"Caffè Zibaldone"

GENOVA per VOI

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    L'isola che non c'è

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    I Forti di Genova
    parte seconda



    Diversi sono i percorsi che uniscono i diversi forti e baluardi che costituiscono la linea di fortificazione. Questi i principali:

    Primo percorso
    Un primo tracciato articolato sulle mura vecchie trecentesche ha inizio dal ponente cittadino, pressappoco all'altezza della Lanterna, ovvero sulle alture del Belvedere nel quartiere di Sampierdarena ove sorgeva l'omonimo Forte Belvedere costruito fra il 1815 ed il 1825, oggi non più esistente (al suo posto sorge l'impianto sportivo Morgavi, un piccolo campo da calcio dove si disputano partite del campionato dilettanti). I pochi resti della fortificazione che sopravvivono fino ad oggi, furono adattati a batteria antiaerea durante la Seconda guerra mondiale, e in parte, sono tuttora visibili proprio a fianco del campo sportivo.
    In questa zona poco più in alto si trova il Forte Crocetta (situato a 145 m di altitudine, a breve distanza dall'edificio del dazio) che fu edificato nel 1818 sui resti della omonima chiesetta.
    Poco più in alto (alt. 217 m) si trova il Forte Tenaglia, un tempo caposaldo delle mura cittadine, che precede di poco il quarto fortilizio che si incontra lungo il percorso, ovvero il Forte Begato, situato a 475 m di altitudine e costruito dal Genio militare di Casa Savoia fra il 1818 ed il 1830 sulla base - secondo fonti peraltro incerte, come ricordato dallo storico e studioso del sistema fortilizio genovese Stefano Finauri - di strutture esistenti fin dal 1319.

    Genova_Torre_Granarolo
    Forte Granarolo



    Questo primo gruppo di forti è collegato tramite le Nuove Mura e sentieri al Forte Sperone, quello maggiormente conosciuto e accessibile, situato a 489 metri di altezza lungo la sommità del monte Peralto, oggi identificato comunemente come collina del Righi, dal nome della funicolare che collega l'altura al centro cittadino.
    Forte Sperone ha la sua origine anch'esso in tempi antichi, ovvero alle prime decadi del 1300: ebbe come nucleo una fortificazione ghibellina che sorgeva accanto a dove si trova quella attuale e che portava il nome di Bastia di Peralto (di essa non rimane peraltro alcuna traccia).
    Fu poi completato nel 1747 con l'edificazione di una caserma con abitazione per gli ufficiali, magazzini e polveriera (arricchita nel 1820 da tre torri) e di una adeguata recinzione resa possibile utilizzando le adiacenti mura nuove in pietra.
    È questa l'unica struttura ad avere avuto una utilizzazione massiccia in epoca moderna quale sede di spettacoli teatrali estivi per i quali vengono usate sia le aree all'aperto sia i vani interni.
    Appena più in basso (alt. 362 m, sempre nella zona del Parco del Peralto) le mura rasentano il Castellaccio che per tre secoli - dal 1507 all'inizio dell'Ottocento fu lugubre sede di pubbliche esecuzioni per impiccagione.
    Dalla sommità della collina del Righi si diramano i sentieri che segnano lo spartiacque fra i diversi gruppi di colline che si aprono a fianco della valle del Bisagno. A 508 m di altitudine il primo che si incontra è il Forte Puìn, una torre di struttura quasi cubica alta nove metri costruita fra il 1815 ed il 1830 dal Genio militare da cui è possibile godere di un'ottima vista panoramica.

    Genova_Forte_Puin
    Forte Puin



    Una ulteriore breve salita porta al vicino Forte Fratello Minore (alt. circa 622 m) - costituito da una torre centrale di età napoleonica, opera del governo piemontese e valorizzato nel 1815 da un recinto murario nonché da un fossato - e ai resti di quello che fu il Forte Fratello Maggiore, una torre a pianta quadra posta poco più in alto e demolita in epoca fascista.

    Genova_Forte_Fratello_Minore
    Forte Dratello Minore



    L'area compresa fra lo Sperone, i Due Fratelli ed il Diamante vide un'autentica battaglia il giorno 30 aprile 1800 tra attaccanti austro-ungheresi e truppe franco-italiane comandate dal Gen. Andrè Massena. Il Forte Diamante fu aspramente conteso ma a fine giornata la vittoria fu francese (per una descrizione analitica del fatto si veda, in biografia, l'ultima edizione del 'Giornale delle operazionimilitari, dell'assedio e del blocco di Genova' di P.Thiebault, in particolare l'analisi a cura di Marco Vecchi.
    Il punto più elevato del sistema di fortificazioni (667 m) è il monte Diamante, dove sorge l'omonimo forte, appunto il Forte Diamante, costruito a partire dal 1756 sui resti di un'antica rocca difensiva della quale si hanno notizie a far data dal 1478.
    Secondo alcuni storici l'opera fu completata in due soli anni anche se tale dato non è suffragato da elementi certi; è da tenere conto che, con i mezzi dell'epoca, sarebbe stato molto difficile edificare un forte come il Diamante, situato su un'erta collina, in un lasso di tempo così breve, in condizioni climatiche assolutamente variabili, tenuto conto dell'ubicazione.

    Genova_Forte_Diamante
    Forte Diamante



    Pubbliche esecuzioni al "Quadrato delle forche"
    Uno dei principali baluardi del sistema di fortificazione genovese, il Forte Castellaccio, edificato sopra un precedente impianto fatto erigere nel XIV secolo da Roberto d'Angiò; fu più volte potenziato nel corso del tempo fino all'innalzamento del bastione detto delle forche - torre ottagonale in laterizio - da cui il nome della zona chiamata quadrato delle forche.
    Lo storico Giuseppe Banchero, autore nel 1865, di un saggio intitolato Monumenti pubblici della città di Genova, dette così conto di quello che oggi è conosciuto con il nome di Castellaccio (appellativo rimasto sebbene la struttura sia stata sottoposta negli anni novanta a lavori di recupero):« Questo era dapprima un gran torrione edificatovi dal genovese governo per difesa della città e delle valli, essendo situato sulla cresta dei monti che dividono questa vallata del Bisagno al lato orientale della città. Ne fu ampliata la fabbrica circa il 1818; in seguito fu arricchito di altre opere che lo rendono assai più importante, tanto più per la dominazione che ha sulla città e perché protegge la superior parte della vallata detta del Lagazzo (nota: oggi Lagaccio), dove sono situate le fabbriche di polveri ed i magazzini di deposito delle medesime. »
    Le prime notizie che si hanno sul Castellaccio si riferiscono effettivamente ad una torre edificata nel 1317 per ordine di d'Angiò ma subito demolita due anni dopo (1319) per costruire ex novo una nuova fortificazione a difesa del partito guelfo.
    L'ottagonale e adiacente Torre Specola fu innalzata ad opera dell'architetto militare Giulio D'Andreis pressappoco nel periodo cui fa riferimento lo storico Banchero, ovvero tra il 1817 ed il 1823, sul preesistente sito detto quadrato delle forche, luogo deputato - come è facilmente comprensibile dal nome - ad esecuzioni capitali.
    Riscontri in questo senso si hanno nei rilievi effettuati dal Corpo Reale del Genio, mentre viceversa la struttura non compare sulle planimetrie fatte eseguire alla fine del Settecento dal colonnello GiacomoBrusco, ingegnere militare del Genio; sempre un disegno del 1818 mostra tuttavia la caratteristica facciata meridionale; una planimetria del 1823 riporta infine la pianta dell'edificio con il rilievo del terreno circostante. Questa documentazione è conservata presso l'Istituto Storico e di Cultura dell'Arma del Genio militare (ISCAG), a Roma.
    Dopo l'annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna, il forte subì una radicale trasformazione tanto da rendere la zona su cui sorgeva una sorta di cittadella fortificata, quella città-fortezza prefigurata dalla collaudata fortificazione alla moderna, ideale luogo ove allestire una guarnigione utile sia per una difesa delle mura sia per controbattere a eventuali improvvise insurrezioni da parte della popolazione locale.
    Un po' come accadrà, leggermente più a valle, con la costruzione del piccolo castello difensivo che ancor oggi dà il nome ad un quartiere residenziale cittadino, appunto, il quartiere di Castelletto a circonvallazione a monte.

    Genova_Forte_Sperone_02
    Forte Sperone



    Secondo percorso
    L'approccio del secondo percorso attraverso cui è possibile ancor oggi visitare il corso delle fortificazioni "fuori le mura" di Genova - e insieme ad esse buona parte della storia cittadina - avviene al di là del torrente Bisagno, sulle alture di Quezzi dove si incontrano in successione Forte Quezzi, Torre Quezzi, Forte Monteratti, Forte Richelieu e Forte Santa Tecla, che creano un percorso a ferro di cavallo lungo i bordi della conca creata da torrente Fereggiano.

    Genova_Forte_Richelieu
    Forte Richelieu



    Qui le fortificazioni sono di epoca relativamente più recente, riferendosi al periodo di espansione della città oltre la valle del Bisagno, queste fortificazioni erano tutte destinate alla difesa della val Bisagno, della vallata che da San Desiderio porta al mare e di tutte quelle vie di comunicazione che avrebbero consentito al nemico di scendere dalle alture di Sant'Olcese o Bargagli.
    Procedendo dalle prime alture di Quezzi, come primo forte si incontra quello omonimo al quartiere, oggi fortemente diroccato, di proprietà di un privato e quindi non visitabile; continuando lungo la strada asfaltata, si giunge a Torre Quezzi una torre in laterizio di circa 17 metri di diametro ancora ben conservata ma priva dei solai interni un tempo esistenti.

    Genova_IMG_2308
    torre Quezzi



    Sempre in direzione del levante cittadino, il fortilizio successivo che si incontra è il Forte Monteratti, una imponente struttura difensiva che si sviluppa lungo i quasi 260m del pianoro in cima all'altura di Monte Ratti. Il forte è ancora in buone conzioni, ma alcuni crolli non consentono una visita dettagliata della struttura, nel retro del forte si trova il terrapieno in cui erano posizionate le artiglierie, rivolte verso l'alta val Bisagno.
    Successivamente, passando per l'antica cava di pietra di Quezzi, si giunge a Forte Richelieu, dal nome del Maresciallo di Francia Louis Armand du Plessis de Richelieu, comandante dell'esercito francese in Liguria, ad oggi sede di ripetitori televisivi RAI e quindi non visitabile.
    Nella zona sono comunque presenti due batterie contraerei risalenti al secondo conflitto mondiale, rispettivamente a nord e a sud del Forte Richelieu, visitabili anche se lasciate in uno stato di abbandono.
    Il tour dei forti di Genova si conclude a quota 150 m di altitudine, fra la collina di Pianderlino e quella di San Martino, con il Forte Santa Tecla, edificato a partire dal 1747 sulla base di alcune strutture difensive (dette ridotte) poste a lato di una vecchia chiesetta che portava il medesimo nome.
    Oggi il Forte Santa Tecla, dopo due costosi restauri, è in buone condizioni, ma a causa di un'amministrazione sbagliata, il forte è chiuso ai visitatori anche se un'associazione di volontari della Protezione Civile lo mantiene in buono stato.
    Scendendo poi lungo il sentiero che conduce in città si trova l'ultimo forte, un tempo periferico alla città ma oggi inglobato nell'urbe cittadino, Forte San Martino, oggi visitabile ma in cattivo stato di conservazione. La costruzione dei bastioni e del muro di cinta in terra fu completata fra il 1815 ed il 1833.

    Genova portuale fortificata ieri e oggi
    Il particolare sistema orografico di Genova - che ne fa una città difficile da attraversare, da praticare - ha posto sempre dei problemi sul piano logistico, tanto in tempi di pace quanto di guerra.
    Sulle mura collinari che la cingono come un diadema - restituendole il caratteristico skyline che tanto suggestiona coloro che l'avvicinano dal mare - si è combattuta la guerra di Liberazione. I partigiani tenevano come riferimento i contrafforti, spesso convertiti a batteria contraerea, per spingersi sino ai carrugi del centro storico e da qui all'intera zona dell'angiporto, ricca di docks e fabbriche (si pensi allo stabilimento Ansaldo di Sampierdarena).
    Si è così in presenza di un altro sistema di fortificazioni con mura, postazioni, torri di guardia (su tutte la Lanterna simbolo cittadino) che riguarda da vicino - se non esclusivamente - la zona portuale.
    I bastioni - ancora ben visibili - fra Porta Siberia e il Mandraccio, accesso al Porto antico recentemente restaurato da Renzo Piano, furono scenario di scontri durante il secondo conflitto mondiale e obiettivo di pesanti bombardamenti aerei e dal mare (1941, 1942).
    Le vicine Mura della Malapaga erano state costruite intorno al 1550 con il probabile intervento dell'architetto Galeazzo Alessi. Servivano a congiungere la Porta del Molo con il Casone della Malapaga costruita il secolo prima, proprio accanto al mercato generale del pesce, ove oggi sorge la Caserma della Guardia di Finanza a Piazza Cavour. Il Casone era adibito a prigione per i debitori inadempienti.
    Situate poco distanza dalle mura e dalla galleria delle Grazie - oggi transito della moderna metropolitana - furono fonte di ispirazione per l'omonimo film Premio Oscar del 1949 diretto da René Clément, con l'interpretazione di Jean Gabin.
    Fortezza Genova (o, meglio, Fortress Genoa) è tornata a rivivere in anni ancor più recenti nei titoli dei mass media internazionali in occasione dei fatti di Genova, in occasione della riunione del G8 nel 2001.
    La zona rossa "edificata" con container e cancellate attorno alla zona del Palazzo Ducale (un tempo sede dei dogi del popolo), tesa a preservare il normale svolgimento dell'incontro degli otto grandi del mondo, è sembrata a molti osservatori un nuovo - e aggiornato - modello di fortificazione difensiva.


    Nella collina sopra Quezzi
    con Nievo come "cronista"
    Nel capitolo XVIII de Le confessioni di un italiano il patriota-scrittore Ippolito Nievo (1831-1861) descrive ampiamente come i Genovesi uniti ai Francesi resistettero a lungo all'assalto anglo-austriaco, immaginando anche che il protagonista Carlino Altoviti avesse vissuto da vicino ed in prima persona il micidiale bombardamento cui nell'anno 1800 fu sottoposto il Forte Quezzi.
    « Le bombe piovevano sulle casematte mentre noi facevamo un brindisi col Malaga alla fortuna di Bonaparte e alla costanza di Massena »
    Oggi quel che resta del forte è ben poca cosa: alcuni ruderi - peraltro sorprendentemente risparmiati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, quando il forte era adattato a batteria per la contraerea - meta di scampagnate per coppiette, appassionati di trekking armati di macchina fotografica e ragazzini in cerca di avventure pensando ad un tempo ormai consegnato al passato.

    Genova_Panorama_dai_Camaldoli_part2_Forte_di_S
    Panorama di Genova dai Camaldoli Forte S.Tecla



    Forte Quezzi rimane tuttavia, tra i forti genovesi, uno fra quelli maggiormente visibili nell'augusto e severo profilo delle fortificazioni che delinea il panorama cittadino: iniziato a metà del XVIII secolo, non fu in realtà mai ultimato. Poi fu conquistato dal maresciallo Andrea Massena nell'anno 1800, e terminato in qualche modo solo cinquant'anni dopo.
    In condizioni migliori è la vicina Torre Quezzi (vedi immagine sopra), edificata dal Genio Militare Sardo nel 1820 ma andata in disuso già a fine Ottocento; oggi è ricovero per pecore di pastori che abitano nel quartiere omonimo ed è riconosciuta come sito di interesse comunitario dall'Unione europea essendo uno dei pochi habitat del raro tarantolino (Euleptes europaea)

    Torri e mura con vista


    Il Forte Quezzi, a 285 m di altitudine, oggi diroccato, secondo talune fonti storiche, che sembrano rifarsi piuttosto ad una leggenda che non a darti certi, sarebbe stato costruito - nell'anno 1800 - in soli tre giorni e tre notti dalla stessa popolazione genovese che si servì di fascine, tronchi d'albero e seicento botti di terriccio. In realtà la sua edificazione ebbe inizio a metà del Settecento e la sua completa realizzazione ebbe termine soltanto un secolo dopo.
    A sovrastare la struttura è l'alta Torre di Quezzi (17 metri di altezza per un diametro di 15) costruita in laterizio.
    Lungo quelli che sono i resti delle trincee austriache del Settecento si giunge al Forte Ratti (o Forte Monteratti, alt. 560 m), dalla mole imponente e composto da due ali divise da un corpo centrale. A fianco della fortezza, una cava si prolunga sul fianco orientale della montagna.
    Il luogo di questa struttura è un altro dei più importanti punti panoramici della città.

    Genova_Forte_Ratti
    Forte Ratti



    Forte_Begato_facciata_frontale_Genova_otto
    Forte Begato




    le foto sono inserite a solo scopo didattico culturale NON si intende violare alcun diritto d'autore
    ..continua....
     
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    Muro o non muro...TRE PASSI AVANTI!

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    Valleregia di Serra Riccò (GE)

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    dopo la città, i forti e alcune specialità, un salto nell'entroterra

    ... Voire ... Voje ... Valleregia



    Prima parte di tre

    panorama


    vista panoramica

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    stemma araldico


    Anticamente Voirè, poi Voje e oggi, in italiano, Valleregia.
    E’ un frazione di Serra Riccò, situata al centro della vallata del Secca del quale detiene le sorgenti.
    Valleregia è un ridente paesello dell’entroterra genovese, nel comune di Serra Riccò, in diocesi di Genova.
    Cristianizzata dal Vescovo (poi Santo) Claro, intorno al 400 d.c. conserva ancora tratti di mulattiere, muri a secco e l’usanza degli antichi di “ coffesà”, cioè di trasportare la terra dal fondo dei ripidi campi fino alla parte più alta per non pesare sui muretti.
    Nel suo territorio si erge il Pizzo, monte non alto (in realtà una collina) ma selvaggio e imponente che, nelle fredde mattine dei mesi invernali, regola e ritarda il sorgere del sole conservando, fino a tardi, la gelida brina sull’erba dei fossi e sui prati.
    Come si evince da quanto sopra, il lavoro e la fatica caratterizzano da sempre la vita dei suoi abitanti che, insieme all’assetto sparso delle case e delle piccole borgate (ve ne sono diverse, alcune suggestive), hanno forgiato caratteri schivi e un poco “selvatici”, poco inclini a socializzare ma fortemente attaccati alle loro tradizioni, usi e ricorrenze religiose.
    Intelligenti e sorprendentemente attivi, nel secolo scorso potevano far parte di una loro Banda Musicale (alcuni strumenti e spartiti della stessa si trovano gelosamente conservati nei locali della S.O.C.) molto apprezzata nei dintorni e di una pregevole Cantoria Femminile che sopravvive anche ai nostri giorni, esibendosi sia per le ricorrenze festive religiose, sia ai funerali dei compaesani passati a miglior vita.
    Numerose furono anche le vocazioni sacerdotali e monastiche, tra queste, spicca quella di Padre Luigi Risso, detto “Padre Amabile” natio della borgata della “Fraccia”, missionario del PIME al quale è intitolato il Piazzale del paese dove è situata la Chiesa dedicata a SS Maria Bambina.
    Dopo la fine della II^GM e il progressivo abbandono dei campi, per le più (apparentemente) renumerative, attività lavorative presso le acciaierie e raffinerie che erano sorte nei dintorni, da parte dei giovani di allora si introdusse a Valleregia un nuovo tipo di umano: l’operaio che, ben presto, si connotò politicamente come “il comunista”, che si contrappose (ma solo a parole) alla maggioritaria ala cattolica del paese.
    In realtà il carattere dei valleregini non subì variazioni e persino i tanti “foresti” (non originari del luogo) che oggi popolano l’antica Voirè, si adeguano adattandosi anche caratterialmente all’asperità del luogo e, forgiandosi faticatori, diventano anch’essi, schivi, selvatici e poco inclini a socializzare (però nessuno ti sbatte la porta in faccia).
    Chi non ama questo, prima o poi se ne va senza che nessuno se ne accorga.
    Oggi si mantiene ancora viva, oltre all’attività della Società Operaia Cattolica (della quale lo scrivente è socio da svariati anni), volta all’intrattenimento dei giovani e degli anziani, quella dell’Oratorio di San Bernardo che attua le preghiere per i defunti e l’accompagnamento delle Processioni.
    Però i due pregevoli Cristi lignei della confraternita devono essere portati in processione da “cristezanti foresti” perché questa categoria di personaggi si è estinta a Valleregia alla morte del mitico Carlin da Surjella.
    Tra le tradizioni del paese oltre alla Feste religiose con annesse specialità gastronomiche quali: San Bernardo il 20 di agosto, la Natività di SS Maria bambina l’8 di settembre, San Martino (prima Chiesa di Valleregia, sita nell’omonima borgata) a novembre, da dodici anni si organizza una gara di corsa, il primo sabato di Maggio, che ripercorre i sentieri calcati dal fondatore San Claro del quale la Chiesa parrocchiale conserva alcuni resti nell’altare a lui dedicato.

    PERSONAGGI FAMOSI di VALLEREGIA o che transitarono nei suoi luoghi.

    RE LIUTPRANDO



    liutprando



    Re Longobardo successore del padre Ansprando, sul cui trono salì nel 712. Sovrano cattolico, costruttore e restauratore di chiese a Pavia e altrove, fece portare in salvo a Pavia, dalla Sardegna minacciata dai Saraceni, le reliquie di s. Agostino.
    Secondo la storia, tramandata oralmente (non esistono scritti a tal riguardo), durante il viaggio con le reliquie del Santo di Ippona, transitò in Liguria, passando per Valleregia e restandovi per un discreto periodo.
    A tutt’oggi questa storia è raccontata e, a testimonianza di ciò, una delle più antiche borgate di Valleregia è detta “Corte” perché lì avrebbe soggiornato il sovrano con il suo seguito e, per un lungo periodo, il nome di Valleregia è stato Voire.

    PADRE Luigi RISSO – Padre Amabile Missionario del P.I.M.E.*



    jpg



    Nacque a Valleregia, nella borgata della “Fraccia” il 2 dicembre del 1880.
    La sua adolescenza è tutta nel suo paesello dove, fin da subito sviluppa la sua vocazione per la vita religiosa, entrando giovanissimo nel piccolo seminario minore del Chiappeto dove frequentò il ginnasio, indi in quella maggiore per le scuole superiori ove si distinse per pietà, amore allo studio e impegno costante di vita religiosa.
    Arrivò alla licenza liceale e qui dovette decidere se seguire la vita borghese o intraprendere quella ecclesiastica.
    Padre Risso per primo scelse la seconda senza alcun dubbio o timore e lo confidò espressamente al suo Superiore: io voglio essere sacerdote, la licenza (liceale) è una buona carta che può servire in avvenire!
    E Monsignor Righetti constatò nel suo elogio: egli fu un buon profeta.
    Il 17 giugno del 1905 veniva ordinato sacerdote nella Cattedrale di san Lorenzo di Genova e, il giorno seguente, celebrò la sua prima Messa a Valleregia, tra la sua gente festante.
    Dopo diversi incarichi come Parroco in varie località e aiutante nel seminario del Chiappeto decisa di inoltrare domanda per diventare missionario, domanda che fu accettata.
    Superato il corso a Milano, fu destinato in Cina, precisamente presso il Vicariato Apostolico dell’Honan Meridionale misisone di Nanyang, a sud del fiume Giallo, nel cuore della Cina.
    Prima di partire, celebrò la Messa a Valleregia salutando gli amici e la mamma rimasta vedova.
    Ecco cosa racconta Don Risso dal villaggio di Lu – y – hien dove giunse dopo un viaggio durato due mesi:
    la mia casa è di terra battuta, il tetto è di paglia, finestre con vetri di … carta. Dopo aver fatto un bell’inchino per potervi entrare, eccoci nella magione; una camera bislunga divisa, divisa in due da un graticcio di piccoli bambù, su cui, a supplire l’intonaco, furono distesi fogli dell’Eco di Bergamo! Forse l’artista fu un missionario bergamasco.
    Padre Luigi Risso, dopo una lunga vita dedicata all’apostolato in terre lontane, si spense a Rancio (LC) il primo marzo del 1969 all’età di 89 anni.
    Il 2 dicembre 2000, a centoventi anni dalla nascita del sacerdote, l’allora sindaco di Serra Riccò, Tomaso Richini, con cerimonia ufficiale, intitolò il Piazzale antistante la Chiesa: “Piazzale Luigi Risso”; il 5 giugno del 2002 le sue spoglie sono tornate nella natia Voje e dal 20 luglio dello stesso anno, sono sepolte nel locale cimitero.
    * Pontificio Istituto Missioni Estere

    continua
    le foto sono inserite a solo scopo ludico/culturale, NON si intende violare alcun diritto d'autore
    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 6/10/2018, 13:16
     
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    Il genovese e le parlate liguri
    prima parte





    Ho diviso questo argomento in due parti, la prima che ripercorre il cammino delle lingua genovese, con l'aggiunta di un breve prontuario di pronuncia, la seconda riguardante la letteratura e il confronto fra parlate liguri ed altre lingue in due schede apposite.
    Cominciamo a parlare di genovese

    "E tanti sun li Zenoexi / e per lo mondo sì destexi,
    / che und'eli van o stan, / un'atra Zenoa ghe fan".

    Luchetto (tardo XII sec.)



    Il Genovese, per fortuna, é ancora una lingua viva e parlata, nel territorio provinciale, anche se non è facile superare i pregiudizi e i complessi di inferiorità nei confronti dell'Italiano. Il vero problema è la scrittura; basta guardarsi intorno e prestare attenzione alle sporadiche insegne commerciali in Genovese: una babele di segni grafici assortiti con fantasia! Eppure la tradizione scritta della nostra lingua ha almeno 800 anni, non si deve inventare niente.



    “Genovese”, allora, è chi parla il Genovese? Problematico affermarlo nell'evaporare degli antichi linguaggi.
    Probabilmente “genovese” è chi pensa in Genovese. Sapendo che i linguaggi organizzano potentemente il nostro modo di di concettualizzare,i nostri valori e i nostri modelli di comportamento.
    Recuperare il ricordo della nostra parlata - semmai - vuol dire prendere più precisa coscienza di chi siamo e da dove veniamo; per navigare meglio in un mondo dove gli sradicati rischiano costantemente il naufragio.
    Per costruire un mondo in cui l'Universale e il Particolare siano due forze che marciano nella stessa direzione: l'Umanità.

    Un po' di storia

    Il mistero circonda le origini e le caratteristiche dei primi abitatori della Liguria.
    Sappiamo che l'uomo fa la sua comparsa in alcune limitate zone marittime all'estremità delle Riviere già prima dell'ultima glaciazione, quando gran parte dello spazio circostante era ancora inabitabile per l'invasione dei ghiacciai pleistocenici alpini. Gli archeologi ne hanno trovato le tracce nelle caverne dei Balzi Rossi, alla frontiera monegasca e francese. Negli stessi luoghi, durante il Paleolitico Superiore, è stata individuata la presenza di CroMagnon dai tratti negroidi, chiamati appunto di "Grimaldi". Successivamente sono riscontrabili insediamenti neolitici abbastanza diffusi (dal Sassellese a Campomorone), sulle rotte dell'irradiamento agricolo che dal medio Danubio arriva alla penisola Iberica attraversando l'Italia Settentrionale.
    Il livello di conoscenza al riguardo resta - comunque - bassissimo.
    Ma, a partire dall'Età del Ferro, la serie di ritrovamenti ci permette di registrare una realtà ben più consolidata, che si protrae fino alle soglie del primo millennio A. C. Ossia, le tribù che definiamo genericamente Liguri.
    Anche dei Liguri sappiamo ben poco, se non che si tratta di popolazioni precedenti all'arrivo dei cosiddetti indoeuropei, che abitavano un'area sterminata (oltre la Liguria storica, la Gallia, la penisola iberica e parte della penisola italiana fino alla Svizzera).
    Forse si tratta - insieme coi Baschi - dei "primi europei", le tracce del cui irradiamento sono riscontrabili ancora nei toponimi, nei nomi dei luoghi: denominazioni come Entella, Segesta (Sestri Levante) e Eryx (Lerici) si ritrovano tanto in Liguria rome in Sicilia; il suffisso asko/aska (Bogliasco, (Marasco, borzonasca) ritorna, oltre che in I figuri a, anche in Piemonte, I.ombardia, Svizzera, (Corsica, Francia meridionale, Spagna. l'orse il possibile indizio di un'antica unità linguistica.
    Sappiamo anche che queste popolazioni commerciavano l'ambra, proveniente dai mari del Nord. Dunque percorrevano sistematicamente i sentieri che conducono all'Kuropa continentale e da cui proviene - in senso inverso - la prima migrazione indoeuropea verso l'area ligure di cui abbiamo menzione. Denominata appunto - degli "Ambrones".
    L'incontro con i Liguri, quasi certamente pacifico, determina la loro prima, parziale, indoeuropeizzazione. Ne abbiamo riscontro nello stesso etimo di Genova che - al di là delle successive interpretazioni encomiastiche e mitologiche (Janua, da Giano) - richiama la radice indoeuropea sen (mascella), probabile riferimento alla conformazione del golfo ma che ritroviamo anche in Ginevra e Monginevro; nella radice ber (portare) di Porcobera (l'antico torrente Polcevera), "il portatore di salmoni" (?). Nel culto del cigno come animale totemico, che abbiamo già incontrato nella metamorfosi del re Cicno.
    Segnale di un'integrazione senza particolari frizioni e che resta a lungo nella memoria delle genti emerse da questo crogiolo. Lo confermerebbe il racconto di Plutarco: nel primo ingaggio degli scontri durante la battaglia di Aquae Sextiae (102 A.C.), gli ausiliari liguri in forza alle legioni di Caio Mario risposero nello stesso modo al grido di guerra di un gruppo di guerrieri nordici presenti nell'orda dei Cimbri e dei Teutoni: "Ambrones'.
    La successiva ondata migratoria degli indoeuropei - quella dei Celti, ormai in epoca storica - è invece assai meno pacifica. Sotto le pressioni dei Galli a Nord e degli Etruschi a Est, viene materializzandosi la perimetrazione della Liguria, che resterà immutata anche in epoca romana: dal Varo al Magra, estendendosi oltre Appennini fino alle città di Ina (Voghera) e Ubarna.
    Questi i confini entro i quali già i primi mercanti greci massalioti avevano incontrato le genti liguri. E il nome "Liguri" deriverebbe proprio dalla radice lig, fango; probabile riferimento alle zone paludose attorno a Marsiglia.
    Poi arrivano i romani.
    Il processo che portò alla sostituzione dell'idioma ligure preromano con il latino durò secoli e in maniera non uniforme.
    Questo anche per ragioni politiche e militari. Nel corso della seconda guerra punica (221-202 A.C.) le tribù liguri si dividono: i Genuates, legati da tempo da rapporti commerciali con i Greci di Marsiglia e gli Etruschi, trovarono naturale appoggiare Roma mentre la confederazione del Ponente, in lotta contro i Marsigliesi, preferì allearsi con i cartaginesi.
    Anche al termine di questo conflitto si mantenne a lungo uno stato di guerriglia latente, che si può dire terminato solo con l'ultima campagna militare di Roma contro le tribù celto-liguri dei Montani Epanterii, che abitavano le Alpi Marittime, e il trionfo di Augusto, celebrato il 6 A.C. con l'erezione dell'arco alla Turbie. Il Trophaeum Alpium.
    Organizzata amministrativamente nella Regio IX augustea, la Liguria si romanizza pur mantenendo forti tratti originali.
    Ne è conferma evidente la famosa Tavola di Polcevera o Sententia Minuciorum. Questa tavoletta di bronzo di 37,5 centimetri per 47,5 - risalente al 117 A.C. e ritrovata nel 1506 da un contadino a Isola di Serra Ricco - trascrive un arbitrato, emesso dai fratelli Minucio Rufo e ratificato a Roma da un senatoconsulto, relativo alla controversia tra Genuates e le comunità dei Liguri Langenses (il cui etnico è richiamato dall'odierno toponimo Langasco) in materia di proprietà e giurisdizione sulla valle del fiume Porcobera fino agli Appennini, lungo il percorso iniziale della via Postumia. Il dato significativo che emerge dal testo, a quasi un secolo dall'alleanza con Roma, è che i nomi dei luoghi e delle persone restano preromani, seppure latinizzati nella trascrizione.
    Al di là degli utilizzi giuridici e amministrativi, il latino introdotto nell'area è "volgare" o "popolare", mantiene fortissime tracce delle precedenti parlate. Si registrano fenomeni precoci di semplificazione e trasformazione che preludono alla formazione delle lingue romanze: la scomparsa del genere neutro; l'indebolimento della distinzione tra i pronomi ipse e ille che diventano l'articolo lo (da cui il genovese ro, poi ó); la ricostruzione della struttura della frase: dall'ordine soggetto-oggetto-verbo (filius matrem amat) a quello soggetto-verbo-oggetto.
    Dopo la caduta dell'impero romano di Occidente, compaiono nel vocabolario genovese nuovi vocaboli, veicolati dalle invasioni barbariche: gianco, bianco, e mòtto, zolla, sono di origine genericamente germanica; fada, gonna, è probabilmente gotico mentre magun, tristezza, e treuggio, lavatoio, sono longobardi. Come è di origine longobarda il termine italiano "boa", da bauga (anello).
    Particolarmente significativo, in questa trasformazione del lessico, è l'apporto greco (àngeo, angelo; gexa, chiesa; praeve, prete); diretta conseguenza del fatto che - tra il 553 e il 643 - Genova è uno degli avamposti dell'impero bizantino in Italia.
    Quasi un secolo, che termina con la messa in fuga del contingente militare dell'impero d'Oriente a Genova da parte dei longobardi di Rotari.
    La presa e il saccheggio della città, avvenuto nel 643, prelude a un altro saccheggio di tre secoli dopo. Quello ad opera dei saraceni insediati a Frassinetto e della flotta dei Fatimiti magrebini nel 934.
    La storia della lingua e della cultura genovesi moderne ha inizio da queste due catastrofi:
    • il periodo bizantino è determinante per la formazione della coscienza di una Liguria nettamente distinta dal retroterra padano;
    • la reazione conseguente al sacco saraceno e l'incredibile ripresa della città dopo la tragedia - immiserita e tagliata fuori dai traffici che si spostano a oriente verso la Cisa e Luni, la via Francigena - ha il significato di una vera è propria riscoperta del mare.
    Identità ligure e vocazione mediterranea, dunque.
    Ora, costretti a lottare per la sopravvivenza e da soli, i genovesi combattono pro aris et focis, per altari e focolari. Nel 1088 restituiscono ai Fatimiti l'oltraggio ricevuto mettendo a sacco la loro capitale, la tunisina Mahdia.
    Così facendo, scoprono una grande fonte di ricchezza nei bottini che ricavano dalle azioni guerresche. "Ardore patriottico, zelo religioso e avidità predatoria si rinforzano reciprocamente" creando quella vocazione corsara praticata per secoli dagli abitanti della città. Uno spirito che influenzerà la loro stessa partecipazione alle Crociate: non a caso gli arabi distinguevano i loro invasori in "Franchi" e "Genovesi"; i secondi molto meno interessati agli aspetti religiosi dei primi e sempre disponibili a concludere buoni affari anche con gli "infedeli".
    Le nuove ricchezze nate dalla corsa determinano una mutazione della comunità genovese che riscopre la via delle imprese marittime e vuole mettere a profitto in attività commerciali le nuove ricchezze di cui dispone. Imprese che iniziano a dare vita alla rete dei genovesi d'oltremare, facilitate dalla relativa sicurezza nell'area mediterranea a seguito della vittoria sui saraceni.
    Dalla necessità di coordinare le imprese marittime nasce la Compagna., verso la fine del XI secolo prende forma il Comune.
    L'ascesa di Genova nell'area determina la notevole forza attrattiva dei modelli linguistici del centro urbano sull'intero arco rivierasco, con evidenti effetti unificanti. Si possono individuare diverse parlate liguri ma ormai all'interno di una lingua comune, il Genovese; con caratteristiche che si estendono sulla costa da Bergeggi a Moneglia e penetrano all'interno fino al Trebbia. 11 linguaggio registra un fatto politico significativo: l'emergere di una sorta di Stato regionale genovese (conseguente a politiche territoriali avviate già a partire dal 1113, con l'occupazione di Portovenere a spese dei signori di Vezzano), mentre nel resto d'Italia è in affermazione un modello territoriale ben diverso: quello delle città-Stato.
    Sicché lo scarto linguistico esistente tra il Genovese e l'Italiano-Toscano permette di constatare l'elevata specificità di questa parlata, "paragonabile alio scarto che intercorre tra due lingue romanze universalmente considerate autonome, come Catalano e Spagnolo".
    Infatti l'alfabeto genovese presenta significative differenze rispetto a quello italiano, essendo composto di 24 lettere - 19 consonanti e 5 vocali (A B C Ç D E F G H I J L M N O P Q R S T U V X Z) - cui si aggiungono altri tre suoni:
    • il suono di una e estremamente aperta, espresso dal dittongo ae;
    • il dittongo francese eu, anticamente espresso in oe, poi diventato a partire del XVIII secolo oeu fino all'attuale grafia êu;
    • la u lombarda che si esprime con û.
    Anche la grammatica - pur seguendo a grandi linee quella italiana - rivela tratti peculiari che le assicurano una sua caratteristica fisionomia. Ad esempio, nella coniugazione dei verbi il raddoppio del pronome personale alla seconda e alla terza persona del singolare, in tutte le coniugazioni: ti t'ae finïo (hai finito); i nomi propri di persona prendono l'articolo (o Baciccia, a Catainin); non ci sono due denominazioni distinte per distinguere il frutto dall'albero (mei tanto per mele che per meli)… Particolarmente interessante l'analisi etimologica, grazie alla quale - come vedremo anche in seguito - sono riconoscibili ibridazioni all'opera fin da epoche primordiali.
    E che consentono le più spericolate congetture: il toponimo "Acquasola" deriverebbe da Akka, poi romanizzata in Acca-Solis, la divinità della fertilità a cui era dedicato un centro di culto situato su quella collina? Il tipico intercalare belin originerebbe a sua volta dal culto del dio semita Baal, diffuso nella costa europea occidentale del Mediterraneo, poi accolto nel pantheon capitolino come Juppiter Baalinus (e rappresentato dotato di un grande fallo)?
    La formazione del ligure romanzo si protrasse nei secoli senza soluzione di continuità. Solo durante il XII secolo, con i primi documenti definibili come "volgari" a tutti gli effetti, possiamo affermare l'avvenuto abbandono del latino nell'uso parlato. Una delle prime conferme è rappresentata dal testamento di tale Raimondo Pictenado, databile attorno al 1156 e in cui le espressioni in volgare evidenziano già una loro autonomia.
    La lingua latina continua - naturalmente - a essere utilizzata negli atti notarili come nelle cronache. Gli Annales Ianuenses che, a partire da Caffaro da Caschiofellone (abile politico, ambasciatore presso il Barbarossa, più volte console e capitano di flotta contro pisani e saraceni), documentano il percorso di una comunità avviata verso la preminenza. In sequenza: Caffaro, che riporta le vicende dal 1100 al 1163, Oberto Cancelliere quelle dal 1163 al 1173, Ottobono dal 1174 al 1196, Ogerio Pane dal 1197 al 1219 e Marchiso dal 1220 al 1224.
    Ma nel latino di questi testi si riscontra il peso sempre crescente assunto dal volgare; sotto forma di adeguamenti alla fonetica genovese (Lumbardia per Lombardia), sostituzione del genitivo con la particella de (Caffaro: Consules de comuni), inserimenti lessicali tratti dal linguaggio quotidiano (caravan per compagnie portuali, darsana per darsena, Muneia per Moneglia).
    Alla fine del XII secolo, con Luchetto Genovese, compaiono le prime opere letterarie espressione della lingua parlata. Una parlata che - ovviamente - mantiene ancora caratteri galloitalici come gli altri volgari della penisola, ma in un contesto di grande dinamismo.
    Ad esempio il passaggio della û a ü (come düu per duro e lüze per luce) e la trasformazione del - ct - latino in - it - come in fáìtu (faetu, fatto) o láite (læte, latte).
    L'identità genovese - dunque - si esprime non attraverso un semplice dialetto ("sottoprodotto linguistico di un sistema dominante"), bensì grazie a un vero e proprio idioma ("linguaggio di una comunità").
    Una lingua romanza, come altre fiorite sul ceppo latino. Un idioma mediterraneo: il volgare ligure della Natio genovese.



    Lingua romanza e idioma mediterraneo

    La Natio genovese è solo in parte territoriale, ossia limitata allo spazio ligure metropolitano. In larga misura si sviluppa e diffonde nelle forme della rete e copre l'intero mediterraneo, con propaggini atlantiche.
    La formazione di questo sistema - che oggi definiremmo network - coincide con l'avventura coloniale. L'impresa, iniziata con la Prima Crociata, concorre fortemente a forgiare la comune identità e utilizza la parlata come essenziale riproduttore di appartenenza.
    Anche perché coinvolge l'intera Liguria. Infatti, se nel suo punto di espansione demografica quattrocentesca Genova non supera gli 80-100mila abitanti, una presenza che riesce a espandersi da Pera a Caffa, da Siviglia a Lisbona, da Anversa a Londra, deve necessariamente coinvolgere gli abitanti dell'intera regione. Ed infatti gli storici hanno evidenziato come, in questa diaspora, i rivieraschi e i liguri dell'Oltregiogo fossero numerosi almeno quanto gli emigrati dalla Città.
    Un grandissimo storico francese del Novecento, Fernand Braudel, ha impiegato al riguardo l'espressione "impero fenicio dei genovesi".
    Lo ha fatto perché, nel momento in cui componeva le sue opere, il pensiero sociologico non aveva ancora molta dimestichezza con i paradigmi "reticolari". Ma "impero" richiama la dimensione territoriale, il network - al contrario - le dinamiche dei flussi. E l'impero fenicio genovese è organizzazione a distanza degli scambi e dei movimenti delle merci. In altre parole, "Capitalismo".
    Agli albori della modernità - mentre è in atto l'aspra contesa tra le città e i regni per il dominio territoriale - due esperimenti perseguono questo paradigma alternativo: la Lega Anseatica nel Baltico; il Commonwealth che, dalla maglia centrale rappresentata dalla città di Genova, connette le coste africane e il Medio Oriente fino al Mar Nero per poi volgersi verso Occidente.
    Il processo nella fase iniziale - dunque - privilegia l'Oriente, anche se il vettore orientato in direzione della penisola iberica è altrettanto precocissimo (i contatti di Genova con Alfonso IV re di Castiglia risalgono al 1092 e hanno come oggetto l'alleanza per sottrarre ai Mori la città di Valencia. Anche questa un'altra vicenda dal grande significato identitario: la formazione della coscienza spagnola, che proprio in quegli anni si incarna nell'epopea legata al nome di Diego de Bibar, detto el Cid).
    In ogni caso, l'intera vicenda può essere fatta risalire alla lettera indirizzata ai genovesi da papa Urbano II nel 1096, allo scopo di esortarne la partecipazione alla guerra contro gli Infedeli per la liberazione della Terrasanta.
    A seguito di un invito così autorevole, nel luglio dell'anno seguente salpa il contingente guidato dai fratelli Embriaci e che si distinguerà nella presa del porto di Antiochia. Qui avviene il fatto decisivo: i baroni franchi - secondo la mentalità feudale imperante - perseguono l'acquisizione di proprietà terriere; i genovesi - con straordinaria modernità di vedute - chiedono e ottengono concessioni commerciali. Uno dei più grandi studiosi della nostra Storia Patria, Roberto Severino Lopez, metterà a confronto queste logiche - tanto dissimili, pur nella comune partecipazione al fatto d'armi - dicendo che proprio in quel momento "all'Iliade dei baroni si sovrapponeva l'Odissea dei mercanti".
    Guglielmo Embriaco farà ritorno in madre patria avendo ricevuto la donazione da parte di Boemondo, nuovo principe di Antiochia, della chiesa di San Giovanni e la piazza antistante, trenta case e un pozzo. In particolare, un fondaco per mercature e l'esenzione perpetua da ogni imposta: il primo nodo di un'architettura reticolare che sarà tessuta nei secoli a venire.
    E da qui che parte l'irradiamento ligure. Come si diceva il baricentro è prevalentemente - e per quasi mezzo millennio - a Oriente (Caffa, che non si peritava di definirsi "la seconda Costantinopoli", è perduta nel 1475 e Chio nel 1566). L'avanzata turca e tartara, che blocca le antiche vie commerciali, sposterà necessariamente questo baricentro dall'altro lato del Mediterraneo.
    E sarà el Syglo de los Genoveses, i banchieri di Carlo V e Filippo II che incamerano l'oro spagnolo, giunto a Siviglia proveniente dalle Nuove Indie, e lo trasformano in soldo per gli eserciti imperiali acquartierati in Fiandra attraverso il meccanismo delle lettere di credito. Come scriverà il poeta spagnolo Felipe de Quevedo, Don Dinero troverà sepoltura in Genova, negli stupendi palazzi dei suoi mercanti/finanzieri (nasce en las Indias honrado / donde el mundo le acompaña / vien a morir en España / y es en Genova enterrado).
    Ha certamente ragione Edoardo Grendi quando afferma che II Secolo dei Genovesi (grosso modo tra il 1550 e il 1627) "è il ruolo strepitoso di una trentina di uomini di negozio straordinariamente brillanti e sofisticati nella mobilitazione del credito su scala europea.
    'E certamente - scrive Braudel - il più curioso esempio di polarizzazione e di concentrazione che abbia offerto finora la storia dell'economia-mondo europea, in quanto ruota attorno a un punto pressoché inesistente' - non Genova, ma appunto un pugno di banchieri-finanzieri". Certo, l'individualismo tenace che caratterizza l'intera storia della comunità genovese trova in questa vicenda quasi il suo paradigma. Ma è anche momento accelerativo di un millenario irradiamento. Già nel 1503 l'ambasciatore della repubblica di Venezia in Francia riferiva che "un terzo di Genova viveva in Spagna", dal momento che era a conoscenza di almeno 300 case commerciali stabilite nella penisola. Ciò che l'ambasciatore non sapeva è che innumerevoli altri liguri erano ormai intimamente mescolati con spagnoli e portoghesi, avendo ispanizzato il proprio cognome. E non tutti erano banchieri o mercanti.
    Il Genovese diventa così una lingua franca e commerciale a larghissima diffusione. C'è un episodio curioso che lo dimostra: quando Vasco de Gama sbarca a Calicut nel 1494, può comunicare con le autorità locali grazie a "dois moros de Tunes che sabiem falar castelhano e genoves", due tunisini che fungevano da interpreti parlando oltre che il catalano anche il genovese.
    Perché questa lingua è conosciuta nell'area iberica già da molto tempo. Fin dal XIV secolo il primo cronista portoghese, Fernao Lopes, segnala - infatti - la presenza a Lisbona di insediamenti commerciali genovesi. Alla fine del XV i nostri mercanti formano ormai una prospera colonia.
    Fra l'altro, è noto come Cristoforo Colombo sia arrivato in Portogallo al servizio dei Centurione, degli Spinola e dei Negro, tutti mercanti genovesi. Alcuni di costoro si trasferiranno successivamente e stabilmente dall'altra parte dell'Atlantico, in Brasile. Ma la maggior parte di loro si indirizzerà verso l'Andalusia, seguendo l'avanzata della riconquista. Alcuni sceglieranno le terre cristiane, altri quelle mussulmane; sempre e solo in cerca di affari.
    Tutte le merci valgono a tale scopo: zucchero, cereali, cordami, rame e piombo. Soprattutto oro. Quell'oro che - in un primo momento - arriva in Spagna dal Sudan attraverso il Magreb, poi dalle Americhe. Nella seconda metà del Cinquecento il massimo addensamento delle reti commerciali genovesi è nella penisola iberica. Ma i reticoli intrecciati dai mercanti/finanzieri liguri avvolgono l'Europa intera. Dalle fiere di Besançon alla Germania dei banchieri Fugger (in collaborazione coi quali corrompono gli elettori palatini per determinare l'elezione del giovane Asburgo, poi Carlo V).
    L'irradiamento e la conseguente diaspora, sulle linee tracciate da questa vocazione per il commercio a lunga distanza, dà vita a una vera e propria comunità cosmopolita genovese. Che fonda ripetutamente "atra Zenoa"; quelle colonie cantate da Luchetto, crogiolo di genti diverse omogeneizzate dall'elemento genovese.
    Dunque, anche dalla lingua.
    Precoci sono gli esempi di documenti bilingui, come - ad esempio - gli atti redatti a Tunisi nel 1288 da Pietro di Battifoglio. Visitatori stranieri rilevavano il forte radicamento del Genovese nell'isola di Scio, possedimento dei Giustiniani dal 1346 al 1566.
    I traffici e le relazioni lasciano tracce evidenti nel vocabolario ligure. Agli influssi greci si è già fatto riferimento indiretto ricordando il periodo bizantino (è probabile che un suo lascito vada individuato nella parola mandillu, per "fazzoletto", che deriva dal tardo greco matélion, attestato nel medioevo sotto la forma mandili).
    Vanno certamente menzionati i retaggi ebraici (a Genova è presente un'importante comunità già a partire dall'età di Teodorico, di cui il re protesse il culto e le proprietà), riscontrabili in termini come pasqua e sabbo, per sabato. D'altra parte, la storia spiega facilmente la consistenza quantitativa della presenza degli arabismi lessicali: darsena (dar as-sina'a, "casa delle costruzioni"), camallo (hammâl, portatore), azimut, astrulab per "astrolabio"; la metonimia (ossia, la figura retorica che usa "la parte" per "il tutto") secondo cui la barca anticamente prendeva il nome di "legno", ci riporta al vocabolo arabo al'ud (da cui l'etimologia di "leudo", tipica imbarcazione ligure); da maunah, "assistenza", deriverà il termine "maona" con cui si definiscono le antiche joint-venture (le compagnie commerciali e militari, temporanee e pattizie, grazie alle quali i privati cittadini affrontano le più difficili imprese dell'epoca).
    Una lunga evoluzione del linguaggio che parla di prestiti che diventano doni, scambi e usucapioni. Nei due sensi.
    L'espressione "maona", rilevata a Messina fino al '500, è sconosciuta nella Sicilia occidentale assai più arabizzata; segno che non è stata mutuata dall'arabo ma è un'eredità di lunghe frequentazioni coi genovesi. Negli statuti comunali di Sassari e Cagliari troviamo parole come rumenta o lantora (per "allora"), spie di un'evidente influenza linguistica. Rumenta per "spazzatura" è in uso ancora oggi nel dialetto bergamasco. Ma qui il collegamento risulta molto facile: è noto - infatti - il precocissimo flusso di lombardi verso Genova e il loro costituirsi in colonia già a partire dal XIII secolo. L'insediamento lombardo avrà nel 1266 un proprio console, Giovanni dé Gargani da Bergamo. Risale al 1340 il primo Statuto di quella "Compagnia dei Caravana" (dall'arabo caravan, "viaggio") cui le autorità locali, sotto l'alta protezione del Banco di San Giorgio, concedevano il privilegio di operare in regime di monopolio nel "porto franco" e che era composta esclusivamente da lavoratori provenienti dalla Val Brembana e dalla Val Seriana. La Compagnia, attiva sino ai nostri giorni, mantenne l'esclusività di provenienza dei soci (che mandavano le mogli a partorire nei comuni d'origine per poter trasmettere il privilegio anche ai propri figli) sino al 1848.
    A Genova si definisce besugo una persona addormentata e un po' sciocca, ma "besugo" è anche la denominazione iberica del pagaro d'altura (la cui espressione non è propriamente furba), piatto nazionale spagnolo. Biscöchinn-a (per qualcosa fatta "alla carlona", malamente) deriva con grande probabilità da un verbo arcaico del Midi: "bisquayer", incoccare male la freccia. Come "bò e tribò" sono la versione ligure del francese "babord' (lato sinistro della nave o semplicemente "sinistra") e "tribord" (lato di "dritta"). Del resto, notevoli sono le assonanze riscontrabili con l'area occitana (che si estende tra il golfo di Biscaglia e quello del Leone, tra le Alpi e i Pirenei); non solo per la vicinanza geografica, soprattutto per le intensissime frequentazioni marittimo-commerciali: "acqua" diventa in genovese àigua, in provenzale aiga e in catalano aygua; l'erica, vegetazione tipica della macchia mediterranea, in genovese è brügu, bruc in provenzale e bruga in catalano.
    Una interdipendenza linguistica che prosegue fin quasi in età contemporanea. Manuali inglesi dei primi del '900 segnalano come i loro marinai (insieme agli olandesi, danesi e portoghesi) utilizzassero una sorta di gergo franco denominato "savvy", la cui matrice veniva indicata nel genovese. D'altro canto i nostri vecchi portuali chiamavano "bestia" (da best) il primo rimorchiatore della flotta; "per mezzo dei ganci" in inglese si dice by books e si pronuncia baiuks, da qui "bailùcchi″ termine usato dai portuali fino all'avvento dei container; gang diventa "ghèn", squadra; "fâ tambelocche", fare un capitombolo, costituisce la versione omofona di to tumble.
    In questa rapida elencazione - come è facile vedere - l'elemento "marino" ritorna con notevole frequenza. In prevalenza. Dunque, il Genovese come "lingua mediterranea"?
    Certo non nel senso che presupporrebbe l'esistenza di una "lingua-madre" quale matrice di parlate che ne derivano direttamente.
    Magari alla maniera del latino nei confronti delle lingue "romanze" o del presunto indoeuropeo (all'interno del cui "paradigma" da due secoli risolviamo i problemi linguistici delle affinità tra idiomi geograficamente lontanissimi). Magari una sorta di "sumeroaccadico" dei popoli del mari. La koiné mesopotamica che ora qualche straordinario irregolare della linguistica individua come "madre di tutte le lingue" (ma certe etimologie ci sorprendono e sconcertano: i primi indoeuropei vengono denominati "kurgani" per via delle loro tombe collinari; ma in sumero kur significa "altura" e ganunu "luogo di abitazione").
    Niente di tutto ciò. Semmai un immenso, millenario, lavoro di sedimentazione che Claudio Magris, in una pagina stupenda della sua prefazione al breviario "Mediterraneo" del russo-croato Predrag Matvejevic, così descrive: "il mondo, la realtà, i gesti e il vociare delle persone, lo stile delle capitanerie, l'indefinibile trapassare della natura nella storia e nell'arte, il prolungarsi della forma delle coste nelle forme dell'architettura, i confini tracciati dalla cultura dell'ulivo, dall'espandersi di una religione o dalla migrazione delle anguille, i destini e le storie custodite nei dizionari nautici e nelle lingue scomparse, il linguaggio delle onde e dei moli, i gerghi e le paliate che mutano impercettibilmente nello spazio e nel tempo, chiacchiera, ciacola e cakula; scirocco, silok e siroko; neve, nevera e neverin; barca, barcon, barcosa, barcusius, bragoc”
    Nella storia immobile di questo mare "tra montagne", in cui il tempo geografico si incontra e sovrappone al tempo sociale e a quello individuale, la parlata mediterranea è - per dirla musicalmente - il "basso continuo" di assonanze ed etimologie, sonorità e cadenze che si intrecciano dando vita a un ordito che l'orecchio percepisce come inconfondibile.
    Il risultato di incontri, dunque contaminazioni ininterrotte. Lungo piste marine senza confini, inseguendo i traffici dell'ambra o le peregrinazioni degli ebrei sefarditi, i linguaggi si sono succeduti e parole appartenute alle lingue scomparse si ritrovano in quelle vive.
    Il Genovese è certamente un rifugio offerto alla sopravvivenza di retaggi millenari. Quasi la declinazione di una metalingua. Contenitore delle tracce di epopee antichissime, che a Genova si riprodurranno ancora una volta nell'Ottocento, con l'oceanizzazione della sua flotta mercantile adibita al trasporto degli emigranti. I primi sbarchi avverranno nelle terre bagnate dal Rio della Piata.
    Un poeta-cantore dei nostri giorni, Fabrizio De André, catturerà questa metalingua - incomprensibile come un "gramelot" di Dario Fo, eppure riconoscibile - nel suo disco forse più bello: Creuza de ma.



    Il filo dell'appartenenza

    Già abbiamo ricordato le esplorazioni delle coste latinoamericane nella prima metà del '500, caratterizzate da una consistente presenza di liguri. Tre secoli dopo inizia a scorrere una fiumana di donne e uomini con destinazione Rio de la Piata (solo ora le scienze sociali iniziano a capire che i flussi migratori sono altamente strutturati; e che lo erano anche in passato). Ancora una volta l'elemento regionale è prevalente, riscontrabile negli stessi cognomi di quegli emigranti: Carrega, Bertora, Cichero, Caffarena, Baglietto, Dallorso, Tassara, Lavarello, Maggiolo, Craviotto…
    Grosso modo, tra il 1850 e il 1915, sono novantamila gli immigrati liguri in Argentina. Non a caso - attualmente - ci sono più Sanguineo nell'elenco telefonico di Buenos Aires che in quello di Genova.
    Punto di raccolta di queste derive attraverso l'Atlantico è la Boca del Riachuelo de los navios, diventato poi un quartiere di Buenos Aires con la semplice denominazione di "Boca". Le sue vicende non sono del tutto note, in particolare la creazione di una "Repubblica della Boca", indipendente dal resto della nazione Argentina, proclamata dalla popolazione di origine ligure. Certa - invece - è la testarda difesa da parte di quella comunità delle proprie radici identitarie, già dal nome che attribuiscono al loro quartiere: Genova chica.
    Altrettanto nota è la forte spinta all'associazionismo (probabile conseguenza del fatto che le ragioni dell'emigrazione erano "politiche" in moltissimi casi di ex carbonari, poi mazziniani, e dipendevano dalla necessità di sottrarsi alle repressioni successive ai moti rivoluzionari scoppiati in madre patria tra gli anni 1821-1831 e 1833-1847). Già nel 1885 viene fondata la Società Ligure, cui fece seguito un florilegio di circoli e periodici che coltivavano l'antica parlata. Nei primi del Novecento "La Famiglia Zeneize" stampava la testata O Balilla - L'organetto di Zeneixi in Genovese ed esibiva lo stesso stendardo della "Compagna", croce di Genova con l'effigie di San Giorgio.
    In questa fucina si forgia la cosiddetta "cultura bochense" che vede i genovesi e i liguri partecipare attivamente alla vita culturale della nuova patria (tra l'altro si chiama Juan Filiberti il musicista che negli anni Venti compone il tango - forse - internazionalmente più famoso, Caminito). Si genovesizza il quotidiano, cibo compreso.
    L'effetto di tali apporti si nota perfino sulla mensa criolla, ibridata di gastronomia genovese (o meglio, recchese). In spacci divenuti famosi come "il Priano", "du Gustavin" (Angelo Gustavino) o "Rancho Banchero", si cucina la focaccia al formaggio di Recco, la cui uscita dal forno è attesa da un largo pubblico di liguri e non.
    Un successo alimentare che - tra l'altro - conterrà anche in epoca recentissima l'espansione internazionale della pizza napoletana in terra argentina.
    Tradizione alimentare che si intreccia col canto nei cori bochensi che, per oltre un secolo, intonano i versi di "Capitan Remescia":

    " Vegia Buca mi te cantu in questu dialectu ceu
    e cun parole de incantu, sti versi te chàntu"

    .
    Il canto come ricordo ed affermazione nostalgica delle proprie "radici".
    Il canto - e la musica in genere - quale elemento fondamentale della natura e delle modalità comunicative della cultura genovese, già attestato in epoche remote (lo si è già detto parlando di miti e lemmi delle Grecia classica).
    La sintesi popolare più nota di questo intreccio emozionale è proprio una canzone. Di origini incerte (forse di autori anonimi, forse composta da Mario Cappello su musica del maestro Margutti), Ma se ghe pensu esprime perfettamente la nostalgia e - al tempo stesso - lo spirito di appartenenza del ligure in terra lontana. Il vero inno alla nostalgia:

    "U l'èa partiu sema 'na palanca,
    èa za trent'anni, forse anche ciy.
    U l'aja lutòu pe mette i dinæ aa banca
    e puéisene in giurnu vegnî in zy
    e fase a palasinn-a e u giardinettu,
    cuu ranpicante cua cantinn-a e u vin,
    a branda atacaa ai èrbui à yzu lettu,
    pe daghe 'na schenaa seja e matin.
    Ma u figgiu u ghe dixêa: "Nu ghe pensâ
    a Zena cose ti ghe vœ turnâ?!"
    Ma se ghe pensu alûa mi veddu u ma,
    veddu i ma munti e a ciassa d'Anunsiaa,
    riveddu u Righi e me s'astrenze u cœ,
    veddu a lanterna, a cava, lazý u mœ,
    riveddu a seja Zena ilyminaa,
    veddu la a fuxe e sentu franze u mâ
    e alûa mi pensu ancun de riturnâ
    à pösâ e osse duv'ho ma madunaa.
    E l'êa pasòu d'u tenpu, forse troppu,
    u figgiu u l'inscistéiva: "Stemmu ben,
    duve t'œ anâ, papà, pensiêmu doppu,
    u viâgiu, u mâ, t'ee vegiu, nu cunven!"
    "Oh nu, oh nu me sentu ancun in ganba,
    sun styffu nu ne possu pròppiu ciy,
    sun stancu de sentî señor caramba,
    mi vœggiu riturnâmene ancu'in zi:
    ti t'ee nasciyu e t'æ parlòu spagnollu,
    mi sun nasciyu zeneize, e nu me mollu!"
    Ma se ghe pensu alûa mi veddu u ma,
    veddu i ma munti e a ciassa d'Anunsiaa,
    riveddu u Righi e me s'astrenze u cœ,
    veddu a lanterna, a cava, lazý u mœ,
    riveddu a seja Zena ilyminaa,
    veddu la a fuxe e sentu franze u mâ
    e alûa mi pensu ancun de riturnâ
    à pösâ e osse duv'ho ma madunaa.
    E sensa tante cose u l'è partîu
    e à Zena u g'ha furmòu turna u so nîu. "


    Tutto è racchiuso in quel verso: "mi sun nasciyu zeneize, e nu me mollu!", sono nato genovese e non intendo rinunciarvi!



    Oltre l'Argentina, la presenza nelle Americhe di famiglie liguri è sempre stata molto consistente; e continua a esserlo: associazioni di appartenenti a queste comunità in Brasile sono segnalate a San Paolo e a Porto Alegre; un flusso proveniente dal Tigullio si indirizzò nell'Ottocento verso il Perù; per quanto riguarda il Cile, Valparaiso è sede dell'associazione nazionale dei liguri e gruppi provenienti da Bogliasco, Sori e Recco si sono stabiliti ad Antofagasta, Conception e Temuco. I savonesi presero la direzione dell'Uruguay e della California.
    Molto interessante (e meno noto) il flusso ligure verso l'America del Nord. Intorno alla metà dell'Ottocento i primi nuclei italiani dell'Est degli Stati Uniti (New York, Boston, Filadelfia e Chicago) erano costituiti prevalentemente da immigrati liguri. Presto attratti, all'epoca della "corsa dell'oro", dalla parte occidentale del continente.
    Le cifre del fenomeno non sono conosciute, eppure si può arguire fossero molto consistenti: da un elenco di centodiciotto sudditi del re di Sardegna domiciliati a San Francisco, inviato a Torino il 31 gennaio 1853 dal primo console sardo, risulta che almeno trentanove erano di sicura provenienza genovese. Nel 1900, quando in California vivevano ventimila persone di origine italiana, Carlo Dondero (nativo di Cicagna, tipografo, giornalista e storico) riferiva che la metà aveva discendenza ligure. Non a caso, nel gergo "italocaliforniano" ancora oggi gli addetti alla raccolta dei rifiuti vengono chiamati "rumentai"".
    Queste comunità conobbero sovente un rapido successo economico e la conseguente ascesa sociale, senza per questo smarrire il ricordo della propria provenienza. Nel 1904 nasce in California ad opera degli italiani trapiantati in quello Stato - un piccolo istituto bancario che poi, nel 1930, diventerà niente meno che la colossale Bank of America. Ma il suo nome iniziale era Bank of Italy, con un consiglio direttivo formato prevalentemente da genovesi (Levaggi, Grondona, Chighizola e Demartini).
    Anche per questo, lungo buona parte del Novecento, il filo dell'appartenenza viene costantemente ritessuto da artisti zeneizi (grandi attori come Gilberto Govi, cantanti come Antonio Marzari) grazie alle loro touné oltreoceano. Le loro "visite pastorali" ad atra Zenoa.
    La parola incontra così nella canzone - dunque, nella musica un potente supporto per la riaffermazione delle radici.
    La musica genovese.
    Ma a Genova la musica "alta" non trova espressioni particolarmente significative.
    Nicolò Paganini a parte, naturalmente (ma, come si diceva, "una rondine non fa primavera"…).
    Città intimamente commerciale, a lungo preferisce importare talenti "da fuori". Da Franchino Gaffurio ad Alessandro Stradella.
    Ben più interessante - invece - la tradizione popolare e folklorica; sia nelle forme del Trallallero che del canto monovocalico.
    Guardati con sospetto dalle autorità in quanto ritenuti fomentatori di disordini e di probabile origine liturgica, i Trallallerì sono canti a cinque voci: falsetto (cuntrètu), tenore (primmu), chitarra (imitazione vocale dello strumento), baritono (cuntrubassu) e basso.
    Luogo deputato a questa forma di canto è l'osteria; dove "i canterini" che vi si riuniscono sono lavoratori provenienti dal vicino entroterra (per lo più, Val Polcevera e Val Bisagno).
    Per quanto riguarda il canto monovocale genovese, un suo aspetto ci sembra particolarmente significativo: è in prevalenza femminile.
    Quasi il segno di una sorta di "matriarcato per necessità".
    Infatti, nella caratteristica ripartizione locale dei ruoli familiari (in cui la componente maschile di frequente latitava, allontanata da commerci e navigazioni) spettava alle donne l'amministrazione della casa e l'educazione dei figli. Per questo le canzoni pervenuteci sono sovente ninne-nanne: "fa a nanà puppun de pessa / che to mue a l'è andèta a messa.
    Ma l'esempio più noto, "Lanterna. de Zena", parla soprattutto di fatica e lavoro:

    “Lamterna de Zena a l'è fêta a trei canti
    Maria cui guanti
    Lascela passa.
    A tr'oue de notte che tutti l'han vista
    ha fava pruvista”.


    Forse la nostra Maria, alle tre di notte, andava a vendere minestrone ai marinai dei velieri ormeggiati in porto…
    Sia nella forma corale che in quella individuale, il canto genovese affonda le proprie radici nella civiltà materiale del territorio e del tempo.
    Attraverso il canto si difende la propria identità a rischio. E la propria dignità: di donna, di abitanti periferici che praticano il pendolarismo tra le valli e la città con grande fierezza.
    A quest'ultimo proposito, resiste il ricordo delle rivalità tra le varie squadre di "canterini di Trallallero", che non di rado sfociavano in vere e proprie contese musicali (le cui giurie erano costituite da non vedenti per evitare favoritismi).
    Rivendicazioni, nostalgia, difesa della propria dignità. Nel canto popolare genovese c'è ben poco spazio per il "grazioso". In assoluta coerenza con un linguaggio che, specchio fedele del proprio spirito, ignora il vezzeggiativo.
    Ma anche segno di un'oppressione esercitata sugli strati sociali subalterni, la cui cultura sopravvive soltanto nelle sempre più fioche tradizioni orali; nel recupero (parziale e sempre a proprio uso e consumo) fattone da parte dei ceti dominanti, normalizzandone la "carica" polemica.



    Da: La lingua ritrovata nella canzone di Pellizzetti Pierfranco

    Regole per leggere il Genovese

    Gli esempi sono riportati in due forme: con la grafia tradizionale (in carattere corsivo), e con la grafia figurata (fra parentesi quadra) per avvicinare - chi non conosce il Genovese - alla pronuncia corretta.
    Il suono delle vocali
    - è lungo, quando sono scritte con la dièresi (ä,ë,ï,ö,ü) o con l'accento circonflesso (â,ê,î,ô,û), per esempio: cäo [kāu] "caro"; durmî [durmī] "dormire";
    - è lungo, quando sono seguite da gh, r, v, x, z semplici e non raddoppiate, per esempio: lago [lāgu] "lago"; caro [kāru] "carro";

    Il suono della e è generalmente chiuso, tranne davanti a r; ma se è segnata con l'accento grave (è), il suono è aperto, per esempio: pènsighe [pènsighe] "pensaci".
    La consonante doppia si pronuncia in modo leggero e rapido, mai calcato, per esempio ratto [ratu] "topo", merelli [mereli] "fragole", gimmo [çima] "cima".

    Attenzione:
    æ si legge come e dal suono aperto e lungo, esempio: ægua [egua] "acqua"; quando si trova alla fine della parola, si legge accentato, per esempio: anse "andæ";

    œu e eu si leggono come in Francese, per esempio: feugo [fögu] "fuoco", cœu [kò] "cuore"; quando si trovano alla fine della parola, si leggono accentati, per esempio: raieu [raiö] "ravioli";

    o si legge come u italiana, per esempio: onda [unda] "onda", amigo [amigu] "amico";

    ö si legge come o italiana e si pronuncia con suono aperto; ò ha un suono lungo che oscilla tra o e u, per esempio: pöso [posu] "stantio", ma anche: pöso [pusu] "polso".

    u si legge come u francese, per esempio: mùxica [müsgica] "musica", tutto [tütu] "tutto"; ma si legge come u italiana quando fa parte di un dittongo [ou, ua], esempio: portòu [purtóu] "portato", sguäro [sguaru] "fenditura";

    ç si legge come s sorda italiana, per esempio: çenn-a [sén-a] "cena";

    nn- e n finale si leggono con suono nasale; per esempio: lunn-a [lün-a] "luna", can [kan] "cane";

    s si legge come s sorda nell'italiano "sale", per esempio: fäso [fāsu] "falso";

    scc si legge come se di "uscio" seguita da c di "ciao", per esempio: scciavo [scciavu] "schiavo";

    x.si legge come j francese, per esempio: baxo [basgiu] "bacio";

    z si legge sempre come s sonora nell'italiano "casa", per esempio: zenoggio [senùgiu] "ginocchio", cazze [kase] "cadere".

    Di: Massimo Angelini e Fiorenzo Toso.


    Fotografie provenienti dall'archivio della Provincia di Genova
    le foto sono inserite a solo scopo ludico/culturale, NON si intende violare alcun diritto d'autore

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    Il genovese e le parlate liguri
    seconda parte



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    La letteratura in genovese: il Medio Evo.

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    La letteratura in genovese riflette ampiamente, attraverso i secoli, il prestigio culturale detenuto dall'idioma: è infatti, a differenza delle letterature dialettali intese in senso tradizionale, caratterizzata da elementi di unità, continuità e autonomia evolutiva rispetto alla letteratura in italiano, dalla quale pure è stata ampiamente influenzata e rispetto alla quale, ovviamente, ha avuto minore sviluppo. Inoltre, attraverso i secoli, in genovese sono stati espressi i temi più diversi della letteratura colta, a differenza della produzione scritta di tipo dialettale, che ha sempre privilegiato aspetti comici, satirici, macchiettistici e nostalgici, pur presenti, del resto, anche in genovese.

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    Dopo la fase formativa, con i documenti para-letterari della fine del sec. XII, il primo significativo autore in genovese è Luchetto, vissuto a cavallo del Duecento e del Trecento, autore di rime di contenuto religioso, morale, politico e patriottico, che celebrano in particolare le vittorie sui Veneziani e la fase di grande espansione politicoeconomica della Repubblica, censurando peraltro la divisione in fazioni e le lotte intestine.
    Nel Trecento, quando il genovese comincia ad essere usato per gli atti politici e le relazioni internazionali, inizia l'influsso toscano attraverso le anonime Laudi di carattere religioso; le grandi scuole di traduttori, alle quali appartengono autori come Gerolamo da Bavari (autore del Tratao de li VII peccai mortai), Luca Paterio e Antonio de Regibus, diffondono in Liguria opere di devozione rielaborate a partire da originali latini, francesi, toscani e catalani: è l'epoca in cui si sviluppa anche una narrativa in prosa, poco originale ma destinata a godere di grande popolarità.
    Col Quattrocento, in seguito anche alla decadenza politica della Repubblica e al succedersi delle dominazioni straniere, l'influsso culturale e linguistico toscano si fa più massiccio, e le opere in poesia o in prosa, come la Vita di Santa Elisabetta del savonese Alerame Traversagni, finiscono per risentirne.
    Gli umanisti genovesi, come Andrea Bulgaro e lo stesso Iacopo Bracelli, utilizzano il volgare in poesie a carattere giocoso, mentre le cancellerie del Comune ne promuovono l'utilizzo a livello ufficiale attraverso la trascrizione di atti pubblici e discorsi politici.

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    Dal Cinque al Settecento

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    Di fronte al progredire dell'influsso toscano si avverte l'esigenza di una depurazione del genovese scritto, che, in consonanza con il dibattito europeo sul tema della valorizzazione delle lingue volgari, porta verso la metà del Cinquecento a una profonda riforma delle consuetudini scrittone, successivamente ai rivolgimenti istituzionali del 1528 che segnano l'esigenza di una ridefinizione simbolica dei caratteri culturali dello stato regionale.
    Anche in risposta a una polemica promossa da intellettuali italiani che sostengono la rozzezza e la scarsa letterarietà del genovese rispetto ad altri idiomi, autori come Paolo Foglietta, Barnaba Casero, Benedetto Schenone affrontano i temi della lirica amorosa e dell'invettiva politica, dell'encomio e della satira, utilizzando i metri della poesia italiana alla quale si WMiBmmi*, rifanno, polemicamente, per dimostrare le possibilità espressive del loro idioma. Foglietta, che promuoverà la traduzione delle Storie di Genova scritte in latino dal fratello Oberto, è considerato l'iniziatore della letteratura moderna, i cui primi frutti saranno raccolti a partire dal 1575 nell'antologia delle Rime in lengna zeneise.

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    In una Liguria sempre più attratta nell'orbita politico-culturale della Spagna (come dimostrano anche i numerosi prestiti lessicali di origine iberica in genovese), Gian Giacomo Cavalli è il maggior poeta del periodo barocco, e la sua raccolta di poesie, Ra gittara zeneise, è destinata a diventare il classico più letto e imitato attraverso i secoli. Con i suoi encomi per i Dogi di nuova elezione, Cavalli coglie l'importanza simbolica dell'uso pubblico del genovese, e sviluppa in forme di grande suggestione i temi dell'esaltazione della classe dirigente e dell'orgoglio repubblicano; ma Cavalli è anche un lirico amoroso di grande finezza, che ambienta le sue tormentate passioni, rivissute secondo il gusto letterario secentesco, nel mondo marinaresco e pastorale della Liguria.
    Di gusto popolare è invece la poesia del coetaneo Giuliano Rossi, ricca di riferimenti alla cronaca mondana ma anche dolentemente disincantata nella constatazione delle ingiustizie sociali e nell'attonita contemplazione della rovinosa pestilenza di metà secolo, epoca che vede anche il definitivo affermarsi di una tradizione teatrale, peraltro già avviatasi durante il Medio Evo. Le maschere che parlano in genovese vivacizzano un tipo di commedia plurilingue, per il resto poco originale, che ha i suoi autori principali in Anton Giulio Brignole Sale, Francesco Maria Marini e, per il melodramma, Giovanni Andrea Spinola.
    La letteratura in genovese continua a sviluppare nella seconda metà del Seicento temi patriottici con Carlo Andrea Castagnola (Zena incendia) e Gio. Agostino Pollinari, e approda nella prima parte del Settecento a un coraggioso tentativo, operato da Stefano de Franchi e dalla sua scuola, di promuovere l'uso dell'idioma come elemento di identificazione collettiva ed espressione di una coscienza nazionale: è l'epoca della sollevazione di Balilla (1746), e gli autori del periodo, di fronte all'irruzione del popolo sulla scena politica, percepiscono la necessità di simboli forti di unità al di sopra delle divisioni di classe e di rango. De Franchi nel suo Chitarrin e gli altri poeti di estrazione aristocratica canteranno così con toni epicheggianti la vittoria sugli austro-piemontesi e le ultime scaramucce contro i pirati barbareschi.
    La poesia dell'epoca, per il resto, sviluppa temi amorosi, encomiastici, descrittivi e morali: lo stesso de Franchi è autore di Commedie rielaborate da modelli francesi, e il promotore di una traduzione integrale della Gerusalemme Liberata.
    Gli anni convulsi della rivoluzione che trasforma la Repubblica di Genova in Repubblica Ligure Democratica all'ombra della Francia non vedono - con l'eccezione forse di Antonio Pescetto - autori di rilievo, ma la letteratura si caratterizza per un generale abbassamento di toni che soddisfa le esigenze di divulgazione dei nuovi ideali.

    L'Ottocento

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    Dopo l'unione all'Impero napoleonico (1805-1814), la Liguria subirà nel 1815 l'arbitraria annessione al Regno di Sardegna, perdendo la propria secolare indipendenza e trovandosi suo malgrado inserita in uno stato monarchico retrivo, che eserciterà per alcuni decenni sul paese una dominazione violenta e semicoloniale. Dal punto di vista letterario, questo fatto avrà come conseguenza da un lato la vernacolarizzazione di temi e forme, in un disimpegno politico che, con Martin Piaggio e le sue rime a sfondo moraleggiante, testimonia dello spaesamento della classe borghese di fronte alla nuova situazione, dall'altro una presa di coscienza che assume caratteri di aperta resistenza all'occupazione:
    Luigi Michele Pedevilla denuncerà la sanguinosa repressione dei moti del 1849 e comporrà un grande poema epico, A Colombìade, apparso nel 1870, che partendo dalla figura di Colombo svilupperà il tema dell'esaltazione della storia e della civiltà ligure in polemica col nuovo regime.
    Questo filone nazionalistico, ben inserito nel generale risveglio delle culture minoritarie europee, confluirà poi nell'adesione delle classi intellettuali genovesi ai programmi mazziniani, che vedono nell'unità d'Italia il superamento in senso repubblicano dell'occupazione piemontese: la letteratura dell'Ottocento è ricca di riferimenti al clima risorgimentale, vissuto però in un'ottica fortemente regionalistica nell'opera dello stesso Pedevilla, di L.D. Farina, di G.B.
    Vigo, del savonese F. Pizzorno e di altri autori che trovano negli almanacchi o limai uno strumento ideale di divulgazione delle loro opere.

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    Tale impostazione liberale e antimonarchica continuerà anche dopo l'unità d'Italia soprattutto attraverso il movimento dei periodici in genovese, una decina di giornali, da "O Balilla" a "O Staffi "che uniranno la satira politica alla divulgazione della letteratura genovese classica, l'informazione alla denuncia sociale, ma che sconfineranno frequentemente nello scandalismo e nella provocazione. Sui giornali in genovese appariranno anche lunghi romanzi d'appendice di argomento storico o contemporaneo, che riusciranno spesso, come nel caso di Ginn-a de Sanvpedxnn-a (1883) di Giuseppe Poggi, a raggiungere esiti interessanti di analisi della realtà sociale.
    La critica alla monarchia unitaria viene portata avanti in quell'epoca anche dagli ambienti clericali e reazionari, e il teatro del sacerdote Luigi Persoglio in particolare rappresenterà una forma di propaganda avversa anche al nascente movimento socialista.

    Tra Otto e Novecento.

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    Negli anni '80 del sec. XIX si sviluppa anche un movimento letterario di gusto borghese che, prendendo atto della situazione politicosociale e culturale del momento, adegua l'uso del genovese ai toni generali della letteratura dialettale italiana, rinunciando a proporre la peculiarità linguistica in un'ottica autonomistica come elemento di specificità regionale: la poesia e il teatro di Nicolò Bacigalupo segnano la nascita di una vera e propria letteratura dialettale, contemporaneamente al progressivo frantumarsi della koinè genovese-savonese attraverso l'uso scritto dei dialetti periferici, dallo spezzino (Ubaldo Mazzini) a quelli dell'estremo Ponente (gruppo di A Barma Grande).

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    Un ultimo tentativo di recuperare l'alta dignità letteraria del genovese è condotto da Angelico E Gazzo attraverso la traduzione, tra l'altro, della Divina Commedia (1910) e la sistemazione globale della grammatica e del lessico. I contenuti introspettivi si coniugano in Carlo Malinverni con i primi tentativi di superare la generale crisi dell'espressione genovese mediante il suo aggiornamento ai temi e alle forme della letteratura italiana ed europea contemporanea, tuttavia i primi decenni del Novecento vedono il trionfo dell'impostazione vernacolare (G.B. Rapallo, Aldo Acquarone), favorita successivamente anche dal fascismo, che, senza combattere apertamente la specificità linguistica regionale, trova modo di devitalizzarla inserendola in una visione folkloristica e ridanciana, che la priva della sua carica eversiva e alternativa rispetto al processo di omologazione in senso unitario: il teatro di Gilberto Govi, che propone una lettura improbabile e obsolescente della realtà ligure, è insieme alla canzone di imitazione napoletana (Costanzo Carbone) uno degli strumenti più efficienti di questa politica di dequalificazione linguistica, destinata a protrarsi anche nel dopoguerra.
    Intanto, sul filone aperto da Malinverni si inserisce la diseguale esperienza di Edoardo Firpo, che tra gli anni '30 e i '50 recupera alla lirica genovese pieno valore di dignità artistica, pur in una estrema varietà di esiti che solo nell'ultima raccolta Ciammo o martinpescòli (1955) approderanno a piena maturità formale.

    Il secondo Novecento.
    La fortuna (postuma) dell'opera di Firpo ha messo in ombra l'opera di altri poeti, da Carlo D. Adamoli ad Alfredo Gismondi al savonese Giuseppe Cava, che nello stesso periodo avevano tentato, partendo da posizioni diverse, un analogo processo di riqualificazione artistica dell'espressione scritta in genovese; inoltre, una "linea" poetica di imitatori (non sempre all'altezza) del modello firpiano, condizionerà negativamente gli esiti della lirica genovese degli ultimi decenni.
    In reazione a questo fenomeno, negli anni '60 cominceranno a farsi strada nuove tendenze, rappresentate tra gli altri da Guido Nilsen, Giuliano Balestreri, Sergio Sileri e, nei dialetti periferici, Cesare Vivaldi e Giuseppe Cassinelli. Le ultime tendenze della poesia genovese vedono affermarsi tra l'altro l'opera (anche teatrale) di Plinio Guidoni, fortemente orientata verso lo sperimentalismo, di Roberto Giannoni, i cui toni declamatori e di denuncia si coniugano con una rilettura critica della storia ligure recente, e di giovani poeti "nuovi" come Alessandro Guasoni e Daniele Caviglia, mentre nei dialetti locali si esprimono tra gli altri i ventimigliesi Andrea Capano e Renzo Villa, lo spezzino Renzo Fregoso, il lericino Paolo Bertolani e altri.
    La letteratura in genovese e nelle parlate liguri ha oggi abbondanza di autori (circa 1500 negli ultimi quindici anni), che segnano, pur attraverso una produzione molto diseguale, l'esigenza di un recupero degli usi scritti, in poesia e in prosa, come momento di riqualificazione culturale e di riaffermazione di una specificità regionale espressa attraverso uno degli elementi essenziali per la definizione stessa di tale originalità culturale.


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    Letteratura orale e canto tradizionale.
    Al di fuori della letteratura scritta, non bisogna dimenticare l'esistenza in Liguria di ricchi filoni di tradizione orale: le fiabe, le leggende, i proverbi, le filastrocche, i canti tradizionali raccolti negli ultimi anni smentiscono il luogo comune di una Liguria priva di espressioni folkloriche originali, mentre viene sempre più in luce, anche in questo campo, il legame della regione con il mondo mediterraneo prima che con il retroterra padano, ad esempio nelle forme di espressione canora come il canto trallalero, un tipo di vocalità, al centro oggi di un rinnovato interesse, che trova paragoni possibili solo in Corsica e in Sardegna.
    Al canto tradizionale si è associata in questi ultimi anni una ripresa della canzone d'autore, i cui esiti migliori, superando la facile vena comica che aveva caratterizzato il gusto musicale degli anni '60 e '70, si sono orientati a partire dalle esperienze genovesi di Fabrizio De Andre verso un filone di maggiore impegno contenutistico e formale, confermato dalla recente affermazione di gruppi giovanili, che recuperano talvolta anche aspetti significativi del patrimonio orale.

    Il genovese oggi e domani.
    Il ruolo della lingua e della letteratura regionali è oggi oggetto di una riflessione che investe singoli cultori e studiosi, gruppi associativi, istituzioni, nella quasi totale assenza di indicazioni di base che pongano correttamente, in Italia, il tema della valorizzazione, del ricupero e della riqualificazione culturale delle identità linguistiche minori. Alla relativa crisi dell'uso parlato corrisponde una sempre maggiore crescita della "domanda" di cultura regionale, che assume talvolta implicazioni politiche non di rado confuse, anche se poi, fondamentalmente, il recupero di una specificità viene vissuto dai più come reazione alle tendenze omologatrici e artatamente totalitarie insite nei processi di globalizzazione, mentre la ricerca di un territorio "solido" di valori e di beni comuni diventa un tentativo di sfuggire all'esasperato individualismo dei nostri tempi.
    A mano a mano che l'uso dell'idioma vede ridimensionata la sua funzione comunicativa, cresce allora quella connotante, che ne propone l'uso come alternativa possibile e democratica, senza supporre una chiusura timorosa di fronte al mondo degli "altri". Per questo, il genovese può recuperare un suo spazio anche in una società plurietnica e plurilingue come quella che si va predisponendo, anche perché difficilmente, nella Liguria di domani, potranno affermarsi condizioni di serena convivenza senza il rispetto e la reciproca conoscenza della diversità culturale di cui l'uso parlato e scritto del genovese è un esempio. Perde così progressivamente rilievo l'importanza della raccolta e della catalogazione fini a se stesse in quanto elementi di valorizzazione del patrimonio linguistico, e diventa sempre più attuale l'esigenza di una sua proposta funzionale ed organica a un progetto complessivo di democrazia culturale.
    In questo senso è decisamente centrale il ruolo propulsivo che può essere svolto dalla dagli enti locali, dalla scuola, dalle istituzioni culturali, dai mass-media, non solo per aiutare a trasmettere il patrimonio linguistico regionale, ma anche per contribuire ad assicurargli visibilità e presenza nella società contemporanea.
    Acquisire e trasmettere la coscienza dell'importanza e della dignità di un bene culturale fondamentale come il patrimonio linguistico regionale implica quindi praticarne l'utilizzo anche in quegli ambiti, come la toponomastica, che rappresentano altrettante occasioni per ribadirne la funzionalità, comunicando attraverso di essa il valore concreto e simbolico dell'utilizzo vivo dell'idioma.


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    Per saperne di più.
    Lo studio del patrimonio linguistico ligure prende avvio nel secolo scorso, su filoni di approfondimento scientifico e di divulgazione: ambedue i contesti hanno prodotto opere di notevole pregio, anche se di quando in quando viziate da giudizi precostituiti o legate a interpretazioni condizionate da particolari momenti storici.
    Si tralasciano qui le opere eccessivamente specialistiche e quelle disperse su riviste, privilegiando invece i lavori più facilmente reperibili in commercio e indirizzati, con caratteri di buona attendibilità, a un pubblico ampio.
    Bibliografie: è fondamentale la Bibliografia Dialettale Ligure, A Compagna, Genova 1980, con l'Aggiornamento 1979 1993, id.
    1994, nella quale sono raccolte indicazioni bibliografiche relative a tutti i testi letterari in genovese e nelle parlate liguri e a tutti gli studi linguistici.
    Vocabolari: ne esistono molti dedicati a singole parlate liguri, e uno a carattere regionale, il Vocabolario delle Paliate Liguri in quattro volumi, curato da autori vari e pubblicato dalla Consulta Ligure tra il 1985 e il 1992: esso raccoglie le varianti dei diversi lemmi, ordinate a partire dalle forme più arcaiche, e trascritte in una grafia di carattere fonetico che non riflette le consuetudini dell'uso letterario genovese; per questo aspetto resta ancora valido il Dizionario Genovese-Italiano di Giovanni Casaccia, Genova 1876, disponibile in diverse edizioni anastatiche come gli altri vocabolari tradizionali (Olivieri, Frisoni, Gismondi).
    Recentemente (1998) è stato pubblicato da Vallardi un pratico Dizionario tascabile genovese-italiano e italiano-genovese
    Grammatiche: La Grammatica del genovese di Fiorenzo Toso, edita nel 1997 da Le Mani sotto gli auspici della Provincia di Genova e di A Compagna è l'unica realizzata con criteri aggiornati e tenendo conto degli usi grafici tradizionali.
    Storie e antologie della letteratura: La più completa è finora quella di Fiorenzo Toso, Letteratura Genovese e Ligure. Profilo Storico e Antologia, Marietti, Genova 1989-1991, in sei volumi. Entro il 2001, dello stesso autore sarà disponibile una nuova Letteratura in genovese edita da Le Mani in tre volumi illustrati di grande formato, della quale è uscito finora il primo, dedicato al Medio Evo. Dello stesso autore è uscito un Prof,ì d'istòia da lettiatùa zeneise in edizione bilingue (A Compagna, Genova 1998) e l'antologia con commento Nave ganti do rie. Poesia in genovese del Novecento, numero monografico della "Rivista in forma di Parole" di Bologna (1999).
    Edizioni di testi: Si segnala la collana "A Parma" della Casa Editrice Le Mani di Recco, che pubblica in volumetti a prezzo popolare testi antichi e moderni in edizioni filologicamente accurate. Si segnalano in generale le opere pubblicate dalla società A Compagna, ora inserite in una collana di "Quaderni Genovesi di Lingua e Letteratura".
    Descrizioni dell'area linguistica ligure e storie linguistiche: riguardo alle descrizioni, se per le indicazioni generali si rimanda ai manuali di dialettologia italiana e di filologia romanza, per gli aspetti specifici occorrerebbe fare riferimento a pubblicazioni specialistiche.
    L'unica storia linguistica esistente è quella di Fiorenzo Toso, Storia linguistica della Liguria, della quale è uscito però soltanto il primo volume dedicato al Medio Evo (Le Mani, Recco 1995), che comprende anche una sintetica descrizione delle parlate liguri e del genovese in particolare.

    SEGNALETICA STRADALE E IDENTITÀ' LOCALE

    jpg



    I cartelli di località in Valgraveglia Nel 1997 Sergio Circella, presidente della Pro-loco Ne-Valgraveglia mi aveva chiesto di aiutarlo a progettare un sistema di segnaletica stradale per comunicare, in modo coerente e coordinato, le località, i produttori e i siti di rilevanza storica e turistica. Sulla segnalazione di produttori e siti si poteva lavorare con limitata libertà, ma sulle località pareva che, oltre al dettato del Codice della strada, non ci fosse molto da dire. Però, rispettando alcune norme non derogabili, una cosa la si poteva fare, ed era porre in evidenza i nomi locali, nel Genovese della Valgraveglia, scritti secondo la grafia tradizionale.
    II senso di questa operazione non era (non è) certamente fare professione di localismo, ma dichiarare alla gente che la loro lingua - e quindi la loro cultura - è importante e non va tenuta nascosta, ma merita di essere messa in buona vista, anche a fianco dei cartelli stradali. L'iniziativa è piaciuta all'Amministrazione comunale di Ne e alla Provincia di Genova, con l'appoggio delle quali in pochi mesi si è passati dal progetto alla realizzazione.
    La prima fase dell'intervento ha richiesto un'attenta ricostruzione della toponomastica locale, basata su fonti storiche, in particolare sulla cartografia. Questo ha permesso di discutere la legittimità di alcuni nomi [per esempio: Reppia al posto di Corte, Pòntori al posto di Prato di Pòntorr, Ne al posto di Campo di Ne] ripetuti nelle carte più recenti senza corrispondere al nome storico delle località né a quello sedimentato nella memoria degli abitanti. In alcuni casi sono state anche corrette le storpiature dovute all'incomprensione dei cartografi [per esempio Carron invece di Carrou, San Buceto invece di Sambuceto].
    Quindi siamo passati alla raccolta dei nomi locali, così come li pronunciano gli abitanti di quelle stesse località.
    Con un registratore e in compagnia di Fiorenzo Toso, intento a tradurre i toponimi in scrittura fonetica, ho intervistato due persone per ogni località scelte con tre requisiti: che avessero più di cinquantanni; che fossero nate in quella località; che vi fossero sempre vissute. Solo nel caso in cui le testimonianze risultassero poco o tanto discordanti sono stati scelti altri due testimoni dotati dei medesimi requisiti. F importante che i testimoni siano originari della località della quale si cerca il nome, perché l'elevato particolarismo linguistico fa sì che lo stesso villaggio possa essere chiamato con nomi diversi da abitanti di località diverse, benché vicine. Di più: la gente del posto conosce bene anche le eventuali suddivisioni della stessa località e i nomi particolari per distinguere l'eventuale parte "bassa" da quella "alta"; ne offre un buon esempio Castagnola, dalle altre frazioni chiamata semplicemente Castagneua, ma che la gente del posto distingue in In fondo d'àila (per la parte inferiore a 250 m. slm) e In co d'àila (per la parte superiore a 400 m. slm). In questi casi, sui cartelli, oltre al nome locale della frazione è stato aggiunto tra parentesi anche quello della sotto-frazione.
    La scelta di valorizzare la pronuncia locale ha, inoltre, evitato di tradurre nella più corrente forma del Genovese cittadino alcune particolarità della Valgraveglia e, più in generale, del Levante ligure. Penso a Chiesanuova e Friso/ino che in Genovese corrente suonerebbero Geixaneua e Frexouin, mentre in Valle si dice Geiscianeua e Fresciouin.
    Fino a oggi sono stati preparati i cartelli per tutte le località di fondovalle (quelle attraversate dalla strada provinciale) e per le principali località interne (comprese tutte le sedi di parrocchia). Quando le risorse lo renderanno possibile verranno preparati anche i cartelli riguardanti le località minori e i nuclei abitati: in questi casi, spesso non esistendo una traduzione italiana, il cartello non sarà più bilingue, ma conterrà il solo toponimo reso in Genovese, secondo (naturalmente) la parlata locale.



    tabella1


    tabella2



    Testo di Massimo Angelini e Fiorenzo Toso Tratti da "Per conoscere il genovese"

    Fotografie provenienti dall'archivio della Provincia di Genova
    le foto sono inserite a solo scopo ludico/culturale, NON si intende violare alcun diritto d'autore

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    Palzzo ducale
    prima parte



    1200px_Lato_Piazza_Matteotti



    Il Palazzo Ducale di Genova (in ligure Paxo /ˈpaːʒu/, contrazione dell'antico termine Paraxo /paˈɹaːʒu/) è uno dei principali edifici storici e musei del capoluogo ligure, già sede del dogato dell'antica Repubblica.
    Lasciato in abbandono per lungo tempo e adibito a sede degli uffici giudiziari prima della costruzione negli anni settanta del nuovo palazzo di giustizia di Portoria, ha visto completare il suo restauro in occasione delle "Colombiadi" del 1992, con cui vennero commemorati Cristoforo Colombo e il cinquecentenario della scoperta dell'America.
    Ospita al piano nobile importanti mostre d'arte, dibattiti e convegni (organizzati nelle sale affrescate del Maggior e del Minor Consiglio) e, nei cortili e porticati, negozi e punti di ristoro. Il palazzo è gestito dalla fondazione "Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura" che ha suddiviso gli spazi in molteplici funzioni. Al suo interno si possono verificare eventi anche contemporaneamente in spazi dedicati. All'interno del palazzo si trovano anche le sedi di molte associazioni culturali. Nel 2001 vi si sono riuniti a congresso i capi di Stato e di governo convenuti a Genova per il G8.


    Storia


    le origini

    1200px_Loggia_abati



    La costruzione del Palazzo Ducale ha inizio alla fine del XIII secolo quando, in seguito alle vittoria contro Pisa (nel 1284 alla Meloria) e contro Venezia (nel 1298 a Curzola), Genova vedeva accrescere la propria potenza militare ed economica nel Mediterraneo. A quel tempo la città era organizzata in base alla Compagna Communis, che provvedeva alla nomina dei capitani del Popolo. Fino al 1291 però i capitani e gli altri rappresentanti del Comune non disponevano di una sede propria ma erano ospitati nel Palazzo arcivescovile o in vicine abitazioni private appartenenti alle famiglie Doria e Fieschi.
    Nel 1291 i capitani del Popolo Corrado Doria e Oberto Spinola acquistarono gli edifici di proprietà dei Doria che si affacciavano sulle odierne salita dell'Arcivescovado e via Tommaso Reggio e tre anni più tardi fu acquistato anche l'adiacente palazzo di Alberto Fieschi, dotato di una torre in seguito detta "Grimaldina", già utilizzato come sede dai capitani del Popolo a partire dal 1272 a causa dell'esilio dell'aristocratico. L'accorpamento portò alla realizzazione del palazzo degli abati, del quale è visibile parte del loggiato su via Tommaso Reggio. Non esistono testimonianze iconografiche precise dell'aspetto che doveva avere il palazzo in quel periodo, ma secondo la ricostruzione di Orlando Grosso, che ne curò il restauro negli anni trenta del XX secolo, doveva avere una pianta trapezoidale, con il lato sud verso via Tommaso Reggio lungo 44 metri, il lato nord di 50, il lato ovest su salita dell'Arcivescovado di 20 metri e il lato a est di 36 metri. Doveva avere un'altezza complessiva di circa 25 metri suddivisa su tre piani, di cui il piano terra ospitava un porticato mentre sui piani superiori si aprivano delle quadrifore. Al centro del prospetto sud si innalzava la torre Grimaldina di sei piani di altezza.

    Il Trecento e il Quattrocento

    Il palazzo, che con la nomina nel 1339 del primo doge genovese Simone Boccanegra aveva assunto il nome di "ducale", subì una serie di trasformazioni a partire dalla seconda metà del XIV secolo per volere del doge Antoniotto Adorno. L'edificio venne ingrandito con l'aggiunta di nuovi corpi di fabbrica a est, a formare una sorta di "C" intorno all'odierna piazza Matteotti, e a nord, fino a occupare uno spazio corrispondente all'attuale corpo centrale. Gli interventi voluti dall'Adorno non variarono l'accesso principale del palazzo, che continuò a essere mantenuto su via Tommaso Reggio.
    Una nuova importante trasformazione ebbe luogo verso la metà del secolo successivo con la costruzione della cosiddetta "cortina", un corpo di fabbrica destinato a ospitare la guarnigione che collegava le ali a est e a ovest di piazza Matteotti, di fatto trasformando la piazza in un cortile fortificato e rendendo il palazzo una sorta di cittadella del potere isolata dal resto della città. Non si conosce con esattezza la data di realizzazione della cortina, ma la nomina nel 1470 di un "capitano della porta di palazzo" fa pensare che a quel tempo la sua costruzione fosse terminata. Con la realizzazione della nuova ala infatti venne chiuso l'accesso da via Tommaso Reggio e il nuovo ingresso venne posto al centro della nuova costruzione.

    La fabbrica del Vannone

    Piantina_palazzo_ducale


    Nel XVI secolo le riforme volute da Andrea Doria avevano modificato la struttura politica della città, che era allora governata da un Maggior Consiglio di quattrocento senatori e da un Minor Consiglio, mentre il doge non era più eletto a vita ma restava in carica solo due anni. Il desiderio di disporre di una sede che rispecchiasse il prestigio e l'organizzazione gerarchica della signoria, unitamente all'esigenza di una fortezza che mantenesse il governo al riparo da intrighi e colpi di stato, portarono il senato ad affidare nel 1591 all'architetto Andrea Ceresola - detto "il Vannone" - l'incarico di ristrutturare completamente il palazzo.
    Il Vannone collegò e trasformò l'insieme di edifici medievali e di eterogenei corpi di fabbrica costruiti in epoche successive in un palazzo-fortezza in stile manierista. A lui si deve la realizzazione del grande cortile del piano terra, coperto da una volta a padiglione e su cui si aprono due cortili porticati, e l'imponente scalone che conduce al piano superiore dove si trovavano gli ambienti di rappresentanza, il salone del Maggior Consiglio e quello del Minor Consiglio e gli appartamenti del doge. Ingrandì inoltre la cortina che chiudeva piazza Matteotti e presidiava l'accesso al palazzo, innalzandola fino a tre piani di altezza e dotandola sul lato interno di un loggiato che doveva avere la duplice funzione di svago per i soldati della guarnigione e di tribuna per gli spettatori che da lì potevano assistere alle cerimonie e alle manifestazioni che avevano luogo nel cortile del palazzo.

    L'incendio del 1777

    Lo stesso argomento in dettaglio: Incendio e ricostruzione del Palazzo Ducale di Genova.
    Nuovi importanti lavori di trasformazione ebbero luogo nel 1778, dopo che il 3 novembre dell'anno precedente un violento incendio aveva distrutto gran parte del corpo centrale dell'edificio, del quale si erano salvati solo l'atrio al piano terra e lo scalone che conduce al piano nobile.
    Per la ricostruzione fu rapidamente bandito un concorso, al quale furono invitati a partecipare Giacomo Maria Gaggini, Gregorio Petondi ed Emanuele Andrea Tagliafichi, tra i più noti architetti attivi a Genova in quegli anni. Il concorso fu però vinto dall'architetto ticinese Simone Cantoni, convinto a partecipare dal fratello Gaetano, che ideò una facciata marmorea che rappresenta uno dei primi esempi di stile neoclassico a Genova. I lavori di ricostruzione ebbero luogo tra il 1778 e il 1783 sotto la supervisione di Gaetano Cantoni e oltre alla facciata riguardarono il rifacimento in stile neoclassico dei saloni del Maggior e del Minor Consiglio, le cui coperture in legno erano state danneggiate dall'incendio. Le nuove coperture furono realizzate in mattoni, al fine di metterle al riparo da eventuali nuovi incendi.

    L'Ottocento e il Novecento

    Ducale_deferrari_bn



    Il 1815, con l'annessione di Genova e della Liguria al Regno di Sardegna, segnò la fine della Repubblica di Genova e il palazzo perse la sua funzione di sede del governo e i suoi locali furono utilizzati come aule giudiziarie, uffici e archivi come nuova sede della magistratura, ruolo che continuò a mantenere fino al 1975.
    Negli anni quaranta dello stesso secolo, nel corso dei lavori di rifacimento di via San Lorenzo, fu demolita la cortina che chiudeva la piazza d'armi del palazzo e la facciata di Simone Cantoni fu resa visibile alla città. Alcuni anni dopo, nel 1861, l'ingegnere del genio civile Ignazio Gardella lavorò alla ristrutturazione delle ali laterali che circondavano piazza Matteotti, ampliando e rettificando l'ala a ovest e ricostruendo le facciate dei due edifici.
    Una nuova campagna di restauri ebbe luogo nei primi decenni del XX secolo a opera di Orlando Grosso. I suoi interventi più rilevanti riguardarono i prospetti su via Tommaso Reggio, dove furono riportati alla luce, seguendo la politica neomedievalista in vigore all'epoca, la loggia degli abati e altri resti degli edifici medievali che erano stati coperti da una lineare facciata manierista dal Vannone, e la facciata su piazza De Ferrari, che venne completamente ristrutturata e ridipinta.
    Nel 1942 il palazzo venne parzialmente danneggiato, in particolare tra il corpo centrale e l'ala a ovest, durante uno dei bombardamenti della città effettuato dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale.

    1200px_Ala_est



    Dal restauro del 1992 all'epoca contemporanea

    Il palazzo è stato oggetto di un completo intervento di restauro, conclusosi nel 1992 in occasione delle "Colombiadi", a cura dell'architetto genovese Giovanni Spalla. Tale restauro ha cercato di valorizzare le architetture cinquecentesche del Vannone, come l'atrio voltato, e allo stesso tempo di conservare gli interventi preesistenti che facessero parte della storia dell'edificio, come il prospetto su piazza De Ferrari e i reperti medievali riportati alla luce da Orlando Grosso modificando la struttura vannoniana.
    In seguito al restauro, il palazzo è stato aperto al pubblico e adibito a museo e palazzo della cultura. A partire dall'8 febbraio 2008 il palazzo è gestito dalla "Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura". Oltre ad alcune attività commerciali ospita periodicamente manifestazioni, conferenze e importanti mostre d'arte.
    Nel 2001 nel Palazzo Ducale si sono tenute le riunioni del vertice del G8 di Genova.

    Descrizione
    L'esterno
    Nato dall'aggregazione di una serie di edifici medievali e ingrandito nel corso dei secoli con la costruzione di nuovi corpi di fabbrica, il palazzo presenta una pianta irregolare che copre un'estensione complessiva di circa trentacinquemila metri quadrati e uno stile eterogeneo tra le diverse facciate. È situato al limitare del centro storico sulla sommità della collina di San Domenico, a pochi passi dalla cattedrale di San Lorenzo e dal palazzo della curia arcivescovile, ed è possibile accedervi attraverso l'ingresso principale su piazza Matteotti, su cui si apre la facciata neoclassica di Simone Cantoni, o attraverso gli ingressi su piazza De Ferrari a est.

    1200px_Pontini



    I palazzi medievali

    I corpi più antichi del palazzo sono quelli del lato occidentale che si affacciano su via Tommaso Reggio e su salita dell'Arcivescovado e che costituivano il palazzo degli abati e il palazzo di Alberto Fieschi, con annessa la torre Grimaldina. Degli edifici medievali sono visibili, sul prospetto verso via Tommaso Reggio, le arcate a sesto acuto della loggia del palazzo degli abati e di Palazzo Fieschi.Tali arcate si trovano a circa due metri di altezza rispetto al piano stradale, a causa dell'abbassamento del suolo realizzato nel XIX secolo per consentire il raccordo con via San Lorenzo, e furono ricostruite da Orlando Grosso durante l'intervento del restauro da egli eseguito nel 1935. In precedenza il prospetto su via Tommaso Reggio presentava invece una facciata manierista realizzata dal Vannone nel XVI secolo, parzialmente demolita da Orlando Grosso per recuperare le sottostanti architetture medievali secondo i canoni restaurativi dell'epoca. I lavori di Grosso hanno anche comportato importanti lavori di consolidamento delle stanze interne, necessari in seguito all'indebolimento della facciata, e l'apertura di quadrifore in parte cieche in quanto non combacianti con le strutture interne.
    In corrispondenza dell'intersezione tra via Tommaso Reggio e la salita dell'Arcivescovado è possibile notare due piccoli ponti sospesi, chiamati "pontini", che avevano la funzione di collegare gli appartamenti del doge del Palazzo Ducale con il palazzetto criminale e con la cattedrale, in modo che il doge e gli altri funzionari del palazzo potessero spostarsi senza bisogno di scendere in strada.

    Le facciate manieriste

    675px_Salita_del_fondaco



    I prospetti su salita dell'Arcivescovado e su salita del Fondaco, rispettivamente a ovest e a nord del palazzo, conservano in gran parte le caratteristiche manieriste dei lavori eseguiti alla fine del XVI secolo dal Vannone. Essi presentano un'alta facciata liscia, priva di decorazioni e ricoperta da un intonaco chiaro, sulla quale si apre una serie di finestre, quasi tutte di forma rettangolare, osservando le quali è possibile ritrovare facilmente la posizione delle stanze interne. A metà del prospetto su salita del Fondaco si trovano tre ampie finestre ad arco, che individuano il pianerottolo in cima alla prima rampa delle scale che conducono al piano nobile. Ai lati di queste e a un'altezza maggiore altri finestroni ad arco si trovano in corrispondenza dei pianerottoli tra le seconde e le terze rampe dello scalone.

    La facciata su piazza De Ferrari

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    Il prospetto che si affaccia su piazza De Ferrari subì importanti modifiche durante i lavori di restauro eseguiti da Orlando Grosso nei primi decenni del XX secolo. Prima dei lavori di Grosso essa doveva presentarsi come una facciata liscia intonacata, sulla quale erano visibili tracce di affreschi seicenteschi. Grosso rielaborò la facciata in stile classicista, regolarizzando le aperture e inserendole all'interno di uno schema di colonne e altri elementi architettonici dipinti. Furono inoltre aperte tre porte per collegare la piazza con il porticato interno del palazzo.
    La facciata, dipinta nel 1938, risultava in gran parte dilavata al momento del restauro del 1992. Durante tale restauro è stata ripristinata la decorazione di Grosso, spostando però verso l'alto le tre porte in modo da renderle alla stessa quota del cortile interno sul quale si affacciano. La facciata è organizzata su due livelli, scanditi da una decorazione pittorica. Al piano terra si trovano, oltre alle tre aperture sopracitate, sopraelevate rispetto alla piazza e raggiungibili tramite una breve scalinata, una serie di finestroni, sormontati ognuno da una finestrella. Il livello superiore riprende lo schema del piano terra, con una nuova serie di finestroni e di finestrelle.

    La facciata su piazza Matteotti

    Il prospetto sud-ovest del corpo centrale, che si apre su piazza Matteotti, presenta l'imponente facciata neoclassica ideata da Simone Cantoni in seguito all'incendio del 1777. Benché questo prospetto abbia rappresentato per secoli l'accesso principale al palazzo fino al 1834, esso era nascosto alla vista dalla cortina che chiudeva la piazza e iniziò ad affacciarsi verso la città solo in seguito al suo abbattimento.
    Un visitatore del 1818 descrive in questo modo l'impressione che si ha della facciata dopo aver oltrepassato la cortina ed essere entrati nella piazza d'armi interna:

    « Entrando nel cortile ammirasene la bella interna prospettiva formata da due ordini dorico e ionico, con otto colonne in istucco raddoppiate sopra piedistalli di marmo bianco, e una galleria con balaustri di marmo pur bianco a ciascuno. Otto statue parimenti di stucco veggonsi collocate al di sopra di nicchie e, alla corona dell'edifizio, una quantità di trofei in altrettanti gruppo corrispondenti […]. La piazza anteriore, ossia il cortile, è lungo e largo dugento e più palmi. La facciata principale con la porta unica d'ingresso è al mezzogiorno o piuttosto a libeccio rivolta […]. Dal cortile per una maestosa scala a piè della quale sono due piedistalli di marmo ov'erano le statue colossali di Andrea Doria e di Gio Andrea suo nipote – la prima del Montorsoli fiorentino e l'altra di Taddeo Carlone, nel 1797 dal furor di popolo abbattute – per vasta e ferrata porta, nel suo grand'arco e sottosopra tutta di marmi bianca incrostata, entrasi nell'atrio […] »
    (Anonimo visitatore del 1818
    La facciata cantoniana è organizzata in altezza su tre livelli e presenta una rigida simmetria rispetto all'asse verticale che attraversa il portone d'accesso, accentuata dalla bicromia degli elementi in marmo e di quelli in stucco lucido.
    Al livello inferiore sopra uno zoccolo di pietra rosa di Verezzi si alzano otto coppie di colonne sporgenti rispetto alla parete in finto bugnato realizzato in stucco lucido. Tra le colonne si aprono sei grandi finestre sormontate da altrettante finestrelle, che forniscono luce all'atrio interno, e al centro un imponente portone arcuato dotato di due ante ferrate chiodate. I caratteristici battiporta a forma di tritone furono rubati nel 1980 e sono stati sostituiti da copie.
    Conduce verso l'ingresso una rampa d'accesso composta da una gradinata centrale in marmo, posta in asse con il portone, e da due rampe laterali in pietra e mattoni, chiuse sul lato esterno da una balaustra, che danno l'idea di racchiudere la gradinata al centro. Ai lati della scala marmorea si trovano due grandi basamenti in marmo che un tempo ospitavano due monumentali statue di Andrea Doria e di suo nipote Giovanni Andrea Doria. Le statue, realizzate rispettivamente da Giovanni Montorsoli nel 1540 e da Taddeo Carlone nel 1601, furono abbattute durante i moti del 1797 e dopo un restauro nel 2010 sono state ricollocate in cima alla prima rampa dello scalone che dall'atrio conduce al piano nobile. Sul basamento a ovest è stata collocata una lapide per ricordare lo studente greco Kōstas Geōrgakīs che si uccise davanti al palazzo nel 1970 per protestare contro l'allora situazione politica greca.
    Il secondo livello orizzontale della facciata, corrispondente al piano nobile, è separato dal primo livello da un fregio e una cornice in marmo sormontati da una balaustra sempre in marmo e riprende gli elementi del livello inferiore, con le otto coppie di colonne sporgenti e le pareti in finto bugnato, il cui colore e profondità sono meno accentuati che nel piano inferiore per un migliore effetto prospettico. Nel progetto di Cantoni la serie di colonne doveva avere la duplice funzione di decorazione della facciata e di contrafforti per le strutture interne. Tra le colonne si aprono sette ampie finestre, le tre centrali sormontate da una finestrella cieca.
    Il terzo livello, nuovamente separato dal precedente da fregio, cornice e balaustra in marmo, presenta in corrispondenza delle colonne inferiori una serie di otto lesene dotate di nicchie che ospitano altrettante statue e sormontate da gruppi scultorei al centro dei quali, in asse con il portone di ingresso, spicca lo stemma di Genova.

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    Le ali laterali

    Le due ali che racchiudono a est e a ovest piazza Matteotti furono ristrutturate nel 1861 dall'ingegnere Ignazio Gardella, in seguito alla demolizione della cortina che chiudeva il lato meridionale del palazzo. I prospetti di testa delle due ali furono ricostruiti a imitazione della facciata del Cantoni, con un ampio zoccolo al di sopra dei quali si innalzano due ordini di colonne sporgenti, tra le quali spiccano le finestre e la parete in finto bugnato, mentre i prospetti laterali della ali verso piazza Matteotti sono semplicemente intonacati.

    La torre Grimaldina

    1200px_Palazzo_Ducale___Torre_Grimaldina



    La torre Grimaldina, nel Trecento chiamata "torre del popolo" si innalza al di sopra della loggia degli abati, sul prospetto che affaccia su via Tommaso Reggio. La sua datazione precisa è incerta: secondo Orlando Grosso, che la ristrutturò agli inizi del XX secolo riportandola al suo probabile aspetto Trecentesco, la sua costruzione sarebbe compresa tra il 1298 e poco oltre il 1307; altri storici, come il Poggi, ipotizzano che si trattasse di una delle torri di difesa della cinta muraria del X secolo. Probabilmente la torre fu innalzata prima del 1291 e faceva già parte del palazzo Fieschi quando questo venne acquisito come sede dei capitani del Popolo nel 1294. Il nome Grimaldina potrebbe derivare dal nome di una delle celle che si trovavano al suo interno.
    La torre è composta da sette piani, i quattro inferiori compresi all'interno di palazzo Fieschi mentre i tre superiori si innalzano al di sopra del palazzo. Il primo piano presenta il bugnato che ricopre tutto il livello inferiore del palazzo Fieschi e una recente finestra rettangolare. Il secondo piano, analogamente al resto del palazzo, mostra una decorazione a strisce bianche e nere e il medesimo motivo è ripreso al piano superiore. A questi due livelli si apre, sul prospetto su via Tommaso Reggio, una quadrifora, mentre il quarto piano, in mattoni a vista come i successivi, presenta una trifora. A partire dalla metà del quinto piano, sul quale si apre una monofora, la torre risulta libera dalla struttura del palazzo. Il sesto piano, mostra una grande monofora sul prospetto di via Tommaso Reggio e sugli altri tre lati una bifora. Esso è coronato da tre serie di archetti pensili risalenti al 1539, che separano la costruzione medievale dall'ultimo piano, innalzato agli inizi del XVII secolo. Fin dal Medioevo l'ultimo piano della torre ospitava una cella campanaria e diverse campane si susseguirono fino al 1941, quando durante la seconda guerra mondiale quella presente venne fusa per realizzare cannoni. Nel 1980 una nuova campana è stata realizzata e installata in cima alla torre a cura dell'Associazione A Compagna, come ricorda una lapide posta alla base della torre.

    675px_Torre_grimaldina





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    Palazzo ducale
    parte seconda



    Palazzo_Ducale_Genova_Scalone_interno
    scalone col simbolo di Genova



    L'interno.

    675px_Genova,_palazzo_ducale,_portale,_maniglia_



    Il principale ingresso verso l'interno del palazzo è rappresentato dal grande portone che si affaccia su piazza Matteotti e conduce all'atrio porticato realizzato dal Vannone. Da esso è possibile salire lo scalone in marmo che conduce al piano superiore o raggiungere a ovest il sistema di rampe che collega tutti i piani dell'edificio. Questa struttura, denominata "strada appesa", è stata progettata dall'architetto Giovanni Spalla durante il restauro nel 1992 e collocata negli ambienti danneggiati durante i bombardamenti del 1942. Essa si presenta come una scala elicoidale in acciaio sorretta da un sistema di tiranti collegato a una trave reticolare e si sviluppa lungo tutti i quaranta metri di altezza dell'edificio permettendo l'accesso ai vari livelli, dal piano interrato della cisterna maggiore fino alle carceri e alla torre Grimaldina

    I piani interrati
    Scendendo lungo la "strada appesa" si raggiungono i due livelli inferiori del palazzo, posti al di sotto del piano dell'atrio voltato. Il più profondo dei due livelli prende il nome dalla "cisterna maggiore", l'ambiente più notevole di questo piano recuperato durante il restauro del 1992. Si tratta di un'ampia sala, posta in corrispondenza del cortile maggiore del piano terra, sormontata da volte a crociera che poggiano su otto pilastri in pietra. Originariamente era la maggiore delle tre cisterne d'acqua del palazzo, disposta in modo da raccogliere le acque del soprastante cortile maggiore, e insieme alle cisterne poste sotto il cortile minore e sotto la piazza d'armi doveva garantire l'approvvigionamento idrico del palazzo in caso di assedio. Il restauro di questo ambiente e degli altri locali del piano ha anche permesso alcune importanti scoperte archeologiche sulla storia del palazzo, come resti di edifici medievali inglobati nella mura del palazzo cinquecentesco e le fondamenta di un grande torrione bassomedievale del quale si ignorava l'esistenza.
    Salendo di un piano ci si trova al livello di piazza Matteotti e nel piano al di sotto dell'atrio e dei porticati. Si trovano qui le stanze dell'antico palazzo del Comune e del palazzo degli abati, del quale sono visibili le arcate della loggia da salita dell'Arcivescovado. In corrispondenza della sottostante cisterna maggiore e proprio al di sotto del cortile maggiore si trova la "sala del monizioniere", un'ampia sala con volta a crociera sorretta da otto pilastri in pietra, realizzati in corrispondenza dei pilastri del piano sottostante. I pilastri sono sormontati da capitelli di diversa forma, che il Vannone riutilizzò recuperando il materiale proveniente dalla demolizione delle strutture medievali. Questo locale era in origine utilizzato come magazzino non solo per armi e munizioni, da cui deriva il suo nome, ma anche per olio, vino, legname, come stalla e come rimessa per lettighe e portantine.
    A fianco della sala del monizioniere e al di sotto dell'atrio voltato si trovano le stanze del sottoporticato, anch'esse voltate a crociera e sorrette da pilastri in pietra. Come la sala precedente questi spazi erano in origine utilizzati come magazzino per tutto ciò che poteva essere utile per garantire l'autonomia del palazzo in caso di assedio e in seguito al restauro del 1992 sono utilizzati come spazi espositivi per mostre e manifestazioni. I locali sono raggiungibili, oltre che tramite la "strada appesa", attraverso delle porte che aprono direttamente su piazza Matteotti.

    Il piano terra e i cortili

    Genova_palazzo_ducale_porticato3
    Atrio del Vannone



    L'ambiente più notevole del piano terra è il grande atrio voltato, realizzato dal Vannone alla fine del XVI secolo, sotto il quale ci si ritrova dopo aver varcato il grande portone che affaccia su piazza Matteotti. Si tratta di uno spazio di 43 metri di lunghezza e 17 di larghezza, coperto da una volta a padiglione intonacata di bianco sorretta alle estremità da una fila di quattro colonne che rimanda l'idea di una vela gonfiata dal vento.
    Per sostenere la volta il Vannone utilizzò un'intelaiatura di tiranti in ferro, invisibile ai visitatori in quanto coperta dai mattoni, costituita da « un'asta orizzontale tangente al colmo dell'estradosso e da due aste diagonali di irrigidimento fissate all'imposta della volta ». Questa tecnica delle "chiavi nascoste" fu utilizzata dal Vannone anche in altri ambienti del palazzo.

    Palazzo_Ducale_Cortile_interno
    Cortile maggiore



    A est e a ovest l'atrio voltato è affiancato da due cortili a cielo aperto, denominati rispettivamente cortile minore e cortile maggiore, realizzanti anch'essi in stile manierista dal Vannone.
    Il cortile maggiore, a ovest, è situato al di sopra della cisterna maggiore e della sala del monizioniere, ricalcandone la forma e le dimensioni, ed è circondato su tre lati da un porticato voltato a botte sorretto da una serie di colonne terminanti con capitelli di ordine dorico. Agli angoli del porticato è presente un sistema di tre colonne collegate tra loro da un architrave che sorregge la soprastante volta a botte. Il restauro del 1992 ha portato alla luce, alle spalle delle colonne d'angolo, una serie di nicchie ad abside che erano state murate nel corso dei secoli. Al piano superiore è presente un loggiato che riprende la struttura del porticato sottostante, comprese le nicchie e le colonne architravate negli angoli, con la differenza che le colonne terminano con capitelli ionici anziché dorici.

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    Cortile minore



    Il cortile minore, a est, di forma quadrata, è a sua volta circondato su quattro lati da un porticato sorretto da colonne doriche, le quali formano con quelle dell'atrio voltato e del cortile maggiore, poste in asse le une con le altre, un effetto prospettico di particolare impatto.
    Durante il restauro del 1992 il piano di calpestìo del cortile è stato traslato verso l'alto, in modo da riportarlo allo stesso livello del resto del piano terra. Ciò ha comportato l'eliminazione di alcuni gradini inseriti da Orlando Grosso nel 1935, quando furono aperte le tre porte che collegano direttamente questo ambiente con piazza De Ferrari e ha permesso la ricostruzione delle volte del deambulatorio della cisterna sottostante, che erano state demolite durante i lavori di realizzazione delle nuove aperture. Le aperture verso piazza De Ferrari sono a loro volta state traslate verso l'alto ed esternamente è stata realizzata una scalinata di raccordo con il livello della piazza.
    La pavimentazione dei due cortili, ricostruita durante il restauro sulla base di tracce della pavimentazione originale vannoniana, è formata da una griglia di lastre di pietra di Finale che collegano tra di loro le colonne del porticato, entro la quale sono racchiusi dei campi in mattoni in cotto disposti a lisca di pesce. La pavimentazione dell'atrio voltato è stata ricostruita recuperando parte della pavimentazione precedente in ardesia e alternandola a mattoni in cotto realizzando un motivo geometrico che riprendesse quello della volta soprastante. Tra le colonne del cortile maggiore è possibile notare dei lucernai che permettono alla luce solare di raggiungere la sottostante sala del monizioniere.
    In origine gli ambienti dell'atrio e dei cortili erano utilizzati sia come elemento del percorso cerimoniale che partiva dalla "cortina" che chiudeva la piazza e terminava con lo scalone che conduce al piano nobile, sia come luogo di incontro per trattative politiche e incontri burocratici. Nelle stanze intorno ai cortili si trovavano gli uffici di diverse magistrature della Repubblica genovese, come la Magistratura degli Inquisitori di Stato o il Corpo di Città. I cittadini avevano anche la possibilità di presentare delle denunce anonime depositando un biglietto in una buca ancora visibile nel porticato del cortile minore.
    La riapertura al pubblico del palazzo dopo il restauro ha cercato di restituire all'atrio voltato la sua funzione originaria di piazza coperta, utilizzando gli spazi intorno a esso per attività commerciali e culturali, come la biglietteria del palazzo, due librerie, un caffè, una sede della Società ligure di storia patria dotata di una ricca biblioteca specializzata e alcuni laboratori didattici.

    Cortile_minore
    cortile minore



    Il primo piano


    Statue_ducale
    Resti delle statue di Andrea Dortia e Giovanni Andrea Doria



    Al centro dell'atrio voltato, di fronte al portone d'ingresso, parte lo scalone dogale che conduce al piano superiore. Lo scalone, opera del Vannone, è composto da una prima rampa di scalini di marmo larghi e bassi che, una volta raggiunto il ballatoio, si divide in due rampe simmetriche che conducono al corpo est e al corpo ovest del palazzo. Sul ballatoio in cima alla prima rampa dello scalone sono state collocate le statue di Andrea Doria e di Giovanni Andrea Doria che in origine si trovavano sui due piedistalli ai lati della scalinata di ingresso al palazzo su piazza Matteotti.

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    La Vergine ed i Santi patroni di Genova che intercedono presso la SS. Trinità



    La rampa di destra conduce al loggiato posto sopra il cortile minore, del quale riprende la forma e la posizione delle colonne le quali, come nel caso del loggiato sopra il cortile maggiore, terminano con capitelli ionici anziché dorici. Da qui si può accedere allo spazio un tempo occupato dalla sala d'armi, posta lungo l'ala est del palazzo. Questi ambienti erano uniti alla cortina che chiudeva la piazza ed erano inoltre collegati alla vicina chiesa del Gesù tramite un pontino aereo, abbattuto durante i moti del 1848. Con l'annessione della città al Regno di Sardegna l'armeria venne trasformata in sale riunioni, andate distrutte durante i bombardamenti del 1944. In seguito al restauro del 1992 gli spazi ospitano le sale dell'Archivio Storico del Comune di Genova.
    In cima alla rampa di scale di destra si trova un maestoso stemma della Repubblica di Genova, opera di Domenico Fiasella, come conferma una ricevuta di pagamento datata 1638. A Fiasella è attribuito anche l'affresco raffigurante La Vergine con i Santi Giovanni Battista, Giorgio e Bernardo che intercedono presso la Trinità per la città di Genova che si trova in cima alla rampa di sinistra dello scalone. Questo secondo affresco fu commissionato intorno al 1630 come ringraziamento per la vittoria del 1625 di Genova contro il ducato di Savoia ed è visibile solo mentre si scende lungo lo scalone.
    Giunti in cima alla rampa di sinistra si raggiunge il loggiato posto sopra il cortile maggiore, sul quale si aprono quelli che erano gli ambienti più prestigiosi del palazzo: i saloni del Maggior Consiglio e del Minor Consiglio, gli appartamenti del doge e la cappella dogale.

    L'appartamento del Doge
    I lati nord e ovest del piano nobile, tutto intorno al loggiato, sono occupati dalle stanze dell'appartamento dogale. A partire dal 1528, con l'introduzione del mandato biennale, i dogi erano infatti obbligati a dimorare all'interno del palazzo per l'intero periodo della propria carica. L'appartamento tardo cinquecentesco è composto da una serie di stanze comunicanti una con l'altra in successione, riccamente decorate in stile rococò nelle prime sale e neoclassico in quelle successive.
    La prima sala, sul lato nord vicina all'arrivo dello scalone, è decorata con tappezzerie originali in carta stampata. Sulla parete di sinistra era presente una porta, in seguito murata, che conduceva a una scala tramite cui raggiungere il piano ammezzato sottostante. In quei locali, che si sviluppano lungo i lati a nord, ovest e sud del cortile maggiore, si trovavano altre stanze dell'appartamento del doge, considerate più intime e più confortevoli durante i mesi più caldi o più rigidi grazie alle spesse pareti; vi si trovavano inoltre le cucine e gli alloggi del personale di servizio del palazzo, come l'armaiolo, il guardiano della torre, gli uscieri e i portaordini. In seguito al restauro del 1992 nel mezzanino, raggiungibile anche tramite la "strada appesa", sono stati collocati alcuni uffici del Comune di Genova e del consorzio che gestisce il palazzo.
    La seconda e la terza sala sono decorate con stucchi dorati in stile rococò che raffigurano le virtù cardinali, panoplie con armi e bandiere, strumenti musicali e animali. Nella terza sala dovevano essere presenti tappezzerie e arazzi e su una panoplia è indicata la data 1756, considerata come l'anno della realizzazione delle decorazioni delle prime tre sale.
    La quarta e la quinta sala sono le più grandi dell'appartamento. La sala d'angolo, detta anche "sala del doge", è la più ricca dell'intero appartamento e un cartiglio rivela che la sua decorazione, nella quale si notano influenze neoclassiche, risale al 1771, durante il dogato di Giovanni Battista Cambiaso. Nei soprapporta si trovavano quattro tele del XVII secolo raffiguranti le virtù cardinali, mentre al centro delle pareti trovavano posto alcuni arazzi raffiguranti Le storie di Mosè, realizzati nella seconda metà del XVI secolo dall'arazziere fiammingo Dionys Martensz su bozzetti di Luca Cambiaso, ora conservati a palazzo Doria-Spinola. Sulla volta, completamente decorata in stucco lustro, vi è un grande medaglione dove è forse raffigurata un'allegoria della scoperta dell'America da parte di Colombo vista in chiave classicista. Le decorazioni in stucco della sala sono opera dei lombardi Alessandro Bolina e Bartolomeo Fontana. Degno di nota in questa sala è anche il caminetto in marmo bianco, decorato con piastrelle in ceramica bicrome e risalente allo stesso periodo degli stucchi.
    La decorazione in stucco della quinta sala, detta anche "antisala del doge", segue lo stesso stile della stanza precedente e presenta una serie di panoplie rappresentanti la potenza militare di Genova. Tra le decorazioni in stucco della sesta sala è riproposto il tema delle virtù cardinali, mentre nell'ultima sala era un tempo presente una porta, in seguito murata, che conduceva ai pontini aerei sopra salita dell'Arcivescovado, mettendo in diretta comunicazione il palazzo con il palazzetto criminale e con la cattedrale.

    Le Virtù cardinali

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    La Fortezza di Giovenni Andrea Ansaldo



    Le quattro tele delle virtù cardinali, collocate nella sala d'angolo dell'appartamento dogale a partire dalla sua decorazione nel 1771, furono realizzate nella prima metà del XVII secolo forse per il salone del Maggior Consiglio. I soggetti delle tele, tutti carichi di simbologie, sono una metafora delle qualità che il governo della repubblica doveva possedere: comandare con forza accompagnata da prudenza e temperanza avrebbe assicurato la giustizia per i cittadini. La Fortezza, dipinta da Andrea Ansaldo intorno al 1630, mostra una figura femminile con indosso una corazza e in mano un ramo di quercia (simbolo rispettivamente della forza fisica e spirituale) e con a fianco un leone. La Giustizia di Giovanni Andrea De Ferrari, databile intorno al 1620, è raffigurata secondo la simbologia comune al tempo e il dipinto è la copia quasi speculare di un'altra tela attribuita nello stesso periodo allo stesso artista. La figura femminile in armatura regge in mano una spada e una bilancia e sulle ginocchia in tomo con il mottoInconcussa vigeat, mentre alle sue spalle e ai piedi vi sono simboli di pace a abbondanza come la cornucopia ricolma di frutta, una pistola schiacciata sotto il piede e un agnello. A De Ferrari è attribuita anche la Temperanza; l'opera è datata 1651 ma la critica la colloca tra il 1620 e il 1630 e la data erronea potrebbe dipendere dal fatto che la parte inferiore della tela è stata ridipinta in epoche successive. Vi è raffigurata una figura femminile, vestita sobriamente, che versa una brocca d'acqua, simbolo di semplicità e trasparenza. La Prudenza fu dipinta da Domenico Fiasella intorno al 1630 e raffigura un'enigmatica figura femminile bifronte che si guarda allo specchio. Nel realizzarla Fiasella probabilmente seguì fedelmente l'iconografia del periodo, nella quale i due volti simboleggiavano la circospezione e la lungimiranza tipiche di chi è prudente.

    La cappella dogale

    Cappella_Dogale_affresco_a_soffitto
    Affresco del soffitto



    Accanto alle ultime stanze dell'appartamento del doge, con accesso dall'angolo sud ovest del loggiato, si trova la cappella dogale. Si tratta di un ambiente sontuoso e di grande impatto, in cui l'intera superficie della volta e della pareti è affrescata allo scopo di celebrare le glorie e i personaggi illustri della repubblica genovese. Al centro della parete di ingresso si trova una raffigurazione di Cristoforo Colombo che pianta la croce nel nuovo mondo, con ai lati, sopra le porte che collegano la sala con l'appartamento del doge e con il loggiato, i ritratti dei martiri genovesi Ursicino e Desiderio. Ancora più in alto vi sono i beati Domenico Genuense, Maria Vittoria De Fornari Strata, Alessandro Sauli e due figure la cui epigrafe è illeggibile.
    Sulla parete di destra, dando le spalle all'ingresso, è raffigurata La presa di Gerusalemme da parte di Guglielmo Embriaco, avvenuta durante la prima crociata, con tutto intorno i ritratti dei beati Jacopo da Varagine e Lanfranchino e dei santi Bono e Valentino. Questi affreschi, così come quelli sulle altre pareti e sulla volta, furono realizzati da Giovanni Battista Carlone tra il 1653 e il 1655 e sono inseriti all'interno di finti archi colonnati dipinti, opera del pittore imperiese Giulio Benso.

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    Altare



    Al centro della parete opposta campeggia il dipinto de L'arrivo a Genova delle ceneri del Battista, con intorno i santi Barnaba, Alberto, Caterina Fieschi Adorno, i vescovi genovesi Salomone e Romolo e un angelo custode.
    La volta è interamente occupata da una raffigurazione di Maria invocata dai santi protettori di Genova Giorgio, Giovanni Battista, Lorenzo e Bernardo. La Vergine è rappresentata in qualità di regina di Genova, quale era stata proclamata nel 1637, mentre riceve da alcuni angeli la corona, le chiavi e lo scettro della città.

    Cappella_della_Dogana_3
    Cantoria



    La parete di fondo della sala è occupata dall'altare in marmo, circondato da vere colonne sempre in marmo uguali a quelle dipinte sulle altre pareti. Due finestre si aprono tra le colonne a fianco dell'abside, permettendo alle luce esterna di illuminare l'ambiente. Inizialmente dietro l'altare si trovava una pala di Giovanni Battista Paggi, donata dallo stesso pittore alla città nel 1603, raffigurante La Madonna con il bambino tra i santi Giorgio e Giovanni Battista. Nel XVIII secolo la pala fu sostituita da una scultura di Francesco Maria Schiaffino, raffigurante nuovamente La Vergine regina di Genova.
    Il pavimento presenta una decorazione barocca realizzata con tarsie di marmi policromi.

    Il salone del Maggior Consiglio

    Sala_Maggior_Consiglio



    Il salone del Maggior Consiglio è la sala più imponente del palazzo e insieme all'adiacente salone del Minor Consiglio occupa interamente il corpo centrale dell'edificio, al di sopra dell'atrio voltato. L'aspetto attuale del salone è quello successivo alla ricostruzione di Simone Cantoni nel 1778, ma le dimensioni, 37 metri di lunghezza per 16 di larghezza,sono quelle della "sala grande" realizzata nel Cinquecento dal Vannone per ospitare i quattrocento patrizi che rappresentavano il Maggior Consiglio della Repubblica di Genova. In questa sala veniva eletto il doge e si tenevano le riunioni ufficiali del Consiglio della Repubblica, ma avevano luogo anche feste, balli e spettacoli teatrali.

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    Volta



    L'incendio del 1777 danneggiò gravemente il piano nobile del palazzo e le strutture dei saloni, che vennero ricostruite da Cantoni l'anno successivo. Nel salone del Maggior Consiglio Cantoni inglobò e innalzò ciò che restava dei muri vannoniani e coprì la sala con un'imponente volta a padiglione in mattoni, la cui forma ricorda quella di una carena di nave rovesciata, in sostituzione della precedente copertura in legno. Per contrastare l'aumento di peso generato dalla nuova volta fu realizzata la facciata neoclassica su piazza Matteotti, le cui colonne hanno la funzione di contrafforti per l'adiacente salone. Nel corso degli anni però le spinte sui muri hanno causato lesioni e uno scivolamento della facciata neoclassica, che ciò ha comportato un indebolimento delle volte dei saloni del Maggior e del Minor Consiglio. Il consolidamento di tali strutture è stato effettuato durante il restauro del 1992 tramite l'inserimento di tiranti in acciaio nei sottotetti e nei muri.

    Affresco_soffitto_sala_del_Maggior_Consiglio
    Affresco "Allegoria del commercio del Liguri" di Giuseppe Isola



    Internamente il salone appare completamente decorato in stile neoclassico e caratterizzato dall'alternanza di colore dei marmi e dei finti marmi in stucco lustro. Nelle pareti lunghe sono addossate una serie di colonne in marmo o in stucco lustro, nelle nicchie tra le quali trovano posto una serie di statue in stucco. Al di sopra delle colonne si trova una balaustra e sopra di essa, in corrispondenza delle colonne e dei costoloni della volta, una serie di cariatidi in stucco opera opera dello dello stuccatore ticinese Carlo Luca Pozzi con la collaborazione di Alessandro Bolina e Bartolomeo Fontana, autore anche della decorazione della volta.
    A fianco della porta di ingresso si trovano due statue in stucco raffiguranti la Concordia e la Pace, opera dell'artista genovese Andrea Casareggio (o Casaregi) mentre dalla parte opposta del salone, dove un tempo si trovava il trono del doge, distrutto durante la rivoluzione del 1797, sono le statue allegoriche della Giustizia e della Fortezza, opera rispettivamente di Nicolò Traverso e di Francesco Maria Ravaschio. Al centro della parete di ingresso, al di sopra della balaustra, si trova una grande lunetta con un dipinto su tela della battaglia della Meloria, realizzata dal pittore piemontese Giovanni David. David realizzò anche il bozzetto per la lunetta sita sul lato opposto, raffigurante Il doge Leonardo Montaldo libera Jacopo di Lusignano, re di Cipro, che fu però dipinta da Emanuele Tagliafichi. Queste due lunette furono dipinte in sostituzione delle tele di Marcantonio Franceschini e di Tommaso Aldovrandini, andate distrutte durante l'incendio del 1777. Tra le colonne dei lati principali, alternati alle statue in stucco, si trovano una serie di tele monocromatiche, dipinte in stile neoclassico e con temi allegorici in occasione della visita di Napoleone nel luglio 1805. Al centro della volta si trova un grande affresco raffigurante un'allegoria del Commercio dei Liguri, realizzato nel 1866 da Giuseppe Isola in sostituzione di un precedente affresco di Giandomenico Tiepolo risalente al 1785 e raffigurante La Liguria e le glorie della famiglia Giustiniani, deperito pochi decenni dopo la sua realizzazione. Completano l'effetto scenografico del salone il pavimento dove una serie di marmi di diversa colorazione formano motivi geometrici e due grandi lampadari in cristallo, inseriti durante il restauro del 1992.
    In seguito alla riapertura del palazzo il salone del Maggior Consiglio, così come quello del Minor Consiglio, ospita mostre, conferenze, concerti o altri eventi culturali

    Il salone del Minor Consiglio

    Sala_del_Gran_Consiglio



    Il salone del Minor Consiglio, detto anche "salonetto", era originariamente destinato alle riunioni del Minor Consiglio della Repubblica. È situato a fianco del salone del Maggior Consiglio, insieme al quale occupa il corpo centrale dell'edificio, e affaccia verso nord su salita del Fondaco. Per via della sua collocazione era anche chiamato "consiglietto d'estate" ed era usato per le riunioni estive del Consiglio, in contrapposizione al "consiglietto d'inverno", esposto a sud e andato perduto durante i rifacimenti ottocenteschi, i cui spazi sono utilizzati come spazio espositivo della Regione Liguria.

    Affresco_nella_sala_del_Minor_Consiglio_2
    "L'arrivo delle ceneri del Battista a Genova" di Carlo Giuseppe Ratti



    La sala, di 20 metri di lunghezza e 13 di larghezza, fu gravemente danneggiata durante l'incendio del 1777 e ricostruita durante l'intervento di Simone Cantoni. Analogamente al salone del Maggior Consiglio fu realizzata una nuova volta in mattoni, in questo caso con forma a botte, in sostituzione della precedente copertura in legno, e fu rinnovata completamente la decorazione della sala.
    Si accede al salone attraversando un piccolo atrio, aperto sul lato che affaccia sullo scalone, dal quale un tempo era possibile assistere ai cortei cerimoniali. Tra l'atrio e l'ultima rampa dello scalone Cantoni ricavò uno spazio tecnico nel quale inserire una scala a chiocciola di forma ellittica che conduce al piano superiore. La decorazione neoclassica del salone è opera in particolare del pittore Carlo Giuseppe Ratti e dello stuccatore Carlo Luca Pozzi, il quale lavorò anche agli stucchi del salone del Maggior Consiglio. Furono realizzate da Ratti le tredici tele raffiguranti le Allegorie delle virtù del buon governo che si trovano in corrispondenza delle aperture della sala (partendo dalla parete di fronte all'ingresso e girando in senso antiorario, Sapienza, Magnanimità, Concordia, Fortezza, Carità, Vigilanza, Mansuetudine, Pace con la Giustizia, Speranza, Fortuna, Verità, Storia e Segretezza) e le piccole tele monocromatiche soprapporta raffiguranti putti e, in quella sopra la porta d'ingresso, Giano.
    Sulla volta è possibile vedere due tele monocrome raffiguranti La Liguria distribuisce tesori alle province e Giano sacrifica alla pace, opera di Ratti così come la tela centrale con L'apoteosi della Repubblica con l'allegoria della Divina Sapienza, che il pittore riprese da un bozzetto che Domenico Piola aveva presentano nel 1700 a un concorso per la decorazione del salone del Maggior Consiglio. Queste tre tele furono pesantemente restaurate nel 1949, in seguito ai danni riportati durante i bombardamenti bellici. Sempre di Ratti sono le due lunette in cima alle pareti d'ingresso e di fondo della sala, che raffigurano rispettivamente Lo sbarco di Colombo nelle Indie e L'arrivo a Genova delle ceneri del Battista riproponendo le precedenti opere di Francesco Solimena, distrutte dall'incendio del 1777 ma delle quali erano stati conservati i bozzetti. Lungo le pareti della sala, alternati alle tele con le allegorie delle virtù del buon governo, vi sono otto statue in stucco di uomini illustri della Repubblica realizzate da Nicolò Traverso, Andrea Casareggio e Francesco Maria Ravaschio, i quali lavorarono anche agli stucchi della facciata su piazza Matteotti e nel salone del Maggior Consiglio. All'architetto genovese Carlo Barabino è infine attribuita la caratteristica balaustra circolare in fondo alla sala, che aveva la funzione di delimitare lo spazio riservato al doge.

    I piani superiori

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    Sommità della Torre Grimaldina



    Dal loggiato maggiore si può accedere alla strada appesa, che permette di scendere al piano terra o di salire ai piani superiori: il secondo piano ammezzato, la terrazza, le carceri e la torre Grimaldina. Il secondo mezzanino ospita alcuni uffici e spazi del Comune di Genova. La terrazza si trova al di sopra del loggiato maggiore, ospita un ristorante e da essa è possibile vedere da vicino la sommità della torre Grimaldina, le statue che sormontano la facciata neoclassica su piazza Matteotti e le coperture dei saloni del Maggior e del Minor Consiglio. Salendo ancora lungo la strada appesa si raggiungono quelle che un tempo erano le carceri del palazzo. Poco prima dell'ingresso, sulla sinistra della scala, è possibile notare un curioso rilievo tardo-cinquecentesco in stucco che raffigura la Fortuna bendata, con la testa che diventa un vaso ricolmo di frutta e la benda che attraversa gli occhi.

    Le carceri

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    Disegni della "Cella degli artisti"



    I piani superiori della torre Grimaldina e i locali adiacenti furono utilizzati come carceri dai tempi della Repubblica fino alla Resistenza durante la seconda guerra mondiale. Un episodio del 1435 fa ipotizzare che a quel tempo esistesse già una cella detta Grimaldina, da cui prese poi il nome l'intera torre: in seguito alla battaglia di Ponza nell'elenco dei prigionieri condotti a Genova da destinare a diverse carceri, accanto ad alcuni nomi fu indicata la lettera G che potrebbe significare appunto Grimaldina.
    Le carceri occupavano alcuni locali del sottotetto al di sopra dell'appartamento del doge e nella torre. Questo faceva sì che le celle fossero meno umide di quelle tradizionalmente collocate nei piani più bassi degli edifici, ma allo stesso tempo fossero più soggette alle intemperie e ai rigori del clima. Le celle sopra l'appartamento dogale erano piccole e buie, provviste di doppie porte e con spesse grate in ferro inserite all'interno dei muri e dei pavimenti, per impedire ogni tentativo di fuga. Queste celle erano destinate ai prigionieri comuni o politici. Il piano superiore del pontino aereo dell'appartamento del doge permetteva di mettere in contatti direttamente le carceri con il vicino palazzetto criminale. Le celle situate nella torre, più grandi e luminose, erano destinate ai detenuti provenienti da famiglie importanti o a nemici stranieri trattenuti in attesa di un riscatto.
    I prigionieri spesso lasciavano sui muri delle celle scritte o disegni a testimonianza delle proprie pene. Nella cosiddetta "cella degli artisti", nella torre, sono presenti disegni di navi da guerra, soldati, dame e cavalieri e una mongolfiera.
    Tra i prigionieri illustri delle carceri è possibile ricordare il corsaro ottomano Dragut, il doge Paolo da Novi e il nobile genovese Domenico Dalla Chiesa, imprigionato per volere del fratello senatore e famoso per essere riuscito a fuggire raggiungendo la cella campanaria e poi calandosi sulla terrazza sottostante grazie alla bandiera situata in cima alla torre; Giulio Cesare Vachero, che complottò contro Genova insieme ai Savoia, i pittori Sinibaldo Scorza (per lesa maestà), Domenico Fiasella e Luciano Borzone (per ferimento) e Pieter Mulier detto il Tempesta, accusato dell'omicidio della moglie e che realizzò diverse opere durante il periodo di prigionia in un improvvisato atelier nella cella campanaria; il musicista Nicolò Paganini (per aver sedotto una ragazza) e il patriota Jacopo Ruffini che qui morì suicida nel 1833.


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    VALLEREGIA seconda parte - L'IMPORTANZA di SAN CLARO nei territori di VALLEREGIA



    La predicazione del Vangelo e la distruzione del paganesimo tra noi, nella Polcevera, si deve sopratutto ai Santi Vescovi Claro e Olcese, i quali, dalle Gallie, fuggendo la persecuzione dei Vandali, venivano a stabilirsi in questi paesi, evangelizzando le nostre campagne, secondo lo Spirito del Grande Apostolo delle Gallie S. Martino di Tours, il quale si dedicava in modo speciale a convertire il popolo del contado, distruggendo i templi delle divinità pagane.
    Non sappiamo con precisione di quali Diocesi fossero vescovi. Secondo il Ferrari riportato dai Bollandisti (4 maggio), lo Schiaffino e altri, S.Claro sarebbe stato vescovo di Arles ma, la cosa non è provata.
    S.Olcese fondò la Chiesa che poi prese il suo nome, una delle più antiche pievi della Polcevera; S.Claro fondò quella di Magnerri (attuale borgata di Valleregia; nds) dedicandola al suo grande concittadino S.Martino vescovo di Tours e quella di Santa Maria di Voirè (Valleregia).
    S.Claro risiedeva specialmente presso S.Martino di Magnerri, frazione che era, all'epoca, più popolosa di quella di Voirè, ed era posta sull'antica via che partendo da Pedemonte metteva in comunicazione la Polcevera con la Valle Scrivia.
    Anche oggi si vede in quella frazione la casa detta di S.Claro.
    La tradizione riportata dallo Schiaffino e da altri ci dice che il Santo morì nella Chiesa di S.M. di Voirè ove spesso si recava per la sua gran devozione alla Madre di Dio; e fu ritrovato dietro all'Altare con le ginocchia a terra e con le mani giunte in atto di Preghiera.
    Il suo corpo si conserva in un'urna di marmo sotto l'Altare a Lui dedicato.
    L'opera del suo zelo nell'evangelizzare la Polcevera fu poi continuata e completata da altri, sicchè tutta la Valle risuonò poi del nome di Cristo


    fonte: libretto stampato dalla S.O.C. Operaia Cattolica di Valleregia in occasione del suo 50^ Anniversario, tuttora custodito nella Chiesa di Valleregia e prestatomi dall'attuale Parroco, Don Paolo.

    continua ...

    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 6/10/2018, 14:57
     
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    A SPASSO per VALLEREGIA IN UNA GIORNATA DI FINE MARZO



    Gli alveari della borgata detta "Fraccia"

    DSC_0765

    la "Fraccia"
    DSC_0768

    il "Paxio"
    DSC_0770

    un simpatico abitante della fattoria presso la borgata detta "il Castello"
    DSC_0774

    cartello indicatore di uno dei tanti percorsi escursionistici presenti in zona; qui siamo presso l'agriturismo "Cascina Castello"

    cartello



    le foto sono state scattate da mia moglie; continua

    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 6/10/2018, 14:58
     
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    ... continua l'escursione ...

    sentiero nel bosco che porta dalla borgata Paxio, alla borgata de il castello

    DSC_0771

    la borgata di Liscàa vista dal sentiero detto "dell'antincendio"

    DSC_0786

    palina indicativa dell'Alta Via dei Monti Liguri (una delle più antiche vie di comunicazione

    bosco_1



    all'uscita dal bosco posto sopra la borgata di Airolo Ciona, si intravede Costa dei Fontanini

    bosco_2



    veduta panoramica della Valsecca, val Polcevera, di Genova e del Monte Figogna da una collina su Costa dei Fontanini

    DSC_0814

    continua ...
    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 6/10/2018, 14:59
     
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    Alta Via dei Monti Liguri



    Altavia



    L'Alta Via dei Monti Liguri (AVML o più semplicemente Alta Via) è un itinerario escursionistico lungo circa 440 km che si sviluppa sullo spartiacque delimitante il versante costiero ligure

    Alta_Via_dei_Monti_Liguri



    L'Alta Via nasce ufficialmente nel 1983 da un progetto congiunto del Centro Studi Unioncamere Liguri, del Club Alpino Italiano e della Federazione Italiana Escursionismo. L'Alta Via è tutelata dalla legge regionale 25 gennaio 1993, n. 5 che ne ha affidato la gestione ad una associazione omonima appositamente costituita. Un itinerario che ha anticipato l'Alta Via era già stato segnalato dalla F.I.E. (Federazione Italiana Escursionismo) tra il colle del Giovo (SV) e il colle Cento Croci (SP) nei primi anni del dopoguerra su un percorso quasi del tutto coincidente con l'attuale Alta Via.

    Alta_via



    Il suo percorso è suddiviso in 44 tappe di diversa lunghezza e difficoltà ed è segnalato con un segnavia rosso-bianco-rosso con la scritta AV nella parte bianca. Il terminale occidentale è posto a Ventimiglia, mentre il terminale orientale si trova a Ceparana, nella piana di Bolano, al confine con la Toscana.

    Il sentiero attraversa il Parco naturale regionale del Beigua, il Parco naturale regionale delle Alpi Liguri, il Parco naturale delle Capanne di Marcarolo e il Parco naturale regionale dell'Aveto. Il punto di massima quota toccato dall'Alta Via è il monte Saccarello (2201 m s.l.m.).

    L'Alta Via è percorribile interamente a piedi e per lunghi tratti a cavallo ed in mountain bike. Alcune delle tappe o parti di esse sono percorribili in auto e moto su strada asfaltata o sterrata.

    10_ott_10_031_alta_via_m_liguri


    Tappe
    numero percorso km quota massima in m s.l.m.
    1 Ventimiglia (IM) - La Colla 10 510 - Monte Baraccone
    2 La Colla - Colla Sgora 9 1063 - Colla Sgora
    3 Colla Sgora - Colla Scarassan 12,2 1587 - Testa d'Alpe
    4 Colla Scarassan - Sella d'Agnaira 13 1909 - Passo della Valletta
    5 Sella d'Agnaira - Sella della Valletta 15 2201 - Monte Saccarello (IM-CN-F)
    6 Sella della Valletta - Colle San Bernardo di Mendatica (IM) 10 2085 - Monte Cimonasso
    7 Colle San Bernardo di Mendatica - Colle di Nava (IM) 10,5 1356 - Poggio dei Preti
    8 Colle di Nava - Passo di Pralè 6 1258 - Passo di Pralè
    9 Passo di Pralè - Colle San Bartolomeo d'Ormea (CN) 8,8 1739 - Monte Armetta
    10 Colle San Bartolomeo d'Ormea - Colle San Bernardo di Garessio (CN) 13,5 1708 - Monte Galero
    11 Colla San Bernardo di Garessio - Colle Scravaion 9,4 1084 - Bric Schenasso
    12 Colle Scravaion - Giogo di Toirano (SV) 5,7 971 - Sella Nord Monte Sebanco
    13 Giogo di Toirano - Giogo di Giustenice (SV) 7 1389 - Monte Carmo
    14 Giogo di Giustenice - Colle del Melogno 9 1335 - Bric Agnellino
    15 Colle del Melogno - Colle San Giacomo 15 1028 - Colle del Melogno
    16 Colle San Giacomo - Colle di Cadibona (SV) 13 821 - Monte Baraccone
    17 Colle di Cadibona - Le Meugge 11,4 720 - Le Meugge
    18 Le Meugge - Colle del Giovo (SV) 11,7 883 - Bric Sportiole
    19 Colle del Giovo - Prà Riondo 13 1287 - Monte Beigua
    20 Pra Riondo - Passo del Faiallo (SV) 8,8 1145 - Cima Frattin
    21 Passo del Faiallo - Passo del Turchino (GE) 8,8 1061 - Passo del Faiallo
    22 Passo del Turchino - Colla di Praglia (GE) 11,5 960 - Colle Sud Monte Foscallo
    23 Colla di Praglia - Passo della Bocchetta (AL-GE) 13 1065 - Sella Nord Monte Taccone
    24 Passo della Bocchetta - Passo dei Giovi (GE) 6 785 - Pian di Reste
    25 Passo dei Giovi - Crocetta d'Orero (GE) 7,4 680 - Sella Sud Monte Vittoria
    26 Crocetta d'Orero - Colle di Creto (GE) 7,8 795 - Sella Sud Monte Carossino
    27 Colle di Creto - Passo dello Scoffera (GE) 14 978 - Passo del Fuoco
    28 Passo della Scoffera - Sella della Giassina 8,2 1080 - Valico Monte Lavagnola
    29 Sella della Giassina - Barbagelata (GE) 6,5 1120 - Barbagelata
    30 Barbagelata - Passo di Ventarola 9,2 1120 - Barbagelata
    31 Passo di Ventarola - Passo della Forcella (GE) 9,7 1345 - Monte Ramaceto
    32 Passo della Forcella - Passo delle Lame 7,2 1300 - Passo delle Lame
    33 Passo delle Lame - Passo della Spingarda 7,6 1701 - Monte Aiona
    34 Passo della Spingarda - Passo del Bocco (GE-PR) 13,8 1623 - Sella del Monte Nero
    35 Passo del Bocco - Colla Craiolo 9 1404 - Monte Zatta
    36 Colla Craiolo - Passo di Centocroci (SP-PR) 16 1177 - Monte Ventarola
    37 Passo di Centocroci - Passo della Cappelletta 5 1102 - Passo Scassella
    38 Passo della Cappelletta - Passo dei Due Santi 17 1640 - Monte Gottero
    39 Passo dei Due Santi - Passo Calzavitello 11,6 1583 - Monte Tecchione
    40 Passo Calzavitello - Passo del Rastello 5,6 1161 - Monte Antessio
    41 Passo del Rastello - Passo dei Casoni 10,2 1093 - Monte Fiorito
    42 Passo dei Casoni - Passo Alpicella 8,6 1062 - La Conchetta
    43 Passo Alpicella - Valico del Solini 5,4 720 - Monte Belvedere
    44 Valico del Solini - Ceparana (SP) 11,3 575 - Valico del Solini
    Esistono alcune varianti al percorso individuato nel 1983, la più importante delle quali è il collegamento diretto tra il passo della Cappelletta ed il passo Calzavitello (tappe 38 e 39), percorribile in un'unica tappa.

    AVML23



    L'Alta Via de Monti Liguri fa parte del progetto escursionistico chiamato Sentiero Italia, itinerario lungo oltre 6000 km che, partendo da Trieste, attraversa tutto l'arco alpino, gli Appennini, la Sicilia e la Sardegna fino a Santa Teresa di Gallura utilizzando anche le Alte Vie Valdostane, la rete piemontese GTA, la rete toscana GEA e i sentieri umbri.


    Casa_miniera



    Seguirà una carrellata di immagini della zona Genova - Arenzano

    le immagini sono inserite al solo scopo didattico culturale, non si intende violare alcun diritto d'autore

    Continua....
     
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    Ecco una serie di fotografie dell'entroterra genovese. Purtroppo ho poco su supporto digitale, ma quello che ho ve lo propongo, tanto per mostrarvi cosa c'è salendo solo di poco dalla città o dalla costa

    San Carlo di Cese

    P1000223

    P1000226

    P1000228

    Santuario Nostra Signora della Guardia al Monte Figogna

    P1000237

    P1000234

    P1000239

    Santuario Nostra Signora del Monte Gazzo

    P1000543

    Lago d-a Tin-a sopra Arenzano

    P1000244

    P1000994

    Sempre sopra Arenzano Parco del Beigua

    P1000995

    P1000998

    P1010095

    P1010356

    P1010862

    P1010897

    P1010898

    P1010900

    Domani metto un campionario di flora e due foto di fauna



    Le foto sono tutte scattate da me o mio marito

    Continua.......

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    CITAZIONE (Nihil Obest @ 3/8/2017, 16:21) 

    VALLEREGIA seconda parte - L'IMPORTANZA di SAN CLARO nei territori di VALLEREGIA



    La predicazione del Vangelo e la distruzione del paganesimo tra noi, nella Polcevera, si deve sopratutto ai Santi Vescovi Claro e Olcese, i quali, dalle Gallie, fuggendo la persecuzione dei Vandali, venivano a stabilirsi in questi paesi, evangelizzando le nostre campagne, secondo lo Spirito del Grande Apostolo delle Gallie S. Martino di Tours, il quale si dedicava in modo speciale a convertire il popolo del contado, distruggendo i templi delle divinità pagane.
    Non sappiamo con precisione di quali Diocesi fossero vescovi. Secondo il Ferrari riportato dai Bollandisti (4 maggio), lo Schiaffino e altri, S.Claro sarebbe stato vescovo di Arles ma, la cosa non è provata.
    S.Olcese fondò la Chiesa che poi prese il suo nome, una delle più antiche pievi della Polcevera; S.Claro fondò quella di Magnerri (attuale borgata di Valleregia; nds) dedicandola al suo grande concittadino S.Martino vescovo di Tours e quella di Santa Maria di Voirè (Valleregia).
    S.Claro risiedeva specialmente presso S.Martino di Magnerri, frazione che era, all'epoca, più popolosa di quella di Voirè, ed era posta sull'antica via che partendo da Pedemonte metteva in comunicazione la Polcevera con la Valle Scrivia.
    Anche oggi si vede in quella frazione la casa detta di S.Claro.
    La tradizione riportata dallo Schiaffino e da altri ci dice che il Santo morì nella Chiesa di S.M. di Voirè ove spesso si recava per la sua gran devozione alla Madre di Dio; e fu ritrovato dietro all'Altare con le ginocchia a terra e con le mani giunte in atto di Preghiera.
    Il suo corpo si conserva in un'urna di marmo sotto l'Altare a Lui dedicato.
    L'opera del suo zelo nell'evangelizzare la Polcevera fu poi continuata e completata da altri, sicchè tutta la Valle risuonò poi del nome di Cristo


    fonte: libretto stampato dalla S.O.C. Operaia Cattolica di Valleregia in occasione del suo 50^ Anniversario, tuttora custodito nella Chiesa di Valleregia e prestatomi dall'attuale Parroco, Don Paolo.

    continua ...

    saluti
    Piero e famiglia

    LA PREGHIERA DEDICATA AL SANTO (con approvazione ecclesiastica)




    O glorioso S.Claro, tu che guidato dalla Provvidenza, sei venuto in mezzo alle nostre terre e hai formato alla fede in Gesù Cristo il cuore dei nostri antenati, fa che questa fede si mantenga sempre intatta in mezzo a noi.
    Tu che ammaestrato alla scuola della Croce, hai cercato con tanto frutto di accendere il fuoco della Carità, per la Tua intercessione fa che questa fiamma si accenda tuttora nelle nostre anime, affinchè, distrutto ogni impedimento alla Grazia Divina, meritiamo di possedere un giorno quella corona che è stata promessa ai puri di cuore



    continua
    saluti
    Piero e famiglia
     
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    POESIA DEDICATA a VALLEREGIA



    DSC00950



    nella foto il Monte Pizzo


    A VOJE'
    ZENA'

    A l'ombra do Pisso
    Zenà o te regalla
    un sprusso de brinn-a
    tutt'e mattin, finn-a
    che o sô o no sponte
    deré que
    llo monte
    che natua a l’à fèto
    comme o sen de na moè:
    òfferto a o çé
    tra i seu duì versanti,
    mòrbidamente degradanti,
    da Oué a Pernecco.

    Con questo spettacolo davanti
    Son vegnua grande e òua végia,
    de ti sempre ‘n po’ innamoà,
    ‘n po’ in fuga, ‘n po’ annòià.

    Vojè, tèra de gente sarvèga,
    serà in to seu borgo
    anche quande pe necessitè
    a l’éà costreita a migrà;
    serà in to seu òrgòglio
    de gente allòuia,
    sensa tempo pe rie,
    sensa tempo pe zeugà:
    impegnà a pòrtà prie
    pe fa miage e muattée,
    impegnà a fa baracche,
    impegnà a coffesà.

    Vojè, patria de prèvi e de comonisti,
    de monneghe, muxicanti
    e pòrtoei de Cristi,
    son tornà finalmente
    fra questa teu gente !
    Ché a seia da vitta
    Serchemmo de radonase,
    pe pòi ritroase,
    tutti insemme,
    in te quello tiepido campo
    co l’è ciamoù Camposanto

    ANNA ARECCO
    (mia suocera)

    valle



    il Piazzale con la Chiesa dedicata a SS Maria Bambina e a San Claro Vescovo
    termina qui il viaggio dentro Vojè (Valleregia) ...
    continua
    saluti
    Piero e famiglia
     
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    Croco

    P1000997

    Dente di cane

    P1010156

    Pseudo narciso

    P1010159

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    Viola Bertoloni

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    Bucaneve

    P1000238

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    P1000287

    Pulsatilla

    P1010165

    Salice in fiore

    P1000269

    Primula primavera

    P1000288

    Viola mammola

    P1000289

    Primula

    P1000293

    Sorbo montano

    P1000545

    Corbezzolo

    P1010065

    Capriolo

    P1010868

    Cinghiale

    Copia_di_P1010059



    Alla prossima mi occuperò di qualche personaggio illustre.


    Le fotografie sono state scattate da me

    Continua......
     
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