"Caffè Zibaldone"

GENOVA per VOI

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    Il genovese e le parlate liguri
    prima parte





    Ho diviso questo argomento in due parti, la prima che ripercorre il cammino delle lingua genovese, con l'aggiunta di un breve prontuario di pronuncia, la seconda riguardante la letteratura e il confronto fra parlate liguri ed altre lingue in due schede apposite.
    Cominciamo a parlare di genovese

    "E tanti sun li Zenoexi / e per lo mondo sì destexi,
    / che und'eli van o stan, / un'atra Zenoa ghe fan".

    Luchetto (tardo XII sec.)



    Il Genovese, per fortuna, é ancora una lingua viva e parlata, nel territorio provinciale, anche se non è facile superare i pregiudizi e i complessi di inferiorità nei confronti dell'Italiano. Il vero problema è la scrittura; basta guardarsi intorno e prestare attenzione alle sporadiche insegne commerciali in Genovese: una babele di segni grafici assortiti con fantasia! Eppure la tradizione scritta della nostra lingua ha almeno 800 anni, non si deve inventare niente.



    “Genovese”, allora, è chi parla il Genovese? Problematico affermarlo nell'evaporare degli antichi linguaggi.
    Probabilmente “genovese” è chi pensa in Genovese. Sapendo che i linguaggi organizzano potentemente il nostro modo di di concettualizzare,i nostri valori e i nostri modelli di comportamento.
    Recuperare il ricordo della nostra parlata - semmai - vuol dire prendere più precisa coscienza di chi siamo e da dove veniamo; per navigare meglio in un mondo dove gli sradicati rischiano costantemente il naufragio.
    Per costruire un mondo in cui l'Universale e il Particolare siano due forze che marciano nella stessa direzione: l'Umanità.

    Un po' di storia

    Il mistero circonda le origini e le caratteristiche dei primi abitatori della Liguria.
    Sappiamo che l'uomo fa la sua comparsa in alcune limitate zone marittime all'estremità delle Riviere già prima dell'ultima glaciazione, quando gran parte dello spazio circostante era ancora inabitabile per l'invasione dei ghiacciai pleistocenici alpini. Gli archeologi ne hanno trovato le tracce nelle caverne dei Balzi Rossi, alla frontiera monegasca e francese. Negli stessi luoghi, durante il Paleolitico Superiore, è stata individuata la presenza di CroMagnon dai tratti negroidi, chiamati appunto di "Grimaldi". Successivamente sono riscontrabili insediamenti neolitici abbastanza diffusi (dal Sassellese a Campomorone), sulle rotte dell'irradiamento agricolo che dal medio Danubio arriva alla penisola Iberica attraversando l'Italia Settentrionale.
    Il livello di conoscenza al riguardo resta - comunque - bassissimo.
    Ma, a partire dall'Età del Ferro, la serie di ritrovamenti ci permette di registrare una realtà ben più consolidata, che si protrae fino alle soglie del primo millennio A. C. Ossia, le tribù che definiamo genericamente Liguri.
    Anche dei Liguri sappiamo ben poco, se non che si tratta di popolazioni precedenti all'arrivo dei cosiddetti indoeuropei, che abitavano un'area sterminata (oltre la Liguria storica, la Gallia, la penisola iberica e parte della penisola italiana fino alla Svizzera).
    Forse si tratta - insieme coi Baschi - dei "primi europei", le tracce del cui irradiamento sono riscontrabili ancora nei toponimi, nei nomi dei luoghi: denominazioni come Entella, Segesta (Sestri Levante) e Eryx (Lerici) si ritrovano tanto in Liguria rome in Sicilia; il suffisso asko/aska (Bogliasco, (Marasco, borzonasca) ritorna, oltre che in I figuri a, anche in Piemonte, I.ombardia, Svizzera, (Corsica, Francia meridionale, Spagna. l'orse il possibile indizio di un'antica unità linguistica.
    Sappiamo anche che queste popolazioni commerciavano l'ambra, proveniente dai mari del Nord. Dunque percorrevano sistematicamente i sentieri che conducono all'Kuropa continentale e da cui proviene - in senso inverso - la prima migrazione indoeuropea verso l'area ligure di cui abbiamo menzione. Denominata appunto - degli "Ambrones".
    L'incontro con i Liguri, quasi certamente pacifico, determina la loro prima, parziale, indoeuropeizzazione. Ne abbiamo riscontro nello stesso etimo di Genova che - al di là delle successive interpretazioni encomiastiche e mitologiche (Janua, da Giano) - richiama la radice indoeuropea sen (mascella), probabile riferimento alla conformazione del golfo ma che ritroviamo anche in Ginevra e Monginevro; nella radice ber (portare) di Porcobera (l'antico torrente Polcevera), "il portatore di salmoni" (?). Nel culto del cigno come animale totemico, che abbiamo già incontrato nella metamorfosi del re Cicno.
    Segnale di un'integrazione senza particolari frizioni e che resta a lungo nella memoria delle genti emerse da questo crogiolo. Lo confermerebbe il racconto di Plutarco: nel primo ingaggio degli scontri durante la battaglia di Aquae Sextiae (102 A.C.), gli ausiliari liguri in forza alle legioni di Caio Mario risposero nello stesso modo al grido di guerra di un gruppo di guerrieri nordici presenti nell'orda dei Cimbri e dei Teutoni: "Ambrones'.
    La successiva ondata migratoria degli indoeuropei - quella dei Celti, ormai in epoca storica - è invece assai meno pacifica. Sotto le pressioni dei Galli a Nord e degli Etruschi a Est, viene materializzandosi la perimetrazione della Liguria, che resterà immutata anche in epoca romana: dal Varo al Magra, estendendosi oltre Appennini fino alle città di Ina (Voghera) e Ubarna.
    Questi i confini entro i quali già i primi mercanti greci massalioti avevano incontrato le genti liguri. E il nome "Liguri" deriverebbe proprio dalla radice lig, fango; probabile riferimento alle zone paludose attorno a Marsiglia.
    Poi arrivano i romani.
    Il processo che portò alla sostituzione dell'idioma ligure preromano con il latino durò secoli e in maniera non uniforme.
    Questo anche per ragioni politiche e militari. Nel corso della seconda guerra punica (221-202 A.C.) le tribù liguri si dividono: i Genuates, legati da tempo da rapporti commerciali con i Greci di Marsiglia e gli Etruschi, trovarono naturale appoggiare Roma mentre la confederazione del Ponente, in lotta contro i Marsigliesi, preferì allearsi con i cartaginesi.
    Anche al termine di questo conflitto si mantenne a lungo uno stato di guerriglia latente, che si può dire terminato solo con l'ultima campagna militare di Roma contro le tribù celto-liguri dei Montani Epanterii, che abitavano le Alpi Marittime, e il trionfo di Augusto, celebrato il 6 A.C. con l'erezione dell'arco alla Turbie. Il Trophaeum Alpium.
    Organizzata amministrativamente nella Regio IX augustea, la Liguria si romanizza pur mantenendo forti tratti originali.
    Ne è conferma evidente la famosa Tavola di Polcevera o Sententia Minuciorum. Questa tavoletta di bronzo di 37,5 centimetri per 47,5 - risalente al 117 A.C. e ritrovata nel 1506 da un contadino a Isola di Serra Ricco - trascrive un arbitrato, emesso dai fratelli Minucio Rufo e ratificato a Roma da un senatoconsulto, relativo alla controversia tra Genuates e le comunità dei Liguri Langenses (il cui etnico è richiamato dall'odierno toponimo Langasco) in materia di proprietà e giurisdizione sulla valle del fiume Porcobera fino agli Appennini, lungo il percorso iniziale della via Postumia. Il dato significativo che emerge dal testo, a quasi un secolo dall'alleanza con Roma, è che i nomi dei luoghi e delle persone restano preromani, seppure latinizzati nella trascrizione.
    Al di là degli utilizzi giuridici e amministrativi, il latino introdotto nell'area è "volgare" o "popolare", mantiene fortissime tracce delle precedenti parlate. Si registrano fenomeni precoci di semplificazione e trasformazione che preludono alla formazione delle lingue romanze: la scomparsa del genere neutro; l'indebolimento della distinzione tra i pronomi ipse e ille che diventano l'articolo lo (da cui il genovese ro, poi ó); la ricostruzione della struttura della frase: dall'ordine soggetto-oggetto-verbo (filius matrem amat) a quello soggetto-verbo-oggetto.
    Dopo la caduta dell'impero romano di Occidente, compaiono nel vocabolario genovese nuovi vocaboli, veicolati dalle invasioni barbariche: gianco, bianco, e mòtto, zolla, sono di origine genericamente germanica; fada, gonna, è probabilmente gotico mentre magun, tristezza, e treuggio, lavatoio, sono longobardi. Come è di origine longobarda il termine italiano "boa", da bauga (anello).
    Particolarmente significativo, in questa trasformazione del lessico, è l'apporto greco (àngeo, angelo; gexa, chiesa; praeve, prete); diretta conseguenza del fatto che - tra il 553 e il 643 - Genova è uno degli avamposti dell'impero bizantino in Italia.
    Quasi un secolo, che termina con la messa in fuga del contingente militare dell'impero d'Oriente a Genova da parte dei longobardi di Rotari.
    La presa e il saccheggio della città, avvenuto nel 643, prelude a un altro saccheggio di tre secoli dopo. Quello ad opera dei saraceni insediati a Frassinetto e della flotta dei Fatimiti magrebini nel 934.
    La storia della lingua e della cultura genovesi moderne ha inizio da queste due catastrofi:
    • il periodo bizantino è determinante per la formazione della coscienza di una Liguria nettamente distinta dal retroterra padano;
    • la reazione conseguente al sacco saraceno e l'incredibile ripresa della città dopo la tragedia - immiserita e tagliata fuori dai traffici che si spostano a oriente verso la Cisa e Luni, la via Francigena - ha il significato di una vera è propria riscoperta del mare.
    Identità ligure e vocazione mediterranea, dunque.
    Ora, costretti a lottare per la sopravvivenza e da soli, i genovesi combattono pro aris et focis, per altari e focolari. Nel 1088 restituiscono ai Fatimiti l'oltraggio ricevuto mettendo a sacco la loro capitale, la tunisina Mahdia.
    Così facendo, scoprono una grande fonte di ricchezza nei bottini che ricavano dalle azioni guerresche. "Ardore patriottico, zelo religioso e avidità predatoria si rinforzano reciprocamente" creando quella vocazione corsara praticata per secoli dagli abitanti della città. Uno spirito che influenzerà la loro stessa partecipazione alle Crociate: non a caso gli arabi distinguevano i loro invasori in "Franchi" e "Genovesi"; i secondi molto meno interessati agli aspetti religiosi dei primi e sempre disponibili a concludere buoni affari anche con gli "infedeli".
    Le nuove ricchezze nate dalla corsa determinano una mutazione della comunità genovese che riscopre la via delle imprese marittime e vuole mettere a profitto in attività commerciali le nuove ricchezze di cui dispone. Imprese che iniziano a dare vita alla rete dei genovesi d'oltremare, facilitate dalla relativa sicurezza nell'area mediterranea a seguito della vittoria sui saraceni.
    Dalla necessità di coordinare le imprese marittime nasce la Compagna., verso la fine del XI secolo prende forma il Comune.
    L'ascesa di Genova nell'area determina la notevole forza attrattiva dei modelli linguistici del centro urbano sull'intero arco rivierasco, con evidenti effetti unificanti. Si possono individuare diverse parlate liguri ma ormai all'interno di una lingua comune, il Genovese; con caratteristiche che si estendono sulla costa da Bergeggi a Moneglia e penetrano all'interno fino al Trebbia. 11 linguaggio registra un fatto politico significativo: l'emergere di una sorta di Stato regionale genovese (conseguente a politiche territoriali avviate già a partire dal 1113, con l'occupazione di Portovenere a spese dei signori di Vezzano), mentre nel resto d'Italia è in affermazione un modello territoriale ben diverso: quello delle città-Stato.
    Sicché lo scarto linguistico esistente tra il Genovese e l'Italiano-Toscano permette di constatare l'elevata specificità di questa parlata, "paragonabile alio scarto che intercorre tra due lingue romanze universalmente considerate autonome, come Catalano e Spagnolo".
    Infatti l'alfabeto genovese presenta significative differenze rispetto a quello italiano, essendo composto di 24 lettere - 19 consonanti e 5 vocali (A B C Ç D E F G H I J L M N O P Q R S T U V X Z) - cui si aggiungono altri tre suoni:
    • il suono di una e estremamente aperta, espresso dal dittongo ae;
    • il dittongo francese eu, anticamente espresso in oe, poi diventato a partire del XVIII secolo oeu fino all'attuale grafia êu;
    • la u lombarda che si esprime con û.
    Anche la grammatica - pur seguendo a grandi linee quella italiana - rivela tratti peculiari che le assicurano una sua caratteristica fisionomia. Ad esempio, nella coniugazione dei verbi il raddoppio del pronome personale alla seconda e alla terza persona del singolare, in tutte le coniugazioni: ti t'ae finïo (hai finito); i nomi propri di persona prendono l'articolo (o Baciccia, a Catainin); non ci sono due denominazioni distinte per distinguere il frutto dall'albero (mei tanto per mele che per meli)… Particolarmente interessante l'analisi etimologica, grazie alla quale - come vedremo anche in seguito - sono riconoscibili ibridazioni all'opera fin da epoche primordiali.
    E che consentono le più spericolate congetture: il toponimo "Acquasola" deriverebbe da Akka, poi romanizzata in Acca-Solis, la divinità della fertilità a cui era dedicato un centro di culto situato su quella collina? Il tipico intercalare belin originerebbe a sua volta dal culto del dio semita Baal, diffuso nella costa europea occidentale del Mediterraneo, poi accolto nel pantheon capitolino come Juppiter Baalinus (e rappresentato dotato di un grande fallo)?
    La formazione del ligure romanzo si protrasse nei secoli senza soluzione di continuità. Solo durante il XII secolo, con i primi documenti definibili come "volgari" a tutti gli effetti, possiamo affermare l'avvenuto abbandono del latino nell'uso parlato. Una delle prime conferme è rappresentata dal testamento di tale Raimondo Pictenado, databile attorno al 1156 e in cui le espressioni in volgare evidenziano già una loro autonomia.
    La lingua latina continua - naturalmente - a essere utilizzata negli atti notarili come nelle cronache. Gli Annales Ianuenses che, a partire da Caffaro da Caschiofellone (abile politico, ambasciatore presso il Barbarossa, più volte console e capitano di flotta contro pisani e saraceni), documentano il percorso di una comunità avviata verso la preminenza. In sequenza: Caffaro, che riporta le vicende dal 1100 al 1163, Oberto Cancelliere quelle dal 1163 al 1173, Ottobono dal 1174 al 1196, Ogerio Pane dal 1197 al 1219 e Marchiso dal 1220 al 1224.
    Ma nel latino di questi testi si riscontra il peso sempre crescente assunto dal volgare; sotto forma di adeguamenti alla fonetica genovese (Lumbardia per Lombardia), sostituzione del genitivo con la particella de (Caffaro: Consules de comuni), inserimenti lessicali tratti dal linguaggio quotidiano (caravan per compagnie portuali, darsana per darsena, Muneia per Moneglia).
    Alla fine del XII secolo, con Luchetto Genovese, compaiono le prime opere letterarie espressione della lingua parlata. Una parlata che - ovviamente - mantiene ancora caratteri galloitalici come gli altri volgari della penisola, ma in un contesto di grande dinamismo.
    Ad esempio il passaggio della û a ü (come düu per duro e lüze per luce) e la trasformazione del - ct - latino in - it - come in fáìtu (faetu, fatto) o láite (læte, latte).
    L'identità genovese - dunque - si esprime non attraverso un semplice dialetto ("sottoprodotto linguistico di un sistema dominante"), bensì grazie a un vero e proprio idioma ("linguaggio di una comunità").
    Una lingua romanza, come altre fiorite sul ceppo latino. Un idioma mediterraneo: il volgare ligure della Natio genovese.



    Lingua romanza e idioma mediterraneo

    La Natio genovese è solo in parte territoriale, ossia limitata allo spazio ligure metropolitano. In larga misura si sviluppa e diffonde nelle forme della rete e copre l'intero mediterraneo, con propaggini atlantiche.
    La formazione di questo sistema - che oggi definiremmo network - coincide con l'avventura coloniale. L'impresa, iniziata con la Prima Crociata, concorre fortemente a forgiare la comune identità e utilizza la parlata come essenziale riproduttore di appartenenza.
    Anche perché coinvolge l'intera Liguria. Infatti, se nel suo punto di espansione demografica quattrocentesca Genova non supera gli 80-100mila abitanti, una presenza che riesce a espandersi da Pera a Caffa, da Siviglia a Lisbona, da Anversa a Londra, deve necessariamente coinvolgere gli abitanti dell'intera regione. Ed infatti gli storici hanno evidenziato come, in questa diaspora, i rivieraschi e i liguri dell'Oltregiogo fossero numerosi almeno quanto gli emigrati dalla Città.
    Un grandissimo storico francese del Novecento, Fernand Braudel, ha impiegato al riguardo l'espressione "impero fenicio dei genovesi".
    Lo ha fatto perché, nel momento in cui componeva le sue opere, il pensiero sociologico non aveva ancora molta dimestichezza con i paradigmi "reticolari". Ma "impero" richiama la dimensione territoriale, il network - al contrario - le dinamiche dei flussi. E l'impero fenicio genovese è organizzazione a distanza degli scambi e dei movimenti delle merci. In altre parole, "Capitalismo".
    Agli albori della modernità - mentre è in atto l'aspra contesa tra le città e i regni per il dominio territoriale - due esperimenti perseguono questo paradigma alternativo: la Lega Anseatica nel Baltico; il Commonwealth che, dalla maglia centrale rappresentata dalla città di Genova, connette le coste africane e il Medio Oriente fino al Mar Nero per poi volgersi verso Occidente.
    Il processo nella fase iniziale - dunque - privilegia l'Oriente, anche se il vettore orientato in direzione della penisola iberica è altrettanto precocissimo (i contatti di Genova con Alfonso IV re di Castiglia risalgono al 1092 e hanno come oggetto l'alleanza per sottrarre ai Mori la città di Valencia. Anche questa un'altra vicenda dal grande significato identitario: la formazione della coscienza spagnola, che proprio in quegli anni si incarna nell'epopea legata al nome di Diego de Bibar, detto el Cid).
    In ogni caso, l'intera vicenda può essere fatta risalire alla lettera indirizzata ai genovesi da papa Urbano II nel 1096, allo scopo di esortarne la partecipazione alla guerra contro gli Infedeli per la liberazione della Terrasanta.
    A seguito di un invito così autorevole, nel luglio dell'anno seguente salpa il contingente guidato dai fratelli Embriaci e che si distinguerà nella presa del porto di Antiochia. Qui avviene il fatto decisivo: i baroni franchi - secondo la mentalità feudale imperante - perseguono l'acquisizione di proprietà terriere; i genovesi - con straordinaria modernità di vedute - chiedono e ottengono concessioni commerciali. Uno dei più grandi studiosi della nostra Storia Patria, Roberto Severino Lopez, metterà a confronto queste logiche - tanto dissimili, pur nella comune partecipazione al fatto d'armi - dicendo che proprio in quel momento "all'Iliade dei baroni si sovrapponeva l'Odissea dei mercanti".
    Guglielmo Embriaco farà ritorno in madre patria avendo ricevuto la donazione da parte di Boemondo, nuovo principe di Antiochia, della chiesa di San Giovanni e la piazza antistante, trenta case e un pozzo. In particolare, un fondaco per mercature e l'esenzione perpetua da ogni imposta: il primo nodo di un'architettura reticolare che sarà tessuta nei secoli a venire.
    E da qui che parte l'irradiamento ligure. Come si diceva il baricentro è prevalentemente - e per quasi mezzo millennio - a Oriente (Caffa, che non si peritava di definirsi "la seconda Costantinopoli", è perduta nel 1475 e Chio nel 1566). L'avanzata turca e tartara, che blocca le antiche vie commerciali, sposterà necessariamente questo baricentro dall'altro lato del Mediterraneo.
    E sarà el Syglo de los Genoveses, i banchieri di Carlo V e Filippo II che incamerano l'oro spagnolo, giunto a Siviglia proveniente dalle Nuove Indie, e lo trasformano in soldo per gli eserciti imperiali acquartierati in Fiandra attraverso il meccanismo delle lettere di credito. Come scriverà il poeta spagnolo Felipe de Quevedo, Don Dinero troverà sepoltura in Genova, negli stupendi palazzi dei suoi mercanti/finanzieri (nasce en las Indias honrado / donde el mundo le acompaña / vien a morir en España / y es en Genova enterrado).
    Ha certamente ragione Edoardo Grendi quando afferma che II Secolo dei Genovesi (grosso modo tra il 1550 e il 1627) "è il ruolo strepitoso di una trentina di uomini di negozio straordinariamente brillanti e sofisticati nella mobilitazione del credito su scala europea.
    'E certamente - scrive Braudel - il più curioso esempio di polarizzazione e di concentrazione che abbia offerto finora la storia dell'economia-mondo europea, in quanto ruota attorno a un punto pressoché inesistente' - non Genova, ma appunto un pugno di banchieri-finanzieri". Certo, l'individualismo tenace che caratterizza l'intera storia della comunità genovese trova in questa vicenda quasi il suo paradigma. Ma è anche momento accelerativo di un millenario irradiamento. Già nel 1503 l'ambasciatore della repubblica di Venezia in Francia riferiva che "un terzo di Genova viveva in Spagna", dal momento che era a conoscenza di almeno 300 case commerciali stabilite nella penisola. Ciò che l'ambasciatore non sapeva è che innumerevoli altri liguri erano ormai intimamente mescolati con spagnoli e portoghesi, avendo ispanizzato il proprio cognome. E non tutti erano banchieri o mercanti.
    Il Genovese diventa così una lingua franca e commerciale a larghissima diffusione. C'è un episodio curioso che lo dimostra: quando Vasco de Gama sbarca a Calicut nel 1494, può comunicare con le autorità locali grazie a "dois moros de Tunes che sabiem falar castelhano e genoves", due tunisini che fungevano da interpreti parlando oltre che il catalano anche il genovese.
    Perché questa lingua è conosciuta nell'area iberica già da molto tempo. Fin dal XIV secolo il primo cronista portoghese, Fernao Lopes, segnala - infatti - la presenza a Lisbona di insediamenti commerciali genovesi. Alla fine del XV i nostri mercanti formano ormai una prospera colonia.
    Fra l'altro, è noto come Cristoforo Colombo sia arrivato in Portogallo al servizio dei Centurione, degli Spinola e dei Negro, tutti mercanti genovesi. Alcuni di costoro si trasferiranno successivamente e stabilmente dall'altra parte dell'Atlantico, in Brasile. Ma la maggior parte di loro si indirizzerà verso l'Andalusia, seguendo l'avanzata della riconquista. Alcuni sceglieranno le terre cristiane, altri quelle mussulmane; sempre e solo in cerca di affari.
    Tutte le merci valgono a tale scopo: zucchero, cereali, cordami, rame e piombo. Soprattutto oro. Quell'oro che - in un primo momento - arriva in Spagna dal Sudan attraverso il Magreb, poi dalle Americhe. Nella seconda metà del Cinquecento il massimo addensamento delle reti commerciali genovesi è nella penisola iberica. Ma i reticoli intrecciati dai mercanti/finanzieri liguri avvolgono l'Europa intera. Dalle fiere di Besançon alla Germania dei banchieri Fugger (in collaborazione coi quali corrompono gli elettori palatini per determinare l'elezione del giovane Asburgo, poi Carlo V).
    L'irradiamento e la conseguente diaspora, sulle linee tracciate da questa vocazione per il commercio a lunga distanza, dà vita a una vera e propria comunità cosmopolita genovese. Che fonda ripetutamente "atra Zenoa"; quelle colonie cantate da Luchetto, crogiolo di genti diverse omogeneizzate dall'elemento genovese.
    Dunque, anche dalla lingua.
    Precoci sono gli esempi di documenti bilingui, come - ad esempio - gli atti redatti a Tunisi nel 1288 da Pietro di Battifoglio. Visitatori stranieri rilevavano il forte radicamento del Genovese nell'isola di Scio, possedimento dei Giustiniani dal 1346 al 1566.
    I traffici e le relazioni lasciano tracce evidenti nel vocabolario ligure. Agli influssi greci si è già fatto riferimento indiretto ricordando il periodo bizantino (è probabile che un suo lascito vada individuato nella parola mandillu, per "fazzoletto", che deriva dal tardo greco matélion, attestato nel medioevo sotto la forma mandili).
    Vanno certamente menzionati i retaggi ebraici (a Genova è presente un'importante comunità già a partire dall'età di Teodorico, di cui il re protesse il culto e le proprietà), riscontrabili in termini come pasqua e sabbo, per sabato. D'altra parte, la storia spiega facilmente la consistenza quantitativa della presenza degli arabismi lessicali: darsena (dar as-sina'a, "casa delle costruzioni"), camallo (hammâl, portatore), azimut, astrulab per "astrolabio"; la metonimia (ossia, la figura retorica che usa "la parte" per "il tutto") secondo cui la barca anticamente prendeva il nome di "legno", ci riporta al vocabolo arabo al'ud (da cui l'etimologia di "leudo", tipica imbarcazione ligure); da maunah, "assistenza", deriverà il termine "maona" con cui si definiscono le antiche joint-venture (le compagnie commerciali e militari, temporanee e pattizie, grazie alle quali i privati cittadini affrontano le più difficili imprese dell'epoca).
    Una lunga evoluzione del linguaggio che parla di prestiti che diventano doni, scambi e usucapioni. Nei due sensi.
    L'espressione "maona", rilevata a Messina fino al '500, è sconosciuta nella Sicilia occidentale assai più arabizzata; segno che non è stata mutuata dall'arabo ma è un'eredità di lunghe frequentazioni coi genovesi. Negli statuti comunali di Sassari e Cagliari troviamo parole come rumenta o lantora (per "allora"), spie di un'evidente influenza linguistica. Rumenta per "spazzatura" è in uso ancora oggi nel dialetto bergamasco. Ma qui il collegamento risulta molto facile: è noto - infatti - il precocissimo flusso di lombardi verso Genova e il loro costituirsi in colonia già a partire dal XIII secolo. L'insediamento lombardo avrà nel 1266 un proprio console, Giovanni dé Gargani da Bergamo. Risale al 1340 il primo Statuto di quella "Compagnia dei Caravana" (dall'arabo caravan, "viaggio") cui le autorità locali, sotto l'alta protezione del Banco di San Giorgio, concedevano il privilegio di operare in regime di monopolio nel "porto franco" e che era composta esclusivamente da lavoratori provenienti dalla Val Brembana e dalla Val Seriana. La Compagnia, attiva sino ai nostri giorni, mantenne l'esclusività di provenienza dei soci (che mandavano le mogli a partorire nei comuni d'origine per poter trasmettere il privilegio anche ai propri figli) sino al 1848.
    A Genova si definisce besugo una persona addormentata e un po' sciocca, ma "besugo" è anche la denominazione iberica del pagaro d'altura (la cui espressione non è propriamente furba), piatto nazionale spagnolo. Biscöchinn-a (per qualcosa fatta "alla carlona", malamente) deriva con grande probabilità da un verbo arcaico del Midi: "bisquayer", incoccare male la freccia. Come "bò e tribò" sono la versione ligure del francese "babord' (lato sinistro della nave o semplicemente "sinistra") e "tribord" (lato di "dritta"). Del resto, notevoli sono le assonanze riscontrabili con l'area occitana (che si estende tra il golfo di Biscaglia e quello del Leone, tra le Alpi e i Pirenei); non solo per la vicinanza geografica, soprattutto per le intensissime frequentazioni marittimo-commerciali: "acqua" diventa in genovese àigua, in provenzale aiga e in catalano aygua; l'erica, vegetazione tipica della macchia mediterranea, in genovese è brügu, bruc in provenzale e bruga in catalano.
    Una interdipendenza linguistica che prosegue fin quasi in età contemporanea. Manuali inglesi dei primi del '900 segnalano come i loro marinai (insieme agli olandesi, danesi e portoghesi) utilizzassero una sorta di gergo franco denominato "savvy", la cui matrice veniva indicata nel genovese. D'altro canto i nostri vecchi portuali chiamavano "bestia" (da best) il primo rimorchiatore della flotta; "per mezzo dei ganci" in inglese si dice by books e si pronuncia baiuks, da qui "bailùcchi″ termine usato dai portuali fino all'avvento dei container; gang diventa "ghèn", squadra; "fâ tambelocche", fare un capitombolo, costituisce la versione omofona di to tumble.
    In questa rapida elencazione - come è facile vedere - l'elemento "marino" ritorna con notevole frequenza. In prevalenza. Dunque, il Genovese come "lingua mediterranea"?
    Certo non nel senso che presupporrebbe l'esistenza di una "lingua-madre" quale matrice di parlate che ne derivano direttamente.
    Magari alla maniera del latino nei confronti delle lingue "romanze" o del presunto indoeuropeo (all'interno del cui "paradigma" da due secoli risolviamo i problemi linguistici delle affinità tra idiomi geograficamente lontanissimi). Magari una sorta di "sumeroaccadico" dei popoli del mari. La koiné mesopotamica che ora qualche straordinario irregolare della linguistica individua come "madre di tutte le lingue" (ma certe etimologie ci sorprendono e sconcertano: i primi indoeuropei vengono denominati "kurgani" per via delle loro tombe collinari; ma in sumero kur significa "altura" e ganunu "luogo di abitazione").
    Niente di tutto ciò. Semmai un immenso, millenario, lavoro di sedimentazione che Claudio Magris, in una pagina stupenda della sua prefazione al breviario "Mediterraneo" del russo-croato Predrag Matvejevic, così descrive: "il mondo, la realtà, i gesti e il vociare delle persone, lo stile delle capitanerie, l'indefinibile trapassare della natura nella storia e nell'arte, il prolungarsi della forma delle coste nelle forme dell'architettura, i confini tracciati dalla cultura dell'ulivo, dall'espandersi di una religione o dalla migrazione delle anguille, i destini e le storie custodite nei dizionari nautici e nelle lingue scomparse, il linguaggio delle onde e dei moli, i gerghi e le paliate che mutano impercettibilmente nello spazio e nel tempo, chiacchiera, ciacola e cakula; scirocco, silok e siroko; neve, nevera e neverin; barca, barcon, barcosa, barcusius, bragoc”
    Nella storia immobile di questo mare "tra montagne", in cui il tempo geografico si incontra e sovrappone al tempo sociale e a quello individuale, la parlata mediterranea è - per dirla musicalmente - il "basso continuo" di assonanze ed etimologie, sonorità e cadenze che si intrecciano dando vita a un ordito che l'orecchio percepisce come inconfondibile.
    Il risultato di incontri, dunque contaminazioni ininterrotte. Lungo piste marine senza confini, inseguendo i traffici dell'ambra o le peregrinazioni degli ebrei sefarditi, i linguaggi si sono succeduti e parole appartenute alle lingue scomparse si ritrovano in quelle vive.
    Il Genovese è certamente un rifugio offerto alla sopravvivenza di retaggi millenari. Quasi la declinazione di una metalingua. Contenitore delle tracce di epopee antichissime, che a Genova si riprodurranno ancora una volta nell'Ottocento, con l'oceanizzazione della sua flotta mercantile adibita al trasporto degli emigranti. I primi sbarchi avverranno nelle terre bagnate dal Rio della Piata.
    Un poeta-cantore dei nostri giorni, Fabrizio De André, catturerà questa metalingua - incomprensibile come un "gramelot" di Dario Fo, eppure riconoscibile - nel suo disco forse più bello: Creuza de ma.



    Il filo dell'appartenenza

    Già abbiamo ricordato le esplorazioni delle coste latinoamericane nella prima metà del '500, caratterizzate da una consistente presenza di liguri. Tre secoli dopo inizia a scorrere una fiumana di donne e uomini con destinazione Rio de la Piata (solo ora le scienze sociali iniziano a capire che i flussi migratori sono altamente strutturati; e che lo erano anche in passato). Ancora una volta l'elemento regionale è prevalente, riscontrabile negli stessi cognomi di quegli emigranti: Carrega, Bertora, Cichero, Caffarena, Baglietto, Dallorso, Tassara, Lavarello, Maggiolo, Craviotto…
    Grosso modo, tra il 1850 e il 1915, sono novantamila gli immigrati liguri in Argentina. Non a caso - attualmente - ci sono più Sanguineo nell'elenco telefonico di Buenos Aires che in quello di Genova.
    Punto di raccolta di queste derive attraverso l'Atlantico è la Boca del Riachuelo de los navios, diventato poi un quartiere di Buenos Aires con la semplice denominazione di "Boca". Le sue vicende non sono del tutto note, in particolare la creazione di una "Repubblica della Boca", indipendente dal resto della nazione Argentina, proclamata dalla popolazione di origine ligure. Certa - invece - è la testarda difesa da parte di quella comunità delle proprie radici identitarie, già dal nome che attribuiscono al loro quartiere: Genova chica.
    Altrettanto nota è la forte spinta all'associazionismo (probabile conseguenza del fatto che le ragioni dell'emigrazione erano "politiche" in moltissimi casi di ex carbonari, poi mazziniani, e dipendevano dalla necessità di sottrarsi alle repressioni successive ai moti rivoluzionari scoppiati in madre patria tra gli anni 1821-1831 e 1833-1847). Già nel 1885 viene fondata la Società Ligure, cui fece seguito un florilegio di circoli e periodici che coltivavano l'antica parlata. Nei primi del Novecento "La Famiglia Zeneize" stampava la testata O Balilla - L'organetto di Zeneixi in Genovese ed esibiva lo stesso stendardo della "Compagna", croce di Genova con l'effigie di San Giorgio.
    In questa fucina si forgia la cosiddetta "cultura bochense" che vede i genovesi e i liguri partecipare attivamente alla vita culturale della nuova patria (tra l'altro si chiama Juan Filiberti il musicista che negli anni Venti compone il tango - forse - internazionalmente più famoso, Caminito). Si genovesizza il quotidiano, cibo compreso.
    L'effetto di tali apporti si nota perfino sulla mensa criolla, ibridata di gastronomia genovese (o meglio, recchese). In spacci divenuti famosi come "il Priano", "du Gustavin" (Angelo Gustavino) o "Rancho Banchero", si cucina la focaccia al formaggio di Recco, la cui uscita dal forno è attesa da un largo pubblico di liguri e non.
    Un successo alimentare che - tra l'altro - conterrà anche in epoca recentissima l'espansione internazionale della pizza napoletana in terra argentina.
    Tradizione alimentare che si intreccia col canto nei cori bochensi che, per oltre un secolo, intonano i versi di "Capitan Remescia":

    " Vegia Buca mi te cantu in questu dialectu ceu
    e cun parole de incantu, sti versi te chàntu"

    .
    Il canto come ricordo ed affermazione nostalgica delle proprie "radici".
    Il canto - e la musica in genere - quale elemento fondamentale della natura e delle modalità comunicative della cultura genovese, già attestato in epoche remote (lo si è già detto parlando di miti e lemmi delle Grecia classica).
    La sintesi popolare più nota di questo intreccio emozionale è proprio una canzone. Di origini incerte (forse di autori anonimi, forse composta da Mario Cappello su musica del maestro Margutti), Ma se ghe pensu esprime perfettamente la nostalgia e - al tempo stesso - lo spirito di appartenenza del ligure in terra lontana. Il vero inno alla nostalgia:

    "U l'èa partiu sema 'na palanca,
    èa za trent'anni, forse anche ciy.
    U l'aja lutòu pe mette i dinæ aa banca
    e puéisene in giurnu vegnî in zy
    e fase a palasinn-a e u giardinettu,
    cuu ranpicante cua cantinn-a e u vin,
    a branda atacaa ai èrbui à yzu lettu,
    pe daghe 'na schenaa seja e matin.
    Ma u figgiu u ghe dixêa: "Nu ghe pensâ
    a Zena cose ti ghe vœ turnâ?!"
    Ma se ghe pensu alûa mi veddu u ma,
    veddu i ma munti e a ciassa d'Anunsiaa,
    riveddu u Righi e me s'astrenze u cœ,
    veddu a lanterna, a cava, lazý u mœ,
    riveddu a seja Zena ilyminaa,
    veddu la a fuxe e sentu franze u mâ
    e alûa mi pensu ancun de riturnâ
    à pösâ e osse duv'ho ma madunaa.
    E l'êa pasòu d'u tenpu, forse troppu,
    u figgiu u l'inscistéiva: "Stemmu ben,
    duve t'œ anâ, papà, pensiêmu doppu,
    u viâgiu, u mâ, t'ee vegiu, nu cunven!"
    "Oh nu, oh nu me sentu ancun in ganba,
    sun styffu nu ne possu pròppiu ciy,
    sun stancu de sentî señor caramba,
    mi vœggiu riturnâmene ancu'in zi:
    ti t'ee nasciyu e t'æ parlòu spagnollu,
    mi sun nasciyu zeneize, e nu me mollu!"
    Ma se ghe pensu alûa mi veddu u ma,
    veddu i ma munti e a ciassa d'Anunsiaa,
    riveddu u Righi e me s'astrenze u cœ,
    veddu a lanterna, a cava, lazý u mœ,
    riveddu a seja Zena ilyminaa,
    veddu la a fuxe e sentu franze u mâ
    e alûa mi pensu ancun de riturnâ
    à pösâ e osse duv'ho ma madunaa.
    E sensa tante cose u l'è partîu
    e à Zena u g'ha furmòu turna u so nîu. "


    Tutto è racchiuso in quel verso: "mi sun nasciyu zeneize, e nu me mollu!", sono nato genovese e non intendo rinunciarvi!



    Oltre l'Argentina, la presenza nelle Americhe di famiglie liguri è sempre stata molto consistente; e continua a esserlo: associazioni di appartenenti a queste comunità in Brasile sono segnalate a San Paolo e a Porto Alegre; un flusso proveniente dal Tigullio si indirizzò nell'Ottocento verso il Perù; per quanto riguarda il Cile, Valparaiso è sede dell'associazione nazionale dei liguri e gruppi provenienti da Bogliasco, Sori e Recco si sono stabiliti ad Antofagasta, Conception e Temuco. I savonesi presero la direzione dell'Uruguay e della California.
    Molto interessante (e meno noto) il flusso ligure verso l'America del Nord. Intorno alla metà dell'Ottocento i primi nuclei italiani dell'Est degli Stati Uniti (New York, Boston, Filadelfia e Chicago) erano costituiti prevalentemente da immigrati liguri. Presto attratti, all'epoca della "corsa dell'oro", dalla parte occidentale del continente.
    Le cifre del fenomeno non sono conosciute, eppure si può arguire fossero molto consistenti: da un elenco di centodiciotto sudditi del re di Sardegna domiciliati a San Francisco, inviato a Torino il 31 gennaio 1853 dal primo console sardo, risulta che almeno trentanove erano di sicura provenienza genovese. Nel 1900, quando in California vivevano ventimila persone di origine italiana, Carlo Dondero (nativo di Cicagna, tipografo, giornalista e storico) riferiva che la metà aveva discendenza ligure. Non a caso, nel gergo "italocaliforniano" ancora oggi gli addetti alla raccolta dei rifiuti vengono chiamati "rumentai"".
    Queste comunità conobbero sovente un rapido successo economico e la conseguente ascesa sociale, senza per questo smarrire il ricordo della propria provenienza. Nel 1904 nasce in California ad opera degli italiani trapiantati in quello Stato - un piccolo istituto bancario che poi, nel 1930, diventerà niente meno che la colossale Bank of America. Ma il suo nome iniziale era Bank of Italy, con un consiglio direttivo formato prevalentemente da genovesi (Levaggi, Grondona, Chighizola e Demartini).
    Anche per questo, lungo buona parte del Novecento, il filo dell'appartenenza viene costantemente ritessuto da artisti zeneizi (grandi attori come Gilberto Govi, cantanti come Antonio Marzari) grazie alle loro touné oltreoceano. Le loro "visite pastorali" ad atra Zenoa.
    La parola incontra così nella canzone - dunque, nella musica un potente supporto per la riaffermazione delle radici.
    La musica genovese.
    Ma a Genova la musica "alta" non trova espressioni particolarmente significative.
    Nicolò Paganini a parte, naturalmente (ma, come si diceva, "una rondine non fa primavera"…).
    Città intimamente commerciale, a lungo preferisce importare talenti "da fuori". Da Franchino Gaffurio ad Alessandro Stradella.
    Ben più interessante - invece - la tradizione popolare e folklorica; sia nelle forme del Trallallero che del canto monovocalico.
    Guardati con sospetto dalle autorità in quanto ritenuti fomentatori di disordini e di probabile origine liturgica, i Trallallerì sono canti a cinque voci: falsetto (cuntrètu), tenore (primmu), chitarra (imitazione vocale dello strumento), baritono (cuntrubassu) e basso.
    Luogo deputato a questa forma di canto è l'osteria; dove "i canterini" che vi si riuniscono sono lavoratori provenienti dal vicino entroterra (per lo più, Val Polcevera e Val Bisagno).
    Per quanto riguarda il canto monovocale genovese, un suo aspetto ci sembra particolarmente significativo: è in prevalenza femminile.
    Quasi il segno di una sorta di "matriarcato per necessità".
    Infatti, nella caratteristica ripartizione locale dei ruoli familiari (in cui la componente maschile di frequente latitava, allontanata da commerci e navigazioni) spettava alle donne l'amministrazione della casa e l'educazione dei figli. Per questo le canzoni pervenuteci sono sovente ninne-nanne: "fa a nanà puppun de pessa / che to mue a l'è andèta a messa.
    Ma l'esempio più noto, "Lanterna. de Zena", parla soprattutto di fatica e lavoro:

    “Lamterna de Zena a l'è fêta a trei canti
    Maria cui guanti
    Lascela passa.
    A tr'oue de notte che tutti l'han vista
    ha fava pruvista”.


    Forse la nostra Maria, alle tre di notte, andava a vendere minestrone ai marinai dei velieri ormeggiati in porto…
    Sia nella forma corale che in quella individuale, il canto genovese affonda le proprie radici nella civiltà materiale del territorio e del tempo.
    Attraverso il canto si difende la propria identità a rischio. E la propria dignità: di donna, di abitanti periferici che praticano il pendolarismo tra le valli e la città con grande fierezza.
    A quest'ultimo proposito, resiste il ricordo delle rivalità tra le varie squadre di "canterini di Trallallero", che non di rado sfociavano in vere e proprie contese musicali (le cui giurie erano costituite da non vedenti per evitare favoritismi).
    Rivendicazioni, nostalgia, difesa della propria dignità. Nel canto popolare genovese c'è ben poco spazio per il "grazioso". In assoluta coerenza con un linguaggio che, specchio fedele del proprio spirito, ignora il vezzeggiativo.
    Ma anche segno di un'oppressione esercitata sugli strati sociali subalterni, la cui cultura sopravvive soltanto nelle sempre più fioche tradizioni orali; nel recupero (parziale e sempre a proprio uso e consumo) fattone da parte dei ceti dominanti, normalizzandone la "carica" polemica.



    Da: La lingua ritrovata nella canzone di Pellizzetti Pierfranco

    Regole per leggere il Genovese

    Gli esempi sono riportati in due forme: con la grafia tradizionale (in carattere corsivo), e con la grafia figurata (fra parentesi quadra) per avvicinare - chi non conosce il Genovese - alla pronuncia corretta.
    Il suono delle vocali
    - è lungo, quando sono scritte con la dièresi (ä,ë,ï,ö,ü) o con l'accento circonflesso (â,ê,î,ô,û), per esempio: cäo [kāu] "caro"; durmî [durmī] "dormire";
    - è lungo, quando sono seguite da gh, r, v, x, z semplici e non raddoppiate, per esempio: lago [lāgu] "lago"; caro [kāru] "carro";

    Il suono della e è generalmente chiuso, tranne davanti a r; ma se è segnata con l'accento grave (è), il suono è aperto, per esempio: pènsighe [pènsighe] "pensaci".
    La consonante doppia si pronuncia in modo leggero e rapido, mai calcato, per esempio ratto [ratu] "topo", merelli [mereli] "fragole", gimmo [çima] "cima".

    Attenzione:
    æ si legge come e dal suono aperto e lungo, esempio: ægua [egua] "acqua"; quando si trova alla fine della parola, si legge accentato, per esempio: anse "andæ";

    œu e eu si leggono come in Francese, per esempio: feugo [fögu] "fuoco", cœu [kò] "cuore"; quando si trovano alla fine della parola, si leggono accentati, per esempio: raieu [raiö] "ravioli";

    o si legge come u italiana, per esempio: onda [unda] "onda", amigo [amigu] "amico";

    ö si legge come o italiana e si pronuncia con suono aperto; ò ha un suono lungo che oscilla tra o e u, per esempio: pöso [posu] "stantio", ma anche: pöso [pusu] "polso".

    u si legge come u francese, per esempio: mùxica [müsgica] "musica", tutto [tütu] "tutto"; ma si legge come u italiana quando fa parte di un dittongo [ou, ua], esempio: portòu [purtóu] "portato", sguäro [sguaru] "fenditura";

    ç si legge come s sorda italiana, per esempio: çenn-a [sén-a] "cena";

    nn- e n finale si leggono con suono nasale; per esempio: lunn-a [lün-a] "luna", can [kan] "cane";

    s si legge come s sorda nell'italiano "sale", per esempio: fäso [fāsu] "falso";

    scc si legge come se di "uscio" seguita da c di "ciao", per esempio: scciavo [scciavu] "schiavo";

    x.si legge come j francese, per esempio: baxo [basgiu] "bacio";

    z si legge sempre come s sonora nell'italiano "casa", per esempio: zenoggio [senùgiu] "ginocchio", cazze [kase] "cadere".

    Di: Massimo Angelini e Fiorenzo Toso.


    Fotografie provenienti dall'archivio della Provincia di Genova
    le foto sono inserite a solo scopo ludico/culturale, NON si intende violare alcun diritto d'autore

    Continua....
     
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