"Caffè Zibaldone"

...una casa senza libri è una fortezza senza armi...

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    ho inziato ieri sera questo:

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    Inverno 2012. Uno scrittore cammina tra le rovine di quella che, negli anni Trenta, è stata una delle più belle ville d'Europa, cuore di infinite serate mondane dell'aristocrazia: il Carinhall, la maestosa costruzione fatta erigere da Hermann Göring in memoria della sua prima moglie, la baronessa Carin von Fock. Hermann e Carin si erano conosciuti durante una tempestosa notte svedese del 1920. La neve che avvolgeva Stoccolma in un manto bianco impediva a Hermann di librarsi in volo. La famiglia von Fock era stata felice di offrire alloggio e ospitalità al giovane aviatore, l'erede del Barone Rosso. Uno sguardo, e tra la principessa delle nevi e l'acrobata dei cieli sbocciò l'amore. Poco importava che Carin fosse sposata, che fosse già madre. Hermann la portò via con sé, sfidando sul suo biplano la tormenta e lo scandalo. Arrivarono in Germania, Carin ottenne il divorzio e poterono sposarsi. Erano innamorati e splendidi come dèi della mitologia scandinava, il loro amore divenne "il romanzo del popolo". Fino all'incontro che avrebbe cambiato la loro vita: Hitler, al cui fianco tentare il colpo di Stato. Ma il Putsch di Monaco fallì e Hermann fu bandito dai patri confini. Cominciò così il loro esilio europeo, che li tenne lontani dalla Germania fino al 1927. Carin, già malata, si aggravò. Si spense nell'ottobre del 1931, quattro giorni prima del suo quarantunesimo compleanno. Hermann, grasso e morfinomane, l'ombra del giovane che l'aveva fatta innamorare, non era con lei...

    un libro che, divorerò...
    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 10/2/2016, 08:16
     
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    ho appena iniziato questo



    Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto con il padre fascista, e gli concede idealmente l'onore delle armi.

    «Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei "ragazzi di Salò". «Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla "gabbia del gorilla" in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di "esule in Patria" nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. «Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine. «Per scoprire, alla fine, che gli esseri umani non sono monoliti, figure unidimensionali sulle quali incollare un'etichetta semplificatrice, ma persone vitali e vitalmente piene di contraddizioni. E per capire che i concetti più cari a noi italiani, la "parte giusta" e la "parte sbagliata", sono molto più friabili e complicati di quanto ci piacerebbe immaginare.» Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto con il padre fascista, e gli concede idealmente l'onore delle armi. Così, riannoda i fili spezzati di una tormentata vicenda familiare e trova un modo adulto di confrontarsi, in un libro indimenticabile, con un pezzo non meno tormentato della nostra storia.

    Mi ha incuriosito il titolo e anche il fatto che, anche mio padre lo era.
    Mio padre, che in nessun modo ha inciso sulle scelte di qualsiasi tipo di intendere la vita mia, di mia sorella e di mio fratello e difatti siamo diversissimi.
    Mio padre che per non alimentare l'odio e la violenza (sia fisica che verbale) che aveva ricevuto per le sue idee non conformi nell'Italia del secondo dopoguerra, mai ci aveva narrato di queste cose; cose che siamo venuti a sapere, dopo la sua morte tramite nostra madre.
    Tornando al libro, lo trovo molto curioso e sono sempre desideroso di andare avanti e leggerne sempre di più.
    saluti
    Piero e famiglia
     
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    dopo essere rimasto deciamente deluso dalla lettura del libro di PG Battista sul padre fascista, libro pieno zeppo di mezze verità, falsità e luoghi comuni, dove, a mio modesto e sindacabile parere, denigra il padre invece di rendergli tributo, ho deciso di ri-leggere questo libro di Roger Scruton, un filosofo inglese che apprezzo molto anche se, a volte, non condivido in toto quello che scrive.



    "Questo è il messaggio conservatore per la nostra epoca, un messaggio che va oltre la politica e che deve essere recepito se si vuole che una politica a misura d'uomo rimanga una possibilità." Apprezzato filosofo e vivace polemista, Roger Scruton nulla concede alle mode intellettuali e dichiara in modo schietto in cosa crede e perché: il risultato è un'immagine della società governata dalla consuetudine e dalla tradizione.

    ecco un sunto e una analisi del libro
    Sul Manifesto dei conservatori di Roger Scruton

    Fabio Brotto

    Roger Scruton è un pensatore che a me piace molto. In parte per la mia anglofilia, in parte perché è un conservatore, in parte perché ha scritto un libro in difesa della caccia. Il suo Manifesto dei conservatori, che esce ora nella collana diretta da Giulio Giorello per Raffaello Cortina (trad. di D. Damiani - brutto titolo italiano, l’originale è A Political Philosophy), è un libro da leggere assolutamente. Qui esaminerò alcuni dei suoi passaggi fondamentali. Scruton è intanto un difensore dello Stato-Nazione, e sospettoso nei confronti degli organismi sovranazionali. Eccone un passo:

    … qualunque allargamento della giurisdizione oltre le frontiere dello stato-nazione conduce a un calo di responsabilità. Prendiamo l’esempio della Commissione Europea: dal momento della sua istituzione nessun contabile è stato in grado di far valere le sue relazioni e quando si permette di attirare l’attenzione pubblica su questo fatto può persino essere destituito dal (teoricamente responsabile) Commissario che lo considera incapace di ricoprire il suo ruolo. Lo scandalo che ne consegue dura per qualche giorno, ma il Commissario in causa - nel caso più recente Neil Kinnock - si limita a veleggiare nella tempesta con un sorriso, certo che nessuno sia autorizzato a destituire lui a causa di una così irrilevante interpretazione personale delle regole. Se si guarda ad altre istituzioni transnazionali, si scoprirà che prevale un analogo tipo di corruzione e gli organismi delle Nazioni Unite ne hanno data ampia dimostrazione - UNESCO, OMS, ILO (Organizzazione internazionale per il lavoro - OIL) in ugual misura.` Nessuno è autorizzato a fare la guardia a questi guardiani, visto che la catena di responsabilità che consente ai cittadini comuni di sollevarli dagli incarichi è stata efficacemente interrotta.

    In poche parole, la responsabilità è un sottoprodotto naturale della sovranità nazionale messo in pericolo dall’autorità transnazionale. Anche se l’idea di diritti umani è associata alla Dichiarazione universale dei diritti umani, uno dei principi dello Statuto delle Nazioni Unite, questo universalismo va preso con un pizzico di buonsenso. I diritti non nascono solo perché si enunciano: nascono perché possano essere fatti rispettare; e possono essere fatti rispettare solo dove vi sia un principio di legalità. D’altra parte, si dà un principio di legalità solo dove esista una giurisdizione comune, grazie alla quale l’entità che applica la legge ne è anche soggetta. Al di fuori dello stato-nazione, in epoca moderna, queste condizioni non si sono mai prodotte. (p. 27)

    Una solidarietà che lega i viventi ai morti che li hanno preceduti e da cui discendono, ai Padri, e di conseguenza la responsabilità di essere Padri delle generazioni che verranno: questo è ciò che dovrebbe esserci, secondo Roger Scruton, e che invece largamente manca. E a me pare che manchi particolarmente in Italia, dove il senso della nazione è debole, e anche chi rivendica lo spirito locale, per esempio della Padania, non si oppone alla devastazione del territorio, e al sorgere in ogni comune di una, due, tre zone industriali… Del resto, la nostra è una società senza Padri, che preferisce i Nonni. Quello che Scruton chiama ambientalismo radicale, quello che da noi è incarnato da Pecoraro Scanio & company, è in effetti, contraddittoriamente, un ambientalismo senza radici, senza tradizione nazionale, un ambientalismo individualistico nel senso peggiore, che ha alla base la mera spinta al godimento. Quell’ambientalismo che riempie i Parchi di visitatori che di natura non capiscono nulla, e si guarda bene dall’opporsi al proliferare delle piste da sci e alla neve artificiale. Poiché questo è un ambientalismo consumistico, che non vede l’origine del male, perché vi vedrebbe anche se stesso. Gli manca, come a tutta la nostra società, la moderazione (una delle quattro virtù cardinali, che oggi mancano tutte). Alle pp. 46 e 47 leggiamo:

    A me sembra che il più evidente punto debole dell’ambientalismo radicale sia la sua incapacità di esplorare la motivazione umana. C’è una ragione schiacciante per il degrado ambientale: l’avidità umana. Nelle zone più ricche del mondo le persone sono troppo numerose, mobili, impazienti di soddisfare ogni loro desiderio, indifferenti allo sperpero che si accumula nella loro scia, troppo pronte - nel gergo dell’economia - a esternalizzare (a trasferire ad altri) i loro costi. La maggior parte dei nostri problemi ambientali è costituita da casi specifici di tale questione generale, che può essere più semplicemente descritta come il trionfo del desiderio sulla moderazione. Può essere risolta solo quando la seconda prevarrà sul primo o, in altre parole, quando la gente avrà appreso di nuovo l’abitudine al sacrificio. Per che cosa la gente è pronta a fare sacrifici? Per le cose che ama. Quando tali sacrifici tornano a vantaggio di quelli che non sono ancora nati? Quando sono fatti per i morti. Questi sono i sentimenti fondamentali ai quali Burke e de Maistre hanno fatto appello (...) In poche parole, dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e possiamo farlo solo se abbiamo un motivo di farlo, un motivo abbastanza forte da farci moderare i nostri appetiti.

    In realtà, glosso, non si tratta tanto di appetiti quanto di desideri (qui Scruton è impreciso). Mentre gli appetiti appartengono alla sfera naturale, e la società può regolarli solo parzialmente, strutturandoli in modo da renderli inoffensivi per la collettività, i desideri sono esattamente ciò che tiene insieme la società stessa. Ed ognuna alimenta i suoi, secondo modalità ideologiche. Così i desideri di un giovane spartano sono differenti da quelli di un giovane italiano di oggi, mentre i loro appetiti sono, nella sostanza, più o meno gli stessi. Il motivo per farci moderare i desideri può essere il bene della famiglia (e fin qui un italiano ci arriva), o più in generale il bene della collettività e della nazione (e qui un italiano fatica enormemente ad arrivare).

    Nella nostra società la morte è la grande assente. Si tratta di un modo di essere assente molto particolare, ben diverso da quelli del passato, in cui pur molti cercavano di esorcizzare thanatos mediante l’edonismo o l’impegno totale per una causa, due forme di rimozione del pensiero individuale, che si ripiega sulla fragilità del sé consapevole della propria finitudine. Il modo attuale è il modo della leggerezza: la morte diviene leggera mediante il suo allontanamento dalla vita reale - col confinamento del morente in ospedale - e la sua contemporanea inflazione mediatica nei termini della fiction. Dove aumentano i serial ospedalieri, pieni di malati e morenti e cadaveri, e ancor più i serial criminali, in cui si vedono ammazzamenti, morti, cadaveri sezionati nelle sale di anatomia, ecc. Addirittura vi sono canali dedicati, come Fox Crime. Tutto ciò è paradossale, ma l’essere umano è paradossale costitutivamente, per cui non è luogo a meraviglia. In un contesto culturale di questo tipo, vi è una forte spinta alla legalizzazione dell’eutanasia. Come ho indicato in un precedente post, la questione è estremamente problematica, e in tutte le questioni problematiche la legge deve essere cauta. Ma l’individualismo radicale di tipo pannelliano, diffuso assai più che non sembri, sicuro di sé e dogmatico, vuole la legalizzazione dell’eutanasia. Roger Scruton è contrario, con buoni argomenti.

    L’amore, o comunque l’amore come noi lo conosciamo in questo regno terrestre, è una relazione fra cose che muoiono, e deve tutta la sua intensità e il suo potere consolatorio a fragilità e a fuggevolezza, contro le quali è l’unico rimedio. Non dobbiamo permettere alla legge di ripararci dalla nostra mortalità o dalla nostra fragilità, senza le quali non potremmo essere amati. Qualunque emendamento alle leggi che governano le cure mediche non dovrebbe essere volto a ripararci dalla morte, ma a proteggere il valore della vita umana contro quella che si potrebbe definire “l’erosione prodotta dalla medicina”. Se le persone verranno mantenute in vita da cure mediche oltre il punto dove l’amore finisce, e poi eliminate dalle stesse cure secondo un piano deliberato per sbarazzarsene, vivremo un’erosione costante del senso della vita umana come cosa a parte, e della morte come il suo limite luminoso. (p. 92)

    Ma è appunto l’idea che l’umano è “cosa a parte” rispetto ad ogni altra forma di vita quello che l’Occidente sta perdendo.

    Ma, davvero, ci dovrebbe essere un diritto all’eutanasia e al suicidio assistito? Per due ragioni ritengo sia pericoloso creare questi diritti. La prima è una preoccupazione generale, condivisa oggi da molti, per una sorta di “inflazione dei diritti”. Tutti nutriamo interesse per la salute, ma dire che io ho un diritto alla salute significa tramutare la mia salute nel tuo dovere. In senso lato, riempire il mondo di diritti vuol dire riempirlo di doveri e, di conseguenza, creare un fardello sempre più pesante, intollerabile ed eventualmente contraddittorio, di cui sia i cittadini in generale sia il governo - che è il loro capro espiatorio preferito - non possono liberarsi. Il diritto all’eutanasia porrebbe ai medici un dilemma impossibile, se ritenessero - come sicuramente farebbero molti - di non avere il dovere di assistere il suicidio in qualunque forma.. Sarebbe oggetto di controversia legale complessa e spiacevole, e ulteriore motivo di discredito della nozione di “diritto” agli occhi della gente comune. La seconda ragione per cui ritengo pericolosa la creazione di questi diritti è che chi traesse beneficio da una morte ne farebbe quasi certamente abuso. Dopo la morte, sarebbe difficile provare che il paziente non stesse esercitando il suo diritto di morire, e, al tempo stesso, sorgerebbero dei punti di domanda su qualunque eredità che provenisse da un decesso per eutanasia. Ancora una volta, ne scaturirebbe vasta controversia legale. (p. 93)

    Parole molto sagge. Aggiungo che la questione dei doveri è fondamentale. Dovere è, in Italia, una parola quasi scomparsa dall’uso comune. Mentre i diritti abbondano, si moltiplicano, investono anche animali e piante, e fra poco saranno concessi anche i batteri.

    Sul matrimonio gay Scruton esprime delle considerazioni in cui mi riconosco totalmente. Riporto il passo sine glossa.

    L’unione eterosessuale è pervasa dal senso che la natura sessuale del partner ci sia estranea, un territorio nel quale si entra senza una conoscenza a priori e dove l’altro, e non il Sé, è l’unica guida attendibile. Questa esperienza ha ripercussioni profonde sul nostro senso del pericolo e del mistero dell’unione sessuale, e tali ripercussioni fanno sicuramente parte di ciò che la gente aveva in mente quando ha dato al matrimonio la sua veste di sacramento e attribuito alla cerimonia il ruolo di rito di passaggio da una forma di sicurezza a un’altra. Il matrimonio tradizionale non era solo un rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, né l’unico modo di approvare e garantire l’allevamento dei figli. Era anche una drammatizzazione della differenza sessuale: la distanza che il matrimonio manteneva tra i sessi era tale che il loro congiungersi diventava un balzo esistenziale più che un esperimento transitorio. L’intenzionalità del desiderio ne era plasmata e anche se questo modellamento era - a qualche livello profondo - un universale culturale e non umano, donava al desiderio la sua nuzialità intrinseca e al matrimonio il suo fine di passaggio da uno status a un altro. Considerare il matrimonio gay semplicemente come un’altra opzione all’interno dell’istituzione significa ignorare che è proprio l’istituzione a dare forma alla motivazione per entrarvi. Il matrimonio si è sviluppato sull’idea della differenza sessuale e su tutto ciò che essa significa: rendere questa caratteristica incidentale invece che essenziale significa cambiare il matrimonio fino a non riconoscerlo più. I gay vogliono il matrimonio perché vogliono l’avallo sociale che comporta; ma se accettiamo questo tipo di unione, lo priviamo del suo significato sociale, come la benedizione conferita ai vivi da chi non è ancora nato. Pertanto, la pressione esercitata per l’accettazione dei matrimoni gay è, in una certa misura, controproducente. Assomiglia a ciò che ha fatto Enrico VIII per ottenere l’approvazione ecclesiastica al suo divorzio, nominandosi capo della Chiesa: la Chiesa che ha accettato il suo divorzio non era più la Chiesa di cui egli cercava l’avallo.

    Questo non altera il fatto che il matrimonio gay alimenti la propensione occulta dello Stato postmoderno a riscrivere tutti i vincoli come fossero contratti tra i vivi. È praticamente una certezza che lo Stato americano, agendo attraverso la Corte Suprema, “scoprirà” un diritto legale per il matrimonio gay, esattamente come ha scoperto diritti costituzionali per l’aborto e la pornografia, e come - quando gli sarà chiesto - scoprirà il diritto a un divorzio “senza colpevoli” così da non avere, in pratica, alcuna motivazione.

    Chi si angustia per tutto ciò e vuole esprimere la sua protesta dovrà lottare contro potenti forme di censura. La gente che dissente da ciò che sta rapidamente diventando un’ortodossia nella questione dei “diritti dei gay” è regolarmente accusata di “omofobia”. In tutta l’America ci sono comitati, preposti alle nomine di candidati, che li esaminano attentamente per sospetta omofobia, e certuni vengono sommariamente liquidati una volta che sia stata formulata l’accusa: “No, non si può accettare la richiesta di quella donna di fare parte di una giuria in un processo, è una cristiana fondamentalista e omofobica”; “No, anche se è un’autorità mondiale in materia di geroglifici della 11 Dinastia, non si può farlo entrare di ruolo all’università dopo quella sua filippica omofobica di venerdì scorso”. Questa censura promuoverà la causa di chi si è impegnato a “normalizzare” l’idea dell’unione omosessuale: non sarà possibile opporsi, non più di quanto sia stato possibile opporsi alla censura femminista sulla verità della differenza sessuale. Forse, fra adulti consenzienti, solo in privato, sarà possibile coltivare il pensiero che il matrimonio omosessuale non sia affatto un matrimonio. (pp. 117 - 119)

    L’anno scorso, durante la stagione della caccia, mi è capitato di entrare in un bar vestito da cacciatore, per un caffè. Il barista mi ha rivolto uno sguardo carico d’odio, e mi ha servito il caffè con evidente disprezzo. Poi l’ho sentito mormorare alla moglie: “vorrei che un’animale potesse sparargli”. Sono sicuro che se fossi entrato tutto vestito di nero, con una pistola visibile sotto l’ascella, e con l’aria da killer professionista, nello sguardo del barista avrei intravisto paura, fascinazione, interesse, ma non odio né disprezzo. Un segno del crollo della differenza essenziale tra l’umano e l’animale, e addirittura della tendenziale supremazia dell’animale sull’umano, che è uno dei segni epocali nel nostro Occidente. Naturalmente, là in quel bar erano visibili tramezzini al prosciutto, al salmone, al granchio. Ma l’importante è che il morire dell’animale non sia mai reso visibile. Solo la visione, infatti, desta la falsa coscienza. Per questo, nessun programma tv mostra mai l’uccisione dei vitelli e dei maiali, delle cui carni tuttavia i nostri supermercati sono pieni. Le mamme cucinano quelle carni, mentre raccontano ai loro figli la storia di Cappuccetto Rosso in versione animalista, senza il cacciatore che uccide il lupo. Ma con il lupo che diventa buono (cosa mangerà in futuro, erba?). Scrive Roger Scruton a p. 160 del Manifesto dei conservatori:

    Nella misura in cui consideriamo le persone come animali, gli animali diventano a loro volta un problema per noi. Essendo discesi nella loro sfera, li guardiamo come guardiamo alle persone, ed è da qui che è sorto quello strano movimento - nel quale si è riversato un fervore che ha molto del religioso - per la “liberazione degli animali” e i “diritti degli animali”. Con una impegnativa argomentazione filosofica sarebbe possibile provare che gli altri animali sono metafisicamente diversi da noi e che, interpretata nel modo giusto, la vecchia opinione che noi, ma non loro, abbiamo un’anima è corretta - anche se il termine “anima” non dovrebbe costituire parte della prova.` È anche possibile mostrare come non ci siano elementi per attribuire diritti agli animali o per credere che abbiano desiderio o siano capaci di “liberazione”. Tuttavia, un’argomentazione filosofica non serve a dissuadere chi non capisce la questione, dal momento che le tesi filosofiche, a differenza delle convinzioni religiose, non diventano percezioni. Nella Lebenswelt, come la modella la religione, un animale e una persona occupano due nicchie diverse. Un animale non viene visto come un centro di individualità e di libertà; non è una fonte di vergogna o di giudizio; ma una parte normale del mondo empirico che condivide alcuni nostri sentimenti, senza aspirare mai al nobile, al vero o al buono. Da quella percezione degli animali scaturiva la vecchia moralità che ci proibiva di trattare le persone come animali, e viceversa: quando quella percezione si affievolisce fino a scomparire, la moralità tradizionale subisce la stessa sorte.

    I diritti proliferano tanto più quanto più inconsistente o irreale è il loro fondamento. Non possono infine che generare conflitto e caos, crollo di ogni differenza e ritorno alla legge del più forte.

    28 ottobre 2007

    saluti
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    ho iniziato ieri Le Confessioni di Agostino d'Ippona;

    Agostino ha scritto le Confessioni tra il 397 e il 400, quando era circa 45enne. Da poco più di dieci anni aveva avuto la crisi religiosa decisiva, e nella veglia Pasquale del 387 era stato battezzato dal vescovo di Milano, Ambrogio. In questa opera egli narra la sua vita, e sopratutto l'esperienza spirituale che accompagnò la sua conversione, in un continuo dialogo con DIO. Agostino Santo ci presenta Agostino uomo in una riflessione introspettiva che coglie la presenza di DIO, << più intimo della propria intimità>>, in ogni momento di vita.
    Si tratta di una "confessione" nel duplice senso che il latino dà a questo termine: confessare la propria miseria, confessare la grandezza delal misericordia di DIO.
    Per questo, dopo sedici secoli, l'uomo in ricerca trova in questo libro un pò di se stesso, un pò delle proprie confessioni


    saluti
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    Piero, volevo segnalarti un libretto per nulla impegnativo, ma che ho trovato molto piacevole. È una specie di giallo di ambientazione genovese (di Sestri) la cui azione si svolge alla fine degli anni cinquanta.
    Il titolo è "I garbati maneggi delle signorine Devoto" l'autore è Renzo Bistolfi.
    Se usi la lettura in digitale, posso fornirtelo.
     
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    CITAZIONE (marmari @ 1/6/2016, 21:40) 
    Piero, volevo segnalarti un libretto per nulla impegnativo, ma che ho trovato molto piacevole. È una specie di giallo di ambientazione genovese (di Sestri) la cui azione si svolge alla fine degli anni cinquanta.
    Il titolo è "I garbati maneggi delle signorine Devoto" l'autore è Renzo Bistolfi.
    Se usi la lettura in digitale, posso fornirtelo.

    ...è mica un libri della "Fratelli Frilli editori" ? o della de Ferrari ? ci sono diversi gialli ambientati a Genova o nel savonese...avrei anche un e-book (un regalo dei colleghi) ma non l'ho mai usato...è un raccogli polvere :( :P
    come funzionerebbe la cosa ?
    saluti e grazie mille
    Piero e famiglia
     
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    due settimane fa ci siamo recati in libreria e abbiamo fatto acquisti, ecco il primo

    Luciano Berti - La Guerra Tradita - Mursia

    Classe 1920, cresciuto nel "periodo in cui essere italiano voleva dire essere fascista", Luciano Berti, ancora studente, nel luglio del 1940, passa dalla milizia universitaria alla Scuola Allievi Ufficiali di Complemento di Artiglieri di Lucca. Nel suo diario descrive, con semplicità e a volte anche con ironia, il periodo di addestramento, la disciplina militare, la nomina al 41° Artiglieria "Firenze". E poi la vita al fronte (quello albanese e jugoslavo) e l'impatto con la guerra. Dopo l'8 settembre assiste allo sbandamento dell'Esercito Italiano e all'internamento per molti nei campi tedeschi. Altri scelgono invece di aderire alla RSI. Tra loro anche Berti, che è inquadrato nella Divisione "Littorio", combatte sul fronte alpino e viene fatto prigioniero dai francesi. Il suo è il racconto onesto, senza censure né retorica, di una guerra combattuta in nome di ideali. Il racconto di un uomo perbene che ha fatto la sua scelta, in buona fede, con coraggio e con onore.

    mi permetto di suggerirlo ai più giovani ma anche ai 50enni

    Fedor Dostoevskij - Umiliati e Offesi - Einaudi ET

    Pubblicato a puntate nel 1861 sulla rivista "Vremja", è il primo grande romanzo di Dostoevskij dopo il ritorno dalla deportazione in Siberia. "Umiliati e offesi" è costruito secondo i moduli del romanzo d'appendice in cui colpi di scena, intreccio, estrema inquietudine dei personaggi, tempi narrativi ora bruschi, ora trattenuti, danno vita a una narrazione d'effetto, spesso avvolta nel mistero. L'autore schiera i suoi personaggi su due fronti, secondo una contrapposizione netta tra vizi e virtù, luce e tenebre. Tuttavia, di là dall'epopea avventurosa, la sua capacità di soffrire insieme con i singoli personaggi, l'intensità dei sentimenti che egli infonde, conferiscono una tensione continua a questo romanzo di relazioni impossibili e d'amore.
    lo sto divorando, da leggere...


    Pubblicato nel 1868, è la storia della sconfitta di un uomo "assolutamente buono", il principe Myskin. Un romanzo intricatissimo di avvenimenti, pieno di affetti opposti e di opposti sentimenti morali che dominano tutta l'opera entro cui si agitano bene e male, odio e amore
    lo leggerò...e vi farò sapere
    saluti
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    Ho trovato interessante anche Il Giocatore.
     
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    CITAZIONE (marmari @ 17/7/2016, 22:30) 
    A me L'Idiota era piaciuto molto.
    Ho trovato interessante anche Il Giocatore.

    ...per me Fedor è una scoperta, pur avendo sempre letto tantissimo, lui e i russi in generale mi mancavano; dovrò colmare questa lacuna
    saluti e buona giornata
    Piero e famiglia
     
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    sto leggendo questo:



    Pubblicato nel 1868, è la storia della sconfitta di un uomo "assolutamente buono", il principe Myskin. Un romanzo intricatissimo di avvenimenti, pieno di affetti opposti e di opposti sentimenti morali che dominano tutta l'opera entro cui si agitano bene e male, odio e amore.

    saluti
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    Io l'ho trovato un libro da cui è difficile staccarsi. Gran studio dell'animo umano
     
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    CITAZIONE (marmari @ 13/8/2016, 08:50) 
    Io l'ho trovato un libro da cui è difficile staccarsi. Gran studio dell'animo umano

    ...infatti, più vado avanti e più mi prende...
    saluti
    Piero e famiglia
     
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    confermo, L'Idiota è un grandissimo libro e Dostoevskij, per me, una grande scoperta;
    in questo momento sto leggendo
    9788815149534_0_0_300_80
    Fra il 1934 e il 1943 il giovane giornalista Yvon De Begnac ebbe numerosi incontri con Mussolini, di cui intendeva scrivere una monumentale biografia. Davanti al suo biografo l'intervistato si abbandonava a lunghi monologhi sulla sua vita trascorsa, le sue idee, gli uomini e i fatti della sua rivoluzione. Mussolini parlava, De Begnac annotava riempiendo, incontro dopo incontro, migliaia di pagine nei suoi taccuini. Da quel materiale è nato questo volume, che al suo primo apparire è stato salutato come una fonte per cogliere appieno la personalità, le opinioni, la cultura e la vita stessa del duce del fascismo. Prefazione di Renzo De Felice.

    lo sto trovando molto interessante (Mussolini e il fascismo sono argomenti per me di grossa passione storica); ne vien fuori un lato di Mussolini, ai più sconosciuto e cioè la franchezza di pensiero e il rispetto che aveva su avversari e camerati.
    Ho letto poi in un paio d'ore un piccolo libretto che, senza falsa modestia, avrei potuto scrivere anche io: Fascismo, breve storia per giovani ignari e adulti disinformati di Furio Guberti per "i libri del Borghese".
    Poi mi butterò nel romanzo
    9788856654516_0_0_300_80
    Il dramma di una famiglia e di una nazione lacerate dalla guerra civile. Italiano contro italiano. Fratello contro fratello. In nome di opposti ideali.

    25 luglio 1943. All'annuncio della destituzione di Benito Mussolini, folle festanti invadono le città italiane. L'esito disastroso del conflitto in cui il capo del fascismo ha trascinato il paese ha capovolto il mondo di certezze che il regime aveva costruito in vent'anni. Tutti sono convinti che la fine della guerra sia ormai imminente. Quando però, l'8 settembre, finalmente arriva l'armistizio con gli alleati, è subito chiaro che il peggio comincia proprio in quel momento. È in questo clima drammatico che si incrociano le vite di alcuni giovani: Alberto, che dalle battaglie in Africa settentrionale è tornato invalido e pieno di amarezza e di rancore; suo fratello Eugenio, ancora pronto a battersi e sacrificarsi per il suo ideale fascista; Anita, loro sorella adottiva, militante comunista, e infine Stefano, che già ha combattuto contro il fascismo in Spagna. Le loro storie sono parte della nostra storia. Storie di vincitori e vinti, di vittime ed eroi, di uomini e donne posti di fronte a scelte irrevocabili e dolorose, che li contrappongono in una atroce guerra civile.
    saluti
    Piero e famiglia

    Edited by Nihil Obest - 28/12/2016, 13:01
     
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    codicecavalleresco



    L’uomo contemporaneo è in crisi di virilità. Roberto Marchesini in un aureo libretto traccia una preziosa mappa per permettergli di riscoprire se stesso e la grandezza della sua vocazione attraverso il difficile – e al tempo stesso esaltante – cammino delle virtù. Solo così nel petto dell’uomo del terzo millennio tornerà a battere il cuore di un cavaliere medievale. Le prime fra tutte le virtù sono, naturalmente, quelle dette “cardinali”.

    A che serve un Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio come quello che ha dato alle stampe Roberto Marchesini per Sugarco? Sappiamo quale sia la reazione quasi pavloviana del mainstream. Ma perché mai avere un codice? A che ci serve? Noi facciamo quello che ci pare e piace! È il principio alla base dell’edonismo di ogni tempo: lo scopo della vita sta nella ricerca del piacere.

    Ma davvero cercare il piacere vuol dire fare quello che si vuole? Qui sta precisamente l’inganno della morale del piacere. Sì, perché fare ciò che ci piace non coincide affatto col fare ciò che si vuole, ci ricorda Marchesini – che in questa sua ultima fatica riannoda le fila di un discorso iniziato sette anni fa con Quello che gli uomini non dicono. E lo prova il fatto che ci si impegni in attività faticose, che esigono sacrificio (come lo sport, lo studio, il lavoro, ecc.) senza che nessuno ci costringa a farlo. Il piacere anestetizza, solleva dalla sofferenza. Ma non può dare senso alla nostra vita. Chi pensa solo a divertirsi (dal latino divertere, cioè allontanare, deviare) in realtà è qualcuno che cerca di allontanarsi dalla sofferenza. Il divertimento sottrae per un attimo fuggente dall’angoscia di una vita senza scopo, non di più.

    Eccolo, il nemico mortale della morale del piacere: l’idea che la vita abbia un télos, uno scopo intrinseco, e che la vita trovi la sua piena realizzazione soltanto col compimento di questo scopo. L’imperativo del divertimento per tutti e a tutti i costi non vale che a consegnare la vita umana a un insensato eterno presente.

    In verità c’è stata nell’Antichità una scuola filosofica che considerava il piacere come lo scopo della vita: la scuola di Aristippo di Cirene. A differenza dell’amico Socrate, Aristippo non disputò mai sul fine ultimo della vita accontentandosi di affermare che la felicità stava nella ricerca del piacere. Una posizione che aveva delle precise conseguenze sul piano morale. Se solo il piacere è la misura del bene, allora la virtù e l’amicizia non sono altro che beni strumentali, utili solo per la nostra convenienza. Per la scuola cirenaica nemmeno esisteva un ordine naturale. «Nulla è giusto o bello o turpe per natura, ma solo per convenzione (nomos) e consuetudine (ethos)», si legge in uno dei frammenti dei Cirenaici.

    Uno dei discepoli più coerenti di Aristippo fu un certo Egesia, il quale sosteneva l’impossibilità di raggiungere la felicità (sempre intesa come piacere) poiché quaggiù sulla terra, a causa dei dolori del corpo, i piaceri si rivelano davvero pochi. E non esistendo altri valori all’infuori del piacere e dell’utilità tanto valeva allora darsi la morte. Questo radicale pessimismo valse ad Egesia il poco lusinghiero soprannome di “persuasore di morte” (peisithanatos), visto che molti, udite le sue teorie, si davano spontaneamente la morte. Per questo gli fu vietato di insegnare la sua deleteria dottrina nelle scuole.

    Inutile dire dove aleggi oggi lo spirito di Egesia. Non è difficile intravedere la sua ombra dietro all’opera di quei manutengoli senza scrupoli che accompagnano, da novelli persuasori di morte, i fragili e i deboli verso i servizi eutanasici forniti a caro prezzo da alcune cliniche svizzere. L’imperativo del piacere promette una falsa liberazione. Non porta ad altro che alla schiavitù dalle passioni, non senza prima averci illusi di aver optato liberamente per la morte. Ma c’è libertà nella scelta del nulla? Non è invece un desiderio di onnipotenza che, come quello che ghermisce Kirillov nei Demoni portandolo al suicidio, è solo il tipico prodotto di una fantasia infantile? Dunque di una volontà immatura, non pienamente realizzata?

    Le passioni, insiste Marchesini, schiavizzano se non sono dominate e orientate dalla retta ragione. Come sfuggire allora ai moderni discepoli di Egesia? Innanzitutto ricordandosi che la vita è fatta per essere spesa per qualcosa di superiore alla vita stessa. La vera felicità sta nel donare se stessi. E a questa paradossale felicità si arriva coltivando virtù come il coraggio, la prudenza, la temperanza, la giustizia.

    Solo così l’uomo arriva a realizzare se stesso trasformandosi, come dicevano i latini, da homo (l’essere biologicamente di sesso maschile) in vir, l’uomo pienamente tale. È la virtus a rendere virile un uomo, non la semplice biologia (il fatto di essere nato maschio). Il maschio ha il dovere di diventare un uomo, attuando così il potenziale donatogli al momento del concepimento.

    Come può il maschio diventare ciò che è in potenza, cioè un uomo? La virtù è come un abito (habitus). Per manifestarsi deve perciò essere indossata. Come diceva Aristotele si diventa coraggiosi se ci si comporta da coraggiosi.

    Uno dei pregi indiscutibili di Marchesini è la capacità di mostrare con chiarezza, senza nulla concedere all’ampollosità, il legame organico tra quelle che canonicamente vengono definite “virtù cardinali”. E tali sono per la loro natura di perno, dunque di base che permette di articolarsi.

    La prima tra le virtù cardinali è il coraggio (o fortezza), che non ha alcun grado di parentela con la temerarietà. Essere coraggiosi non consiste nel ricercare un annientamento fine a se stesso. Il coraggio non ha nulla a che vedere con la mistica della “bella morte”. È piuttosto la disposizione ad accettare il rischio di essere feriti, anche mortalmente, nella lotta contro il male. La fortezza pertanto presuppone un discernimento lucido tra il male e il bene. E questo giudizio richiede la virtù della prudenza, che a sua volta non si identifica con quella mediocrità anodina che rifugge ogni presa di posizione. Il vero prudente è il saggio che dopo aver individuato il bene lo abbraccia con risolutezza.

    Un’altra virtù indispensabile è la temperanza. Le emozioni non vanno soppresse ma guidate. L’emozione (dal latino emovere, smuovere, spingere all’azione) serve a dare forza al nostro agire, serve a dare un corpo vibrante alle idee. Ma guai quando è l’emozione, cioè la passione, a guidare l’azione dell’uomo! Una emozione come il timore paralizza se prende il sopravvento. Solo se la guida resta salda in mano alla ragione il timore assolve la sua funzione ordinaria: quella di essere un segnale che ci indica il pericolo, che ci dice di stare attenti. Per questo oltre al coraggio e alla prudenza è necessaria una terza virtù: la temperanza, che ci permette di dominare le passioni orientandole verso il bene.

    Infine c’è una quarta virtù cardinale: la giustizia, la capacità di dare a ciascuno quanto gli spetta. Essere giusti è qualcosa di più che osservare la semplice “legalità” (dato che, come ci insegna l’esperienza, vi possono essere leggi ingiuste che fungono da alibi a una irresponsabilità generalizzata). E l’uomo giusto nemmeno è il cultore del “doverismo” (il dovere per il dovere di kantiana memoria). Giusto è chi riconosce una legge superiore a sé e sente impegnata la propria personale responsabilità anche quando fare ciò che è giusto potrebbe nuocergli. Non c’è amore per la giustizia senza il coraggio.

    Altre qualità legate alle virtù cardinali sono la sincerità (il coraggio di dire la verità in un mondo invaso dalla menzogna), l’onore (il possesso della virtù spinto al punto di saper rinunciare anche alla propria reputazione), la lealtà (la fedeltà alla parola data, qualcosa di molto superiore al semplice rispetto della legalità), la franchezza (antidoto al cinismo), la cortesia (la volontà di dare sempre il meglio di sé, soprattutto nelle relazioni coi più deboli).
    C’è mai stato qualcuno capace di incarnare in maniera esemplare questi valori? Ebbene, c’è stato: il cavaliere. Nella cavalleria medievale gli uomini imparavano a essere generosi, coraggiosi, giusti, leali, cortesi. Morire, per il cavaliere medievale, era il coronamento di una vita donata al servizio della virtù.

    L’uomo del terzo millennio è rimasto sprovvisto di codici cavallereschi perché è rimasto senza telos, senza uno scopo da dare alla propria esistenza. Ecco perché oggi è smarrito, debole, incerto. Sono numerose le immagini evocate dagli osservatori più acuti per descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo: barbaro civilizzato, homo comfort, selvaggio con telefonino, signorino soddisfatto, bimbo viziato, uomo senza qualità, ecc.

    In definitiva l’essere rimasto puramente “maschio” appare sinistramente simile ai Proci, questi eterni adolescenti nemici giurati della figura virile di Ulisse, o alle Bandar-log, le orde scimmiesche che nel “Libro della giungla” di Kipling simboleggiano una psicologia immatura, incapace di rispettare la legge e pertanto letteralmente fuori controllo. Oggi vediamo personificate queste lugubri figure negli sciami anonimi di web-squadristi, pronti a scattare per azzannare e linciare senza pietà chiunque capiti loro a tiro. Senza lo spirito cavalleresco non resta che una massa di individui schiavizzati dal proliferare incontrollato delle passioni.

    E allora ben venga l’esortazione di Marchesini: se vogliamo cominciare ad essere responsabili, cioè uomini capaci di amare la vita, dobbiamo rottamare i falsi miti – come quello del seduttore “bello e dannato” – per tornare ad attingere a veri miti come quello del cavaliere “senza macchia e senza paura”. Come ha detto mirabilmente Gustave Thibon, non bisogna dare credito “ai distruttori delle regole che parlano in nome dell’amore”. Perché “là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce”.




    saluti
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