    Veduta dell'interno.


    Affresco trecentesco della controfacciata.


    La cappella di San Giovanni Battista.


    Le strutture delle navate.

    L'interno del duomo è a pianta basilicale con transetto e coro triabsidato. Il piedicroce è diviso in tre navate da colonne marmoree trecentesche sormontate da finti matronei. Si distingue chiaramente la parte gotica, in basso, con le colonne e le arcate a strisce bianche e nere, e la precedente serie di arcate a tutto sesto romaniche in pietra grigia ad esse sovrapposta, appartenente alla costruzione romanica (XI-XII secolo). Infatti questa sostituzione avvenne a seguito di una devastazione e incendio avvenuti durante le lotte tra le fazioni. Per sostituirle lasciando intatta la parte superiore si crearono adeguate strutture di carpenteria in legno, la realizzazione delle quali era agevolata anche dalla grande esperienza in materia che veniva dalla cantieristica navale consona alle attività portuali. Si poté così cambiare le colonne inferiori lasciando intatte le arcate romaniche del soprastante matroneo.
    Sopra la porta mediana ci sono due affreschi realizzati tra la fine del XIII secolo e l'inizio del XIV che raffigurano il Giudizio universale e la Glorificazione della Vergine. Sono in stile bizantino e si richiamano agli stili di Costantinopoli dei quel periodo; per il primo affresco è stato fatto il nome di Marco il Greco.
    Le coperture a volta a botte vennero aggiunte nel XVI secolo dall'architetto perugino Galeazzo Alessi, sostituendo il tetto retto da capriate lignee.
    Le navate laterali
    Lungo la navata sinistra si apre la ricca cappella di San Giovanni Battista ricostruita tra negli anni tra il 1450 e il 1465.
    Nella navata destra è posto l'affresco dell'Ultima Cena, realizzato nel 1626 da Lazzaro Tavarone per l'Ospedale di Pammatone, poi staccato al momento della demolizione e qui riposto. Più avanti si trova una granata navale inglese da 381 mm che il 9 febbraio 1941 colpì la chiesa durante la seconda guerra mondiale, nel corso di un bombardamento da parte degli inglesi. La granata sfondò il tetto della cattedrale (che fu ricostruito ma intonacato in bianco senza più gli affreschi) senza esplodere. La granata gemella della stessa salva colpì invece l'edificio del vicino Archivio esplodendo e distruggendolo; tuttora è visibile presso la sede ricostruita un piccolo frammento dell'ogiva rimasto dopo l'esplosione).
    In fondo alla navata destra si accede al museo del tesoro di San Lorenzo, capolavoro di Franco Albini, terminato nel 1956. Qui si possono ammirare oggetti sacri preziosi, tra cui il cosiddetto Sacro Catino (manufatto di arte vetraria di fattura islamica del IX-X sec.).

    Transetto e coro


    Il presbiterio barocco.


    Volta del presbiterio.

    Nel XVI secolo tutta la parte finale della cattedrale, costituita dal transetto, dal coro affiancato da due cappelle e dalla cupola sulla crociera; venne ridisegnato da Galeazzo Alessi. La sontuosa decorazione barocca a marmi, stucchi e dorature fu eseguita al XVII secolo. Gli affreschi delle volte della cappella sinistra, con l'Assunzione della Vergine, sono di Luca Cambiaso, mentre quelli del presbiterio sono opera del 1622 di Lazzaro Tavarone, che vi dipinse il Giudizio, nel catino absidale e il Martirio di San Lorenzo, nella volta.
    Nella cappella absidale sinistra, Cappella Lercari, l'attuale ostensorio a tempietto è frutto di una manomissione operata nel 1817-18 da Carlo Barabino (per esso venne eliminata la gran macchina dell'ostensorio permanente) e risulta essere una ripetizione del tema del tempietto rotondo.
    Nella cappella absidale destra, Cappella Balbi-Senarega, vi è un altro altare progettato da Carlo Barabino. Risulta una più pesante impostazione ma eguale indirizzo di sintetizzare architettura e teatro come nella corrispondente cappella Lercari. Qui nella mensa e nel tabernacolo si accordano bronzi dorati e marmi (la parte scultorea è di Filippo Peschiera).
    Nel braccio sinistro del transetto è il bel monumento funebre della famiglia Cybo, realizzato in marmo nel XVI secolo da Giacomo e Guglielmo della Porta con Niccolò da Corte. Sormonta il monumento l'organo dalla bella cassa barocca.


    Affresco dell'Ultima Cena di Lazzaro Tavarone nella navata destra.


    L'Assunzione di Luca Cambiaso, nella cappella absidale sinistra.


    L'altare di Carlo Barabino, nella cappella absidale sinistra.


    Cappella absidale destra.


    Opere pittoriche conservate


    Lazzaro Tavarone, Il giudizio di san Lorenzo, volta del presbiterio


    Lazzaro Tavarone, Il martirio di san Lorenzo, volta del presbiterio

    - Ignoto pittore bizantino del 1300 circa: affreschi nella lunetta interna del portale maggiore e nell'arco della stessa (Cristo in Gloria e attorno gli Apostoli nell'Ultima Cena, vedi figura ingrandita) e nel fianco interno della navata sinistra (con San Pietro e San Giorgio)
    - Luca Cambiaso: affreschi nella volta della cappella di testa della navata sinistra
    - Barocci: Crocifisso con Santi (visione di San Sebastiano)
    - Gio Ansaldo: ante dell'organo con episodi della vita di San Lorenzo
    - Volta del presbiterio: affreschi di Lazzaro Tavarone (giudizio e martirio di San Lorenzo)
    - Affresco di Lazzaro Tavarone tolto dal demolito ospedale di Pammatone e portato sul muro della navata destra
    - Gaetano Previati (circa 1914): L'Assunta

    Opere scultoree conservate


    Il Monumento dei Cybo.
    sculture romaniche di influsso comasco nel protiro esterno del portale di San Giovanni, XI secolo (fianco Nord)
    sculture romaniche di influsso pisano nel protiro esterno del portale di San Gottardo (metà XII secolo) (fianco Sud)
    Sculture gotiche nei portali maggiori di facciata (Cristo in Gloria con San Lorenzo nella lunetta del portale maggiore, negli stipiti dello stesso l'Albero di Jesse)
    statue della cappella di San Giovanni, autori: Domenico Gaggini (fronte sulla navata, parte dei pinnacoli in alto, XV secolo); in seguito Matteo Civitali, da Lucca, che viene inserito nella seconda fase dei lavori per la cappella, nel 1492, e Andrea Sansovino per le statue nelle nicchie (la Vergine, San Giovanni Battista - del 1504 circa)
    Nella cappella di San Sebastiano (a destra del presbiterio) si conservano quattro statue di Taddeo Carlone commissionate dall'ex doge Matteo Senarega nel 1594[8].
    Giacomo e Guglielmo Della Porta: cappella di Giuliano Cybo.
    Neoclassicismo, Cappella Senarega: il disegno di contratto tra Imperiali Lercari e gli esecutori, conservato presso la Collezione Topografica del Comune, è firmato da Imperiale Lercari, Giacomo Gaggini jr., Giovanni Gaggini jr.; l'opera venne eseguita dal Gaggini nel 1821.
    cappella di testa della navata destra con altare progettato da Carlo Barabino e sculture di Ignazio Peschiera.
    È inoltre ancor oggi ben visibile ad altezza d'uomo a destra di una delle due porte di accesso alla cattedrale (quella più prossima alla vicina via San Lorenzo) la piccola riproduzione di un cane. Si tratterebbe, secondo una leggenda metropolitana non molto conosciuta, del cane di un amico di uno degli scultori (o, secondo altre versioni, lo scultore stesso) che sarebbe morto in un crollo durante i lavori, salvando la vita al suo padrone.[9] Per ricordarlo, ne fu scolpita l'immagine.

    Organo a canne


    L'organo barocco del transetto sinistro.

    La prima testimonianza a proposito di un organo a canne nella cattedrale risale al 1391, ed è un atto di pagamento per un intervento effettuato sull'organo. Nel secolo successivo venne costruito un nuovo strumento, sostituito da un altro nel 1554. Quest'ultimo, collocato nel braccio sinistro del transetto era opera dell'organaro bresciano Giovanni Battista Facchetti e venne affiancato, a partire dal 1603 da un nuovo organo, costruito dal pavese Giuseppe Vittani. Entrambi gli strumenti vennero più volte modificati durante il XVIII secolo e, nel 1826, quello di destra sostituito. Quello di sinistra, invece, fu ricostruito secondo i canoni dell'epoca nel 1890 da Camillo Guglielmo Bianchi su progetto di Pier Costantino Remondini. Negli anni '80 dello stesso secolo, George William Trice realizza due progetti per un nuovo organo della cattedrale, mai realizzato.
    Nel 1932, la ditta organaria Parodi e Marin inizia la costruzione del nuovo organo della cattedrale utilizzando il materiale fonico dei due organi del transetto e di quello del coro, opera di Camillo Guglielmo Bianchi che lo realizzò nel 1866. L'organo viene terminato ed inaugurato quattro anni dopo, nel 1936, e restaurato nel 1967. A partire dal 2003, lo strumento è stato sottoposto ad un intervento conservativo, ad opera dei fratelli Marin; il concerto d'inaugurazione è stato tenuto da Olivier Latry il 15 ottobre 2005.
    Attualmente (2012), lo strumento ha quattro tastiere di 61 note ciascuna ed una pedaliera concavo-radiale di 32; il suo materiale fonico è suddiviso fra le due casse barocche sulle rispettive cantoria nelle testate del transetto, mentre la consolle, decorata con intagli, si trova nel transetto destro, al lato dell'area presbiterale; tra trasmissione è elettronica.


    Una foto della facciata, realizzata nella seconda metà del XIX secolo da Alfred Noack.


    La statua dell'Arrotino, all'angolo con Via San Lorenzo


    Il piccolo cane dormiente su un portale.


    Il rosone della cattedrale


    Proiettile navale inglese inesploso
    E un po' di vedute


















    Eh, gli artisti! Sapete come sono, eccentrici, particolari e misteriosi.
    Si dice che, nella notte del 24 Giugno, consacrata a Giovanni Battista patrono della città, nel buio della chiesa, nella navata centrale, si riuniscano gli spiriti dei pittori, degli scultori, dei capomastri e degli scalpellini che costruirono la cattedrale.
    Salgono sulla cupola, ma poi svaniscono nuovamente.
    Resta, imperiosa e affascinante la Cattedrale di San Lorenzo, ricca di fascino e di misteri.


    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

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    ...piccola curiosità: il proiettile navale era di produzione genovese, Ansaldo...a volte la guerra sa essere ironica
    saluti
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    bella molto imponente....Genova e tutta da scoprire...bel lavoro
     
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    Oggi andremo un po' per nusei e, trovamdoci abbastanza vicini a Porto Antico, visiteremo il Galata Museo del Mare

    Galata Museo del Mare






    Situato nell’area compresa fra l’Acquario e la Stazione Marittima, il museo ha sede nel più antico edificio della vecchia Darsena, un tempo Arsenale della Repubblica di Genova. Qui, a partire dal 1500, si costruivano e si armavano le galee della flotta genovese.
    Oggi, in continuità col passato, il Galata è sede del Museo del Mare, con una ricostruzione architettonica di grande pregio, progettata da Guillermo Vázquez Consuegra.
    Grazie ad un’esposizione articolata su quattro piani, e ad un Open Air Museum la cui attrazione clou è il Sottomarino S518 Nazario Sauro - il primo museo galleggiante italiano -, il Galata è attualmente il più grande museo marittimo del Mediterraneo. La storia del rapporto vitale tra uomo e mare ne è il filo conduttore, articolato su 12.000 mq di esposizione, postazioni multimediali interattive di grande innovazione, 4.300 oggetti originali, con un continuo rinnovamento delle tematiche e degli allestimenti
    Nel corso degli anni il Galata Museo del Mare è diventato una realtà consolidata e apprezzata nel panorama culturale nazionale ed internazionale. Ha ottenuto le due stelle del Touring Club Italiano (il massimo riconoscimento al valore dell’opera), è inserito nella prestigiosa guida “The New York Times 36 hours 125 weekend in Europe” e da diversi anni riceve il Certificato di Eccellenza di Trip Advisor. Importanti collaborazioni a livello mondiale sono state avviate con il Direttore e lo Staff scientifico del museo.

    All’inizio del percorso, dopo la sala di Cristoforo Colombo e l’armeria della Darsena, si può salire su una fedele ricostruzione di una Galea del ‘600 - in scala 1:1 - per scoprire la vita a bordo di schiavi, forzati e buonavoglia.



    Si prosegue, al primo e secondo piano, tra preziosi Atlanti e Globi consultabili virtualmente, per arrivare ad affrontare una spettacolare tempesta in 4D a bordo di una scialuppa in balia delle onde e del vento, oppure timonare un brigantino-goletta dell’800. La sala nautica e un cantiere navale con la falegnameria portano infine all’ingresso in uno Yacht Club di fine ‘800, con i dipinti della Collezione Croce. Esposta anche la zattera originale dove Ambrogio Fogar e Mauro Mancini rimasero in balia delle onde per 74 giorni.



    Il terzo piano è quasi interamente dedicato alla sezione permanente MEM Memoria e Migrazioni in cui, attraverso 40 postazioni multimediali e ricostruzioni d’ambiente, si racconta l’emigrazione italiana via mare, dall’imbarco e la traversata sulla nave all’arrivo in America, fino alla recente immigrazione straniera verso l’Italia, presentata nell'allestimento rinnovato "Italiano, anch'io". Sempre qui la "scuola dei sommergibilisti" del Nazario Sauro prepara alla visita in mare del sottomarino, dove si scopre la vita straordinaria dell’equipaggio imbarcato.



    Di recente è stata aperta, al quarto piano, la mostra permanente "T/n ANDREA DORIA. La nave più bella del mondo", dedicata alla sfortunata vicenda del transatlantico degli anni '50 - simbolo dell'Italia risorta dalle macerie della guerra - affondato al largo delle coste nordamericane in una collisione con la nave svedese Stcokholm. Secondo lo stile del Galata viene proposta una Andrea Doria experience: ricostruzioni di ambienti della nave, tra cui la prora in scala 1:5 e un frammento di ponte di passeggiata inclinato a 30°, fanno vivere ai visitatori prima l'esperienza della vita a bordo tra lusso, glamour, VIP, avanguardia tecnologica. Poi la tragedia: gli attimi terribili della collisione, le vittime, gli scampati (quasi 1200), il valoroso coraggio dell'equipaggio, le polemiche.

    Proseguendo lungo le rampe si giunge infine alla sorprendente terrazza Mirador, tra il cielo e il grande anfiteatro del porto e del centro storico di Genova.

    Una proficua attività culturale e artistica si è sviluppata nel corso degli anni: il Parco Culturale del Mare che con la Carta del Mare raccoglie e mette in rete le buone pratiche realizzate in vari campi tra cui cultura, ambiente, accoglienza, lavoro; e ancora mostre d’arte, convegni, eventi, serate di gala.

    PIANO TERRA



    Un’immagine aerea di Genova e l’Affresco di Renzo Piano che traccia una ipotetica Genova del futuro ti danno il benvenuto.
    Dalla Genova di domani fai un salto indietro nel tempo a quella del 1481 ritratta da Cristoforo Grassi.
    A tu per tu con Cristoforo Colombo nel celebre ritratto attribuito al Ghirlandaio. Nel Codice dei Privilegi, raccolta manoscritta originale, è depositata la storia del grande navigatore.
    Entra poi nell’arsenale della Repubblica di Genova tra il clangore di spade dell’armeria che conduce alla grande Galea seicentesca, fedele ricostruzione lunga 40 metri, sullo scivolo originario usato per il varo delle navi. Sali a bordo della Galea e scopri di più



    PRIMO PIANO
    Osserva la Galea dall’alto e l’aguzzino tra i banchi di voga, scopri come si costruisce un remo di 11 metri per arrivare poi alla rievocazione dell’arrivo dei forzieri d’argento condotti dalla Spagna a Genova.
    Nella sala degli Atlanti e Globi sono le scoperte geografiche del ‘500 e ‘600 a tracciare il profilo di nuove terre e nuovi mari. Schermi touch consentono di sfogliare virtualmente le mappe dell’epoca, geo localizzandole ai giorni nostri.
    Nella sala successiva entrando nella “bocca della balena” scopri l’immaginario del mare, tra meraviglia e paura.
    Spazio per mostre temporanee (saletta d'arte)

    LA GALEA



    Il visitatore si trova “a tu per tu” con la galea, posta sullo scivolo di varo originale.
    La nave esposta è la precisa ricostruzione di una galea genovese del Seicento, ed è il frutto di una ricerca durata tre anni e di un anno di lavoro in cantiere.
    La ricostruzione della galea con il suo grande sperone rosso sovrasta il pubblico, che viene avvolto dai suoni di un tempo: le grida dei maestri d’ascia e quelle dei calafati, il rumore degli attrezzi da lavoro. Avvicinandosi sul lato sinistro della galea, si viene richiamati da uno dei maestri d’ascia che, prendendo il visitatore per uno dei tanti membri della ciurma, lo invita a salire a bordo: si accede dentro la galea direttamente dalle ordinate.
    Anche in questo allestimento, quindi, il visitatore diventa “visit-attore”: dopo aver esplorato l’Arsenale può salire a bordo della Galea per esplorarne l’interno e scoprire la vita di bordo vestendo i panni di un membro dell’equipaggio a scelta fra schiavi, forzati, buonavoglia.
    Può interagire con i personaggi tipici dell’epoca quali aguzzini e papassi. Assistere all’animata discussione tra il Senatore, il Capitano e il Maestro d’Ascia. Approfondire nella “Ludoteca della Galea” alcuni aspetti della vita di bordo, ammirare reperti e opere rare dell’epoca che completano questo viaggio nel tempo.

    L'ARMERIA



    La prima ricostruzione a grandezza naturale che il visitatore incontra sul percorso di visita è l’Armeria della Darsena dove si trovano, custodite da cancelli di legno e ferro e sorvegliate da due “soldati delle galee”, corazze, armi bianche ed elmi in dotazione al reparto militare.
    Le armi sono ancora perfettamente disposti sulla rastrelliera, come se il tempo si fosse fermato. Sui corpetti e sugli elmi sono ancora ben riconoscibili sia i colpi assestati per verificarne la resistenza prima dell’uso sia i segni riportati in combattimento.

    SECONDO PIANO



    Dopo i mostri marini entriamo nel tema delle tempeste in mare, degli ex voto, naufragi e salvataggi.
    Rivivi l’esperienza del naufragio nella sala della tempesta in 4D nei pressi di Capo Horn su una scialuppa in balia delle onde (exhibit a orari fissi).
    Qui è anche esposta la zattera originale dove nel 1978 Fogar e Mancini rimasero per 74 giorni senza cibo nell’Atlantico.
    Puoi curiosare tra gli strumenti scientifici della sala nautica e “timonare” un brigantino-goletta dell’800. Scopri di più
    Dopo il cantiere navale e la falegnameria, entra in un antico yacht club con i dipinti della preziosa collezione Croce.
    Spazio per mostre temporanee (Galleria delle Esposizioni).

    SALA DELLA TEMPESTA



    a Sala della Tempesta in 4D è un’esperienza da provare in prima persona, dove potrai salire a bordo di una scialuppa in un mare in tempesta.
    Il percorso si snoda attraverso dipinti, stampe, incisioni, ex voto che anticipano il tema della sala.
    Vi troverete a questo punto in una stanza buia, con una scialuppa di una baleniera rovesciata sopra la vostra testa. Un comandante da uno schermo vi apostrofa di mettervi ai vostri posti, e cominciare a remare perché “la nostra nave sta per affondare e noi dobbiamo allontanarci”.
    Negli schermi Capo Horn, onde, vento, acqua (veri!!!) vi coinvolgeranno in un’esperienza multisensoriale unica e divertente per tutta la famiglia. La barca beccheggia, sale e scende sulle onde – meglio tenersi forte – intorno ai superstiti passano come fantasmi gli albatros, le orche e le balene e relitti di navi.

    IL BRIGANTINO



    In Italia, parlare di velieri nell’Ottocento, è soprattutto parlare di brigantini. E’ un tipo di nave particolare, che prende il nome da una particolare vela aulica all’albero di mezzana la “bergantina”. Appare nella seconda metà dell’Ottocento ed emerge dalle guerre napoleoniche come battello solido veloce manovriero ma anche capace di buon carico.
    Al Galata Museo del Mare è visitabile una ricostruzione storica con un allestimento che illustra con dovizia di particolari ed aneddoti la vita di bordo su queste barche da lavoro.
    La ricostruzione di un ponte di coperta di brigantino – goletta occupa interamente una sala del secondo piano del Museo. Il brigantino – goletta era un’imbarcazione mercantile, che viaggiava sia nel Mediterraneo sia nell’Atlantico, portando i carichi più diversi. E’ possibile salire sul ponte di coperta, e camminare tra gli strumenti originali ancora funzionanti (un salpancore inglese del XIX secolo o il timone a caviglie), affacciarsi nella sala nautica, curiosare attraverso gli oblò della tuga dei marinai, e azionare il timone.
    Verso poppa il visitatore può sporgersi ad ammirare la cabina del comandante, perfettamente ricostruita con oggetti d’arredo e strumenti e carte nautiche originali.

    TERZO PIANO



    Nella sezione MEM Memoria e Migrazioni si racconta l’emigrazione italiana via mare e la recente immigrazione verso l’Italia. Càlati nei panni dell’emigrante in cerca di fortuna nelle Americhe, munito di passaporto e biglietto, e poi ascolta le testimonianze dirette degli stranieri che sono arrivati e ora vivono in Italia. Scopri di più su www.memoriaemigrazioni.it
    Per viaggiare in prima classe c’è la ricostruzione del ponte di un piroscafo che, grazie a un simulatore navale, si può timonare in oceano.
    Infine la scuola dei sommergibilisti del Nazario Sauro integra e prepara la visita al battello in mare.

    MEMORIA E MIGRAZIONI
    Nella sezione MEM Memoria e Migrazioni si racconta l’emigrazione italiana via mare e la recente immigrazione verso l’Italia.
    Con 1200 metri quadrati ed oltre 40 postazioni multimediali, molte delle quali interattive, il percorso racconta come le migrazioni hanno segnato e segnino la società italiana.
    L’allestimento che, a partire dal mondo contadino italiano del XIX secolo – il grande serbatoio dell’emigrazione – passa per la ricostruzione della Genova ottocentesca e i suoi vicoli che accolsero (e sfruttarono) l’emigrazione, la ricostruzione del piroscafo ‘Città di Torino’ che nella sua lunga carriera trasportò centinaia di migliaia di quelli che gli americani definivano ironicamente steerage passengers (passeggeri di stiva) e le ricostruzioni ambientali che ricordano le destinazioni molto diverse degli italiani: quelle urbane, come la Boca, il coloratissimo quartiere di Buenos Aires ma anche quelle rurali, a volte perse nella foresta, come in Brasile, per terminare in quella più nota, Ellis Island.



    IL PIROSCAFO



    Visitando il terzo piano del Galata, interamente dedicato all’epoca dei Transatlantici, è possibile esplorare il ponte di un piroscafo dei tempi dell’emigrazione, passando tra una “wheelhouse” (una timoneria) originale, completa di sala nautica, e la tuga dei passeggeri di prima classe, anch’essa un originale di straordinario valore perché proviene dal Piro/panfilo “Yaza”, lo yacht dei sovrani austriaci Francesco Giuseppe e Sissi. Le luci, il ponte, il fumaiolo e le maniche a vento e anche un barca di salvataggio (dell’epoca del Titanic) completano una scenografia straordinaria che comprende nel suo insieme molti originali.
    Ma la cosa più innovativa è rappresentata dall’interattività della ricostruzione: il piroscafo, infatti, naviga virtualmente. Un sofisticato software permette di manovrare la nave dalla timoneria, da dove una raffinata proiezione consente di vedere la prora del piroscafo in varie situazioni: dal passaggio dello stretto di Gibilterra alla notte in Atlantico e all’arrivo a New York, passando sotto la Statua della Libertà e ormeggiando a Ellis Island.

    TERRAZZA

    Un’incantevole veduta del porto e del centro storico di Genova ti accoglie sulla terrazza panoramica MiraGenova: aree di sosta attrezzate, un giardino pensile di piante liguri, 6 totem e 2 leggii incorniciano e descrivono monumenti e itinerari storico-artistici. Parti da qui per 5 percorsi pedonali alla scoperta della città.

    SOTTOMARINO NAZARIO SAURO





    Parte integrante del Galata Open Air Museum, il battello ti l’opportunità di conoscere da vicino le condizioni di vita dei marinai a bordo di un vero sommergibile.
    Costruito da Fincantieri per la Marina Militare Italiana nel 1976, poi dismesso nel 2002, il Nazario Sauro è stato donato al Mu.MA per essere musealizzato nel 2010 mantenendo la massima fedeltà all’originale.
    Nato all’epoca della guerra fredda oggi il sommergibile è messaggero di cultura e conoscenza.
    Indossa il casco protettivo disponibile in biglietteria, e con l’audioguida temporizzata esplorane gli spazi angusti (consigliate scarpe comode). Voci, motori in funzione, sonar, radar, il suono dei lancia siluri accompagnano l’emozionante visita.
    Al terzo piano del museo un pre-show consente di approfondire la visita al Sauro.
    Qui hai più tempo a disposizione per interagire con alcune delle strumentazioni non accessibili a bordo. Consente di vivere un’esperienza immersiva e coinvolgente anche a chi non può accedere al battello: disabili, donne in gravidanza, bambini al di sotto dei 4 anni.


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    I Forti di Genova
    Prima parte




    Forte Diamante



    I forti di Genova sono un insieme di fortificazioni militari risalenti a diverse epoche, che la Repubblica di Genova edificò a difesa del territorio urbano del capoluogo ligure nel corso della sua storia. I progetti di edificazione vennero inoltre ripresi e utilizzati in epoca napoleonica, risorgimentale e durante la prima e la seconda guerra mondiale.
    Questo sistema difensivo scandisce gli eventi di buona parte della storia cittadina, quasi a punteggiare la complessa teoria delle sette cinte murarie che si sono sovrapposte nel tempo. Fra queste, le mura sei-settecentesche che cingono ancora oggi a corona le alture che costituiscono il primo contrafforte dell'ormai prossimo Appennino Ligure e rappresentano la più lunga cinta muraria in Europa e la seconda al mondo, dopo la grande muraglia cinese.



    antica mappa



    Note storiche

    Fin dall'inizio del Seicento, le rivendicazioni territoriali di Carlo Emanuele I di Savoia volte al possesso del Marchesato di Zuccarello presso Albenga, i tentativi dei Savoia di reclamare il proprio dominio nei territori occidentali della Repubblica di Genova riproposero ai genovesi la necessità di nuovi provvedimenti difensivi che ampliassero le mura del XVI secolo e permettessero una maggiore sicurezza contro eventuali assedi provenienti dal nord.
    I primi provvedimenti furono attuati già dal 1625, quando le tensioni tra la Repubblica di Genova e il ducato sabaudo facevano temere l'imminenza di un attacco, e fecero subito considerare la possibile costruzione di una linea di difesa al di fuori del perimetro murario esistente che circondasse la città[3]. Nel maggio del 1625 l'esercito piemontese, che si era portato a ridosso della città, fu contrastato vittoriosamente dalle forze genovesi che lo fermarono al passo del Pertuso, dove in ricordo dell'avvenimento fu poi edificato il Santuario di Nostra Signora della Vittoria. Questo evento non comportò alcun rallentamento negli iniziali lavori di fortificazione della città, rappresentati da decine di opere campali e alloggiamenti da una linea continua di trinceramenti e gabbioni e dal restauro dellaBastie fortificate di Promontorio, Peralto e Castellaccio, secondo le disposizioni del Magistrato della Milizia di Genova.
    La minaccia d'assedio del 1625 rese impellente l'esigenza di sottrarre alla minaccia delle artiglierie nemiche la popolazione cittadina che viveva a ridosso della cerchia muraria esistente[4]. Il Duca di Savoia, con l'aiuto della Francia, invase il dominio dell'antica Repubblica di Genova, minacciando anche la capitale. La cinta del 1536 era diventata obsoleta e inadeguata ai progressi compiuti nel campo delle artiglierie; essa infatti seguiva fedelmente il perimetro dell'abitato, permettendo al nemico di minacciare seriamente la popolazione civile. Fu quindi decisa la costruzione di una nuova e possente cinta muraria, l'ultima, utilizzando quell'anfiteatro naturale che aveva l'apice sul monte Peralto. Da qui iniziavano due crinali che discendevano verso il mare seguendo due vallate principali, quella del Polcevera ad ovest e quella del Bisagno a est, e le "Mura Nuove" vennero costruite seguendo fedelmente l'andamento dei crinali. Queste mura non furono realizzate a ridosso del centro abitato, lasciando anzi molto ambiente naturale boscoso e difficilmente percorribile.
    Il centro cittadino di Genova (ovvero la zona compresa tra la riva destra del torrente Bisagno e la Torre della Lanterna di Genova) fu quindi racchiuso da mura che partivano dall'attuale piazza della Vittoria dove si innestavano con le mura del Cinquecento, e salivano lungo il crinale est fino a Forte Sperone, e da qui discendevano verso ovest appunto fino alla Lanterna. A costruzione ultimata, nel 1634, la cerchia muraria annoverava un complesso di 49 bastioni, con garitte ad ogni angolo e con 8 porte di accesso alla città le cui più importanti e monumentali erano Porta della Lanterna a ponente, Porta Pila a levante. Lungo queste mura, fra il 1747 ed il 1840, furono realizzate decine di opere militari difensive, porte, bastioni e soprattutto forti integrati nella struttura muraria, che nel corso degli anni furono ampliati, modificati e integrati da altre opere al di fuori delle mura, nel contesto di altre vicende belliche.
    Tale sistema fortificato - oggi di proprietà del Demanio italiano, che ne ha curato in tempi recenti il restauro - si fonda su un insieme di sedici forti principali e ottantacinque bastioni distribuiti lungo i diciannove chilometri delle vecchie (XVII secolo) e nuove mura (XVIII secolo), dal punto più basso della zona della stazione ferroviaria di Genova Brignole fino al punto più alto, ovvero il monte Peralto.



    Santuario della Madonnetta - presepe
    Le mura cinquecentesche, le strette arcate e le rocche poste a difesa della Superba del Seicento (sulla destra dell'immagine si nota il varco portuale detto del Mandraccio accanto al monumentale bastione di Porta Siberia



    Genova e le sue difese: una testimonianza del 1800

    Nella sua opera Istoria del blocco di Genova nell'anno 1800, Angelo Petracchi, cronista dell'assedio della città, fornisce una dettagliata descrizione di Genova e delle sue difese nel periodo della Repubblica Ligure:
    «La Città di Genova è situata sul dorso di un monte, che appoggia le sue falde sulla riva del mare Ligustico. Ha essa dalla parte di terra un doppio circondario di mura, l'uno de'quali interno, che rinchiude quasi esattamente l'abitato, e che forma una specie di figura ovale. È questo munito di alcuni baluardi, che non essendo stati di alcun uso in quest'assedio, è inutile dettagliare. È l'altro esterno, ed innalzandosi dalle due punte marittime sale sino ad una grand'altezza del monte. Questo secondo circondario rende la città della figura quasi di un triangolo; mentre terminando in punta sulla cima dell'altura, scende d'ambe le parti a formar quasi i due lati che vengono chiusi e riuniti dal mare. Varj forti guarniscono questo giro di mura. Sulla cima vi è quello dello Sperone; verso il lato di Ponente, più al di sotto della metà, vi è l'altro detto delle Tenaglie, ed alla fine del medesimo ve n'è un altro chiamato di S. Benigno. Ciò produce, che da quella parte la città di Genova è quasi imprendibile; tanto più che la località combina così propiziamente a difenderla, che poca o niuna speranza dà agli assediatori di prenderla. Non è il medesimo dalla parte di Levante, ove essendo dominata al di fuori da alcune alture, è stato creduto inutile di alzarvi degli altri forti. In mancanza di ciò si è fatto al di fuori una specie di parallela, o per meglio dire un cammino coperto che fortificando quelle medesime alture, che dominano la città, suppliscono a tal difetto; bisogna perciò a chi difende Genova tener questa linea esteriore, e quelle fortificazioni, che sono il monte dei Ratti, sulla cui sommità è il Forte di Quezzi; il Forte Richelieu, che fu fatto fabbricare dal celebre Maresciallo di tal nome quando occupò Genova; quello di S. Tecla, e la Madonna di Albaro. Più in alto dello Sperone, e quasi perpendicolare al medesimo vi è il forte del Diamante, che domina lo Sperone medesimo, sebbene da taluni credesi che ne sia un poco troppo distante; anch'esso però è di una estrema importanza per gli assediati, sostenendo moltissimo le operazioni delle altre fortificazioni esterne. Fra il Diamante, e lo Sperone vi è il monte de' due Fratelli, che fa due diverse punte: questa situazione è assai rimarchevole, perché produce la riunione fra gli assedianti, e potrebbe prender alle spalle le opere esterne della linea di Levante; ma siccome ivi temesi l'incrociatura dei fuochi dello Sperone e del Diamante, è assai difficile d'impadronirsene, quantunque siavi un certo sito che dicesi immune dall'artiglieria di ambi i forti. Dalla parte di mare, molte e belle batterie difendono la città, ed il porto, non che le mura marittime assicurate anche dalla Natura. Tali batterie rimontate ultimamente toglievano ogni pena da quella parte. Le più belle sono quelle della Strega, della Cava, di ambi i Moli, e della Lanterna. Dalla parte di Ponente vi è il fiume dellaPolcevera; dalla parte di Levante quel di Bisogno. Albaro è un piccolo, e delizioso borgo, che da questa parte è vicino a Genova quasi di un solo miglio, come dall'altra parte si è quello vaghissimo egualmente di S. Pier d’Arena».

    Sulle mura, un parco naturale
    Intorno al sistema di fortificazioni sorto sulle alture cittadine è stato realizzato in anni recenti - grazie all'ambiente naturale circostante di oltre 870 ettari, con circa novecento specie di piante inserite in un ecosistema integrato bosco-prateria-macchia mediterranea, e alla presenza di molti esemplari di fauna composta da mammiferi e uccelli rapaci - il Parco delle Mura.
    Questo sfrutta un'area rimasta ai margini dello sviluppo urbanistico edilizio della città, e nel momento in cui vengono meno le servitù militari delle varie fortificazioni essa viene ad avere funzione di "polmone verde" della città.
    Il parco si sviluppa pertanto attorno alle Mura Nuove includendo queste con le relative fortezze.
    Genova nel XVIII secolo era una città completamente fortificata e all'avanguardia nell'architettura militare; essa infatti disponeva di una doppia cerchia di mura, quella del Seicento e quella del Cinquecento, fatto che sorprese gli Austriaci nel 1746 e che li rese incapaci di riconquistare la città che si era a loro ribellata. La doppia cinta era pertanto rafforzata dall'aver collegato la cerchia muraria risalente al secolo precedente alle preesistenti mura del XVI secolo e ai forti sui rilievi circostanti.
    Il parco delle mura, gestito dal Servizio Giardini e Foreste del Comune di Genova, dai primi anni novanta del Novecento, ha preso in gestione i forti, organizzando a determinate scadenze vari spettacoli estivi nel Forte Sperone. Poco distante da questo è stato restaurato il forte Begato, sebbene l'inattività abbia poi in parte vanificato l'operazione.
    Il parco si estende poi alle fortezze poste più a Nord delle Mura Nuove, dal Forte Puin, che era stato negli anni sessanta del Novecento dato in concessione ad un pittore e pertanto si trovava ancora in buono stato, ai due Fratelli (il maggiore demolito per far posto alle contraeree nella Seconda Guerra Mondiale), sino al Diamante, questo posto già nel confinante Comune di Sant'Olcese.
    È anche - se non soprattutto - grazie a queste sue strutture difensive che la Superba, già antica repubblica marinara e sede della Repubblica di Genova, poté essere a lungo considerata una inespugnabile città-fortezza in grado di resistere ad ogni attacco, sia che le venisse portato sia dal mare che da terra.
    Di fatto abbandonati al loro destino alla fine del XIX secolo, i forti di Genova vennero solo parzialmente restaurati e recuperati all'inizio del Novecento per essere usati prevalentemente come punto di appoggio per le manovre militari o come carcere per i soldati prigionieri durante la prima guerra mondiale.
    In realtà hanno sempre costituito un importante patrimonio monumentale per una città ricca di orgoglio e di storia, tanto che per essa è stato coniato il termine El siglo de los genoveses, el siglo de oro (Il secolo d'oro dei genovesi), un secolo - il XVII - protrattosi ben oltre lo specifico riferimento temporale.
    Questo patrimonio la inseriva a buon diritto fra le città più difese d'Europa.
    Le fortificazioni di Genova raccontano la storia cittadina lungo almeno tre secoli: dai fasti seicenteschi della gloriosa Repubblica marinara ai moti popolari del 1849 contro il Regno di Sardegna per una temuta cessione all'Impero austro-ungarico.
    In parte sfiorate dal tracciato del Trenino di Casella, oggi sono meta di escursionisti (vi si può praticare dalla semplice passeggiata, al trekking, allo jogging e alla mountain bike) e di appassionati di storia che vi trovano motivi di approfondimento per meglio comprendere nella sua interezza l'evoluzione di una città che - quale porta sul mar Mediterraneo - è sempre stata crocevia di molteplici interessi.
    La cinta delle mura nuove, dotata di fortificazioni con possenti bastioni, era stata effettivamente portata a termine già nella prima metà del Seicento, ma neppure un secolo dopo, nel 1747, quando la città dovette confrontarsi con il duro assedio austriaco, si rese necessario ristrutturare il sistema difensivo per fronteggiare adeguatamente artiglierie sempre più potenti.
    Più tardi, nel 1781, il magistrato delle fortificazioni avviò un progetto che rivoluzionava il concetto di cinta muraria, mediante la costruzione di opere avanzate, in questo caso di torri isolate per opporsi al nemico lontano dalla città. Vennero individuate sette possibili direttrici d'attacco.
    Nel 1797, all'inizio del protettorato francese (Repubblica Ligure Democratica) le opere distaccate effettivamente in uso erano quattro: i forti Richelieu, Diamante, Castellaccio e Sperone mentre i forti Quezzi e Santa Tecla erano ancora da terminare (al forte Santa Tecla avrebbe lavorato come architetto militare il ticinese Pietro Cantoni, padre degli architetti Gaetano e Simone Cantoni).
    Nonostante la volontà espressa dallo stesso Napoleone Bonaparte di incrementare le difese e i numerosi progetti presentati, alcuni dei quali proponevano grandiosi sventramenti del nucleo urbano, evitati grazie al realismo del Consiglio Comunale, in realtà alla fine della dominazione francese le opere esterne erano ancora le quattro citate sopra. L'unica variante di un certo rilievo (e molto rivelatrice) fu il potenziamento delle difese del forte Sperone sul versante rivolto verso la città.
    Per tutti gli altri forti erano stati portati a termine solo lavori di adeguamento e miglioria; la maggior parte scomparvero presto sotto le fortificazioni sabaude. A completare quindi il complesso dei forti fino a portarli alle volumetrie massicce odierne, richiamanti uno stile neo-medievale, e ancor oggi visibili, fu poi dal 1815 il governo sabaudo

    L'opera di D'Andreis

    L'importanza che il nuovo dominatore dette alle fortificazioni di Genova può essere compresa dalle parole di Giulio D'Andreis, direttore del Genio Militare nella piazza di Genova.
    D'Andreis, direttore del Genio preposto alle fortificazioni dal 1815 al 1827 con brevissime interruzioni nel 1817 e nel 1822-1823, coordina una commissione di ingegneri militari che traccerà un piano accurato delle fortificazione e del terreno circostante, provvederà alla manutenzione dell'esistente e potenzierà le difese adeguandole alle sempre nuove sfide tecniche. In un piano dettagliato egli propone la costruzione di ben dodici torri, ispirate alle torri Martello inglesi.La Torre Quezzi, quella delle forche Vecchie e il Forte Begato sono fra le strutture progettate direttamente dal D'Andreis. Il modello della torre di Quezzi in realtà era stato previsto da D'Andreis come un elemento ripetitivo, da essere ripetuto a brevi distanze lungo tutti i crinali montuosi che attorniano la città. Di queste torri ne vennero realizzate pochissime, ed altre rimasero incomplete, a causa della spesa troppo forte e della sua sopraggiunta inutilità al variare delle necessità belliche. Del sistema, che prevedeva un continuum di torrette che a Levante veniva a copriere tutti i crinali sino a quello del Monte Fasce compreso, vennero realizzate le torri di: Quezzi, Monteratti (era rimasta poi inclusa nel forte, in seguito demolita), la torre del Magistero (demolita), la torre di San Bernardino (recentemente ristrutturata), le torri del piano delle Bombe, del Monte Moro e di Granarolo presso le Mura Nuove tra i forti Tenaglia e Begato (incomplete, solo il piano terra realizzato), una torre lungo il crinale che va da Forte Monteratti al Forte Quezzi (solo le fondamenta e il vano interrato, senza alzato).
    D'Andreis si occupò poi anche di urbanistica (sempre con un occhio alla praticità militare) aprendo la strada fra Piazza san Domenico e Piazza delle Fontane Marose, e progettando una Piazza d'armi (in grado però di consentire il passeggio e un piacevole affaccio panoramico) alla spianata dell'Acquasola (1821).
    A questo punto, la città - che sarebbe stata sottoposta quattro anni dopo ad una possente opera di ristrutturazione urbanistica (v. Progetto di revisione urbanistica del 1825 di Carlo Barabino) può essere considerata un campo trincerato appoggiato ad una cittadella formata dai forti Sperone, Begato e Castellaccio.
    Negli ultimi anni l'autorità di D'Andreis venne tuttavia messa in discussione, e lui stesso guardato con sospetto perché troppo aperto alle idee innovative provenienti dal Nord Europa. Accolti in maniera migliore risultarono i suoi collaboratori, soprattutto Giovan Battista Chiodo, e suo fratello Agostino, probabilmente perché genovesi. Quest'ultimo completò le opere intorno alla zona della Lanterna, ma anche il porticato (la Loggia dei Banchi di Palazzo San Giorgio, opera civile creduta a lungo opera di altri) di Piazza Caricamento, ove sorgeva un tempo l'antico Banco di San Giorgio ed oggi sede dell'Autorità portuale.
    I Chiodo fecero spostare inoltre la progettata piazza d'armi da spianata Acquasola alla vicina collina di Carignano, proprio sopra la foce del torrente Bisagno, dove vennero costruite due caserme ed altre opere in grado di ospitare complessivamente due reggimenti di Fanteria in assetto di guerra (il complesso è sede attualmente del Distretto Militare).




    i due fratelli



    torre Quezzi



    La prossima volta continueremo con i percorsi della linea di fortificazione


    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    Continua......
     
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    Camalli de zena



    Agenzia_Bozzo_432-B_porto_di_Genova_mancine_grue_e_scaricatori_di_grano_sul_molo_Genovacards



    Il lavoro forse più antico legato al porto di Genova è quello del “camallo”.
    I camalli erano i faticatori del porto che, grazie alla loro abnegazione ed indubbia forza fisica, quando ancora le macchine non erano presenti ad agevolare le fatiche dell’uomo, provvedevano a spalla al trasferimento delle merci dalla stiva della nave alle banchine per essere in seguito spedite con i carri, a destinazione.
    Avevano il compito di depositare le merci presso il magazzino deposito chiamato “raiba”, nome di origine araba da cui ha preso nome l’attuale piazza Raibetta in zona Caricamento.
    Il termine camallo avrebbe origine dalla parola araba “hammal”, letteralmente faticatore a spalla.
    Un’altra tesi sull’origine di questo nome, purtroppo non documentata, identifica nella “cruna dell’ago” il nome di un passo di montagna così stretto che un uomo riusciva con fatica
    ad oltrepassarlo e che a maggior ragione, sarebbe stato impossibile da attraversare da parte di un cammello.
    Questo legame sembra identificarsi alla traduzione dal greco al latino della parola Kamelos in camello, rispetto al significato esatto che significherebbe: grossa fune usata per l’attracco delle navi.
    La traduzione fu effettuata da San Gerolamo, l’autore della Vulgata Editio della Bibbia.
    Sempre trattando del termine camallo, prima dell’influenza araba, veniva utilizzato il sinonimo latino di “bastagio”(dal latino medievale bastasium del XIII secolo che aveva il significato di portabagagli dal greco bastagè)
    L’organizzazione dei camalli in squadre affonda le radici in tempi remoti: l’atto di nascita della Compagnia dei Caravana, prima associazione di lavoratori portuali, risale al 1340, e si distingue fin da subito per le esclusive che riesce ad ottenere dal Comune riguardo lo scarico delle merci, nonché per le sue caratteristiche di mutuo soccorso, codificate nello statuto, che prevedono il versamento di una quota del salario dell’associato nelle casse sociali, destinate all’assistenza dei malati e alle esequie di ciascun compagno.
    Prima di questa data vi erano almeno sette compagnie con differenti specializzazioni riguardanti il trasporto delle merci.
    Nel 1946 nasce la CULMV (compagnia unica lavoratori merci varie) che viene, praticamente, “confiscata” dal PCI, tanto da farne un suo feudo elettorale e dentro la quale, per molti decenni, era impossibile entrarvi se non si possedeva la tessera di quel partito.
    Il camallo è un uomo forte e muscoloso che scarica le navi quando arrivano e carica le navi che se ne vanno: almeno così pensiamo tutti. Siamo rimasti alla solenne immagine di Paul Klee che nel 1901 («Diario italiano») li dipinge così: «Belle figure robuste, il torso nudo, agili e veloci, con il carico in groppa (in testa un fazzoletto, a riparo dei capelli), sulla lunga passerella su al magazzino, per la pesatura...»
    La giornata del camallo, prima dell’avvento dei container si svolgeva così, da un racconto di un popolare camallo Andrea Bazurro detto O’ Bacci: bisogna essere in porto la mattina presto perché la prima chiamata è intorno alle sette, massimo sette e mezzo, la seconda è alle tredici e l’ultima alle diciannove … sono gli ispettori che chiamano e dicono il numero di matricola, quello che hai scritto nel O’ latton (la tessera di socio). I camalli chiamati rispondono tutti alla stessa maniera:
    Ou! Ou! Ou! Ou! Ou! e si deve fare in fretta a sentire, a guardare e a marcare le presenze. Se non ti chiamano al primo turno devi aspettare la chiamata dopo o altrimenti l’altra ancora. Tra una chiamata e l’altra non conviene allontanarsi, perché capita che durante i lavori, qualcuno debba essere sostituito, oppure servano più uomini e gli ispettori tornino a chiamare. Tra il momento della chiamata e l’inizio del lavoro c’è un’ora, per dare a tutti il tempo di raggiungere il luogo di lavoro del porto.
    Sempre O’ Bacci ci narra della fatica dell’uomo nel porto durante le operazioni di scarico del caffè:
    ti carichi i sacchi sulla schiena, un carico che ti spezza le reni, e inizi a salire. Ogni magazzino, chiamato Quartiere, porta il nome di un Santo: Santa Maria, poi San Giorgio e arrivi fino a Sant’Ilario, ma non sei ancora arrivato, perché dopo tanta salita c’è ancora una scala a pioli. Per un attimo puoi pensare di aver preso la strada per il Paradiso ma non è così, si ridiscende. Al ritorno non puoi prendere fiato perché ti caricano di un altro sacco e … alla fine della discesa il caposquadra infila un anello in un’asta di acciaio: in questo modo tutti i sacchi a fine lavoro sono contati.

    CURIOSITA



    Il camallo forse più famoso fu Bartolomeo Pagano, conosciuto come Maciste, salito addirittura agli onori del cinema nel 1914 nel film “Cabiria” dove mostrava la sua notevole forza affinata e sviluppata dopo anni come “camallo”.



    I CAMALLI E LA FAMIGLIA

    Ancora O’Bacci ci racconta dei rapporti del camallo con la famiglia: … i lavoratori consegnavano la paga, appena ritirata, alla donna di casa, madre o moglie che fosse stata che alla fine degli anni cinquanta veniva erogata ogni dieci giorni…
    Sono le donne che amministrano l’economia famigliare. I camalli si fidano delle loro mogli, sanno che gestiranno il poco denaro nel modo migliore. Le loro donne non sprecano nulla, hanno gran rispetto del lavoro del marito. Quando i figli hanno bisogni di comperare qualcosa, anche se son già camalli, chiedono il permesso alla madre. E’ lei l’unica a poter valutare se l’economia famigliare possa o meno consentire quell’acquisto.
    I soldi … dei camalli appartengono alla famiglia, sia che li abbia guadagnati il padre o il figlio di qualsiasi età.
    Sino a che i figli vivono sotto il tetto dei genitori, i soldi si danno alla madre.
    Le famiglie dei portuali vivono in case vicine e, spesso, le donne trascorrono insieme il loro tempo. Le madri solitamente non si intromettono nelle questioni amorose dei figli maschi, chiedono solo di poter conoscere la futura sposa, per non correre il rischio di affezionarsi ad una ragazza che, magari, è solo di passaggio a Genova.
    Sono più i padri a desiderare di suggerire, indicare, proporre, probabili fidanzate. Di solito la loro preferenza cade sulla figlia di una amico camallo, perché questa ragione garantisce da sola che è una brava ragazza !


    UNA DONNA AL VERTICE DEI CAMALLI

    Genova: Per la prima volta nella storia dei "camalli" genovesi, gli addetti al carico e allo scarico delle merci dalle navi, una donna scala i vertici della Compagnia Unica Lavoratori del porto di Genova (Culmv) ed entra nel Consiglio di amministrazione.
    Nel ballottaggio per uno dei quattro posti in consiglio ha vinto Francesca Ceotto, da 15 anni in Compagnia Unica con ruoli amministrativi. Dei 969 soci che hanno diritto di voto hanno partecipato al ballottaggio in 588. Francesca Ceotto ha avuto 326 voti: "Non si tratta di quote rosa ma di competenze professionali - ha spiega il console Antonio Benvenuti -, per noi era importante avere in consiglio una persona con competenze amministrative".
    Questa ultima elezione chiude la tornata amministrativa dei "camalli" genovesi che nelle scorse settimane avevano confermato console Antonio Benvenuti. "Ora - conclude il console - dovremo affrontare questioni complicate ma con un gruppo dirigente coeso pensiamo di poterli affrontare al meglio".
    Una donna «camallo»? Ma come? E invece: ecco che Francesca Ceotto, 38 anni, una donna quindi, figlia d’arte, il babbo era un camallo, entra, per la prima volta nella centenaria storia della Culmv (Compagnia unica lavoratori merci varie) come consigliere d’amministrazione. Una di quelli che comandano.
    Francesca è piccina e minuta. Se si mette in piedi accanto al suo «console» Antonio Benvenuti (il capo dei camalli si chiama nobilmente così, «console») gli arriva alla spalla. Eppure, come dicono i camalli, ha le «spalle» robuste. E non «se la tira», la Francesca: a Genova non piacciono quelli che fanno gli sbruffoni. Dice: «Ho avuto fortuna, nel 2001 a entrare come lavoratrice nella Compagnia. È stato il colpo della mia vita. Un posto di ideali, di principii, di ragionamenti. Non è la solita banalità: è vero che questa è una grande famiglia di mille persone. Gente che è disponibile al lavoro 24 ore su 24; 7 giorni su 7; pronta a rispondere a 7 «chiamate» giornaliere. In porto si applica quel concetto di cui tanti si riempiono la bocca a vanvera: la flessibilità. Noi siamo flessibili senza essere interinali. I lavoratori del porto di Genova sono l’eccellenza in questo tipo di lavoro». Come i Mille garibaldini, i Mille camalli difendono l’orgoglio genovese e oggi sembrano specchiarsi nell’orgoglio greco. «Abbiamo fatto e siamo pronti a fare sacrifici per rendere sempre più efficiente e adeguato ai tempi il lavoro della Compagnia - dice Francesca Ceotto - ma non dimentichiamoci che nessuno lavora come i nostri Mille».
    Gente che, comunque, produce un fatturato di 42 milioni l’anno. Gente che un giorno gli arrivano cinque navi con 4 mila container, ma un giorno gliene sbuca un’altra (ovviamente cinese) con 20 mila container. E devi essere pronto a scaricarli, senza farli aspettare in rada sennò se ne vanno a Marsiglia o lassù nel Nord. E poi la Francesca Ceotto ha anche un’altra idea: fare un pool di tutti quelli che lavorano nel porto di Genova. Che poi non sono tanti. Oltre ai classici camalli, c’è anche la Compagnia Pietro Chiesa. Quelli che se c’è bisogno di ripulire una nave mercantile come Dio comanda lo sanno fare. Il capo - pardon il Console - di quella Compagnia è Tirreno (il nome forse non è un caso) Bianchi. Dice: «Che la Francesca Ceotto sia entrata nel cda della Culmv è un bel segnale. Abbiamo bisogno di cambiamenti, di scelte intelligenti».
    Francesca Ceotto non ha avuto sponsor: è stata eletta (non cooptata come fanno i padroni) nel consiglio d’amministrazione dai mille lavoratori della Culmv. Persino Antonio Benvenuti, l’attuale Console, che pure la apprezza, non si è speso più di tanto. Lui viene dalla scuola di Arrigo Cervetto, il leader di «lotta comunista», ed è sampdoriano, ma questo non conta politicamente. E si limita a dire: «Una scelta figlia di una competenza professionale, non certo delle quote rosa. Francesca Ceotto ha esattamente le competenze amministrative che ci servono dentro il consiglio d’amministrazione». «La ragazza», come la chiamavano i camalli - ma probabilmente continueranno a chiamarla così - non ha sfidato i maschi in canottiera, li ha portati dalla sua parte con la forza delle idee. D’altra parte la conoscono. È entrata in «ditta», bambina, 14 anni fa. Per sorteggio. C’erano quattro posti. Si presentarono in cinquanta. Qual era il modo più «democratico» di scegliere? Il sorteggio! E Francesca fu sorteggiata.
    «E adesso devo darmi da fare - dice - per portare avanti il discorso che la Compagnia dei portuali fa da anni: mettere al centro delle questioni politiche il concetto e la difesa del lavoro: con la coscienza che il mondo cambia e che se secoli fa l’unico porto possibile era Genova, ora ce ne sono altri. E dobbiamo competere. E provare a essere migliori. O, come si dice adesso, competitivi».

    I CAMALLI E I FATTI DEL 1960


    Non tutto però è fatica, lavoro e economia famigliare nella vita del camallo, esiste anche la politica e questa porta, a volte ad eccedere e a compiere violenze che macchiano, in parte, questa nobile categoria di lavoratori genovesi.
    Come abbiamo avuto modo di apprendere, dal 1946 la CULMV, compagnia dei camalli è feudo del PCI, partito allora fortissimo tra operai e lavoratori dipendenti di qualsiasi altra categoria.
    Con la tessera del PCI, un posto nella CULMV, era assicurato.
    Nel 1960, l’allora MSI (movimento sociale italiano) partito della destra sociale e inviso al PCI, ottenne dall’allora governo DC, presieduto da Tambroni di poter svolgere il suo congresso nazionale nella Superba.
    Questo fatto fu inteso dal PCI e dai camalli come una “provocazione”, definendo l’MSI, una “congrega” di fascisti, (usando, tale appellativo, come dispregiativo) visto che Genova è città medaglia d’oro resistenziale.
    La città fu messa, per alcuni giorni a ferro e fuoco dai camalli su istigazione della direzione nazionale del PCI, che sovvenzionò la rivolta, ottenendo che il congresso del MSI venisse spostato in altra sede.
    Fu una sconfitta, una delle tante, della giovane democrazia italica e una macchia nel cuore, fino ad allora puro, dei camalli.

    scontri in Piazza De Ferrari

    pol06



    POESIA DEL CAMALLO
    Addio vecchio camallo
    Vegio camallo, solo poche parolle
    Pe dite che t’arregòrdo
    Co-o teu gancio co-o scapussetto o teu
    Giacche co-e stacche gròsse gròsse
    Co-o teu accento ti parli, sempre pronto
    A da’na man, t’ae affrontou o
    Giamin di anni che non ean ancon moderni
    Coscì t’arregordo
    A lotta contro o tempo a l’è na lotta
    Ch’a se perde sempre
    Addio vegio camallo
    (Genova 1985)

    Addio Vecchio Camallo
    Vecchio camallo, solo poche parole
    Per dirti che ti ricordo
    Con il tuo gancio, il tuo copricapo
    E la tua giacca con le tasche grosse grosse
    Con il tuo accento parli, sempre pronto
    A dare una mano, hai affrontato il cammino
    Di anni che non erano ancora moderni.
    Così ti ricordo
    La lotta contro il tempo è una lotta che si perde sempre
    Addio vecchio camallo

    per questa ricerca ho consultato: il sito del Comune di Genova;
    i libri: Liguria nascosta e dimenticata di Danilo Tacchino per la LigurPress / Antorevisionismo di un revisionista di Raffaele Francesca per "le Pagine"
    le foto sono inserite a solo scopo didattico culturale NON si intende violare alcun diritto d'autore
    ..continua
    saluti
    Piero e famiglia
     
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367 replies since 23/11/2016, 15:58   4854 views
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