"Caffè Zibaldone"

...una casa senza libri è una fortezza senza armi...

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    OxxxAQP



    "Nel 1980 - racconta Andrea Camilleri - Livio Garzanti volle pubblicare questo mio romanzo risolvendo le perplessità di alcuni suoi eminenti collaboratori. Mi domandò però, quasi a guardarsi le spalle, un glossario. Comprendendo le sue taciute ragioni, principiai a compilarlo di malavoglia: poi, a poco a poco ci pigliai gusto e me la scialai. Il romanzo viene ora ristampato a distanza di diciassette anni e il glossario, nel frattempo, è diventato superfluo. Se ora lo ripubblichiamo è perché la cosa sottilmente ci diverte. Lo spunto di Un filo di fumo me lo diede un volantino anonimo, trovato tra le carte di mio nonno, che metteva in guardia contro i maneggi di un commerciante di zolfi disonesto. Per il resto, nomi e situazioni sono da addebitare alla mia fantasia. Allora, quando uscì, il romanzo piacque a mia madre: lo dedico alla sua memoria".

    Questo non è Montalbano, ma uno spaccato di vita di un bel po' di tempo fa. L'ironia con cui tratta gli atteggiamenti di facciata della gente invidiosa ed ipocrita è molto acuta. Mi è piaciuto molto.
     
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    CYywvEr



    Impetuoso, lieve, sconvolgente: è il vento che soffia senza requie sulle pendici del Rossarco, leggendaria, enigmatica altura a pochi chilometri dal mar Jonio. Il vento scuote gli olivi secolari e gli arbusti odorosi, ulula nel buio, canta di un antico segreto sepolto e fa danzare le foglie come ricordi dimenticati. Proprio i ricordi condivisi sulla "collina del vento" costituiscono le radici profonde della famiglia Arcuri, che da generazioni considera il Rossarco non solo luogo sacro delle origini, ma anche simbolo di una terra vitale che non si arrende e tempio all'aria aperta di una dirittura etica forte quanto una fede. Così, quando il celebre archeologo trentino Paolo Orsi sale sulla collina alla ricerca della mitica città di Krimisa e la campagna di scavi si tinge di giallo, gli Arcuri cominciano a scontrarsi con l'invidia violenta degli uomini, la prepotenza del latifondista locale e le intimidazioni mafiose. Testimone fin da bambino di questa straordinaria resistenza ai soprusi è Michelangelo Arcuri, che molti anni dopo diventerà il custode della collina e dei suoi inconfessabili segreti. Ma spetterà a Rino, il più giovane degli Arcuri, di onorare una promessa fatta al padre e ricostruire pezzo per pezzo un secolo di storia familiare che s'intreccia con la grande storia d'Italia, dal primo conflitto mondiale agli anni cupi del fascismo, dalla liberazione alla rinascita di un'intera nazione nel sogno di un benessere illusorio.

    Letto un po' di anni fa, me lo aveva prestato una collega. Mi era piaciuto parecchio, come intreccio, ma anche come paesaggi. Chi è frequentatore della Calabria Ionica troverà i luoghi piuttosto familiari. E poi il finale è proprio una sorpresa....
     
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    ... grazie Marina, sei una fonte inesauribile di letture; tutte diverse, tutte interessanti
    un saluto
    Piero e famiglia
     
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    qIyJOFe



    Vincitore Premio Campiello 2017

    Per raccontare gli strappi della vita occorrono parole scabre, schiette. Di quelle parole Donatella Di Pietrantonio conosce il raro incanto. La sua scrittura ha un timbro unico, una grana spigolosa ma piena di luce, capace di governare con delicatezza una storia incandescente.

    «Ero l'Arminuta, la ritornata. Parlavo un'altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza»

    Ci sono romanzi che toccano corde cosí profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con L'Arminuta fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell'altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia cosí questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all'altro perde tutto - una casa confortevole, le amiche piú care, l'affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l'Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo.

    Questo me lo ha suggerito un'amica. A leggere la presentazione ho avuto l'impressione di un libro pesante e lacrimevole, invece cominciato...è finito subito. Scritto molto bene ti coinvolge immediatamente.
    E come Stefi lo ha suggerito a me, io lo suggerisco a voi. Merita, veramente.
     
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    LcjYx2r



    ovvero, un brutto fatto di cronaca a Sestri Ponente



    Sestri Ponente, novembre 1956. La palazzina di via D'Andrade ospita un campionario di umanità molto varia: la coppia di vecchi sposi, l'oste collerico, la sarta laboriosa, la vedova testarda, il giovane di belle speranze, la giovane timorata... Tutti sanno tutto, o quasi, di tutti; alcuni sono amici, altri si sopportano, tutti si danno una mano per affrontare le ristrettezze. E c'è una cosa che unisce indissolubilmente gli abitanti di via D'Andrade: l'odio per la loro padrona di casa, "la" Maria Scartoccio. Ogni cinque del mese fa il giro degli appartamenti per riscuotere gli affitti e alla fine della giornata non c'è uno che si addormenti col sorriso... Così, quando Maria Scartoccio viene trovata morta in casa, vittima di quello che sembra un grottesco incidente, tutta la palazzina tira un enorme respiro di sollievo. Forse, però, non è stato un incidente: per il maresciallo capo Galanti troppi particolari non quadrano.


    Con questo libro vi porto nella mia delegazione, però un po' di tempo fa, nel 1956. Era molto differente da ciò che è diventata oggi, molto pi umana. Ho scritto gialllo, ma veramente leggendolo ho riso, riso tanto.
    Bistolfi ha un bello stile di scrittura, pulito, preciso, belle descrizioni, sembra di vedere le case, la gente, la strada per Borzoli. Direte, grazie, conosci i posti, ricordi i personaggi tipici. No, davvero quando entri nelle pagine, entri nella vecchia Sestri e incontri veramente i "caratteri".

    Di seguito la nota finale dell'autore:

    Talvolta i romanzi nascono da poco, da un dettaglio apparentemente insignificante, un piccolo ricordo più o meno felice che riaffiora all’improvviso. Da quel vago punto di partenza si sviluppano come funghi, crescendo a dismisura, e finiscono per vivere di vita propria.

    Almeno così accade a me.

    Mia nonna materna, dall’altisonante nome di Maria Luigia, abitava in via Sestri (un tempo via Garibaldi), cioè nel salotto buono di Sestri: la via del passeggio, dei bar e dei negozi eleganti. Viveva in un vecchio appartamento le cui stanze si succedevano a cannocchiale, e affacciavano da un lato su via Sestri e dal lato opposto su un cavedio, che sprofondava in mezzo all’isolato come l’occhio di un ciclone, stretto tra via Sestri e via D’Andrade, cioè la Contrada di Mezzo.

    La Contrada di Mezzo e la Contrada della Paglia costituiscono il centro storico di Sestri, e tagliano l’abitato da levante a ponente come una coltellata.

    Oggi non è più così, ma a quel tempo tra la via del passeggio e le vie retrostanti c’era una certa differenza. Bastava imboccare un vicolo per trovarsi nell’altra metà di Sestri, quella popolare, dalle vecchie case scrostate, lungo l’antico tracciato della Via Aurelia
    Case alte e strette come fette di torta, addossate l’una all’altra, sopralzate più volte nei secoli, aggiungendo piani su piani ai possenti muri delle costruzioni medioevali, fino a diventare delle specie di torri, talvolta con le latrine sui terrazzini, e le scale, ripidissime, d’ardesia.

    Nel palazzo della nonna ci abitavano solo donne, tutte anziane, così come negli altri palazzi, le cui cucine si aprivano sul cavedio.

    Ebbene, la vita sociale si svolgeva tutta lì, in quella specie di imbuto sonoro e fiorito dove ben poco riusciva a restare privato. Dove da una finestra all’altra non solo, volendo, si sarebbe potuto sbirciare nelle cucine altrui, ma dove quasi ogni suono, ogni parola diventavano di dominio pubblico. Ed era tale la confidenza tra quelle donne che talvolta qualcuna di loro interveniva spontaneamente nei discorsi dell’altra, senza che nessuno la invitasse o per questo se ne avesse a male. E continuavano a conversare standosene sedute ciascuna al proprio posto, nella loro cucina.

    Ricordo ancora, con sommo divertimento, quando adolescente entravo in casa della nonna salutandola a gran voce: «Ciao nonna, come va?»

    E lei, fulminea, sbarrava gli occhi e si portava il dito davanti alla bocca, intimandomi il silenzio: «Sst! Parla piano».

    «Che succede? È morto qualcuno?»

    «Macché morto! Una lite tremenda...» e col dito indicava eloquentemente il piano di sopra e quello di sotto, alternativamente, senza pronunciare nomi.

    Insomma c’era il coprifuoco: era scoppiata una gazzarra furibonda, magari per la solita radio a tutto volume d’una vicina oppure per il gatto dell’altra, il quale amava depositare i suoi ricordini nei vasi di basilico o di rosmarino. E come la guerra mondiale, il conflitto aveva finito per dilagare e coinvolgere l’intero vicinato.

    La prassi voleva che, una volta cessate le ostilità, le comari, compromesse in interventi, alleanze e tradimenti, per sanare la ferita della guerra fossero tenute alla consegna del silenzio e del bisbiglio, necessari alla venuta della futura pace. Condizione che io, per l’appunto, avevo soprannominato il coprifuoco.

    Di solito la nonna manteneva, rispetto a queste contese, una neutralità di elvetica memoria
    Di solito.

    Non fu così quando il famigerato gatto (un grosso maschio di nome Pippo) decise, chissà perché, di tenderle un agguato mortale. Così mentre la nonna scendeva le scale lui si tuffò dal pianerottolo superiore, atterrandole sulla schiena a unghie sguainate.

    La reazione fu immediata.

    La nonna assestò al bisbetico gatto una pedata talmente precisa ed efficace che da quel momento Pippo le girò alla larga, poi tornò in casa e spalancò la finestra della cucina: le pareti del cortile vibrarono di un comizio così tagliente e ineccepibile, destinato alla padrona del gatto, che non si levò voce alcuna, né di protesta né di solidarietà né tantomeno di difesa. Silenzio di tomba e finestre vuote come orbite di teschi: stavolta Pippo l’aveva combinata grossa.

    La nonna interveniva poco nella pubblica agorà del cavedio, ma quando interveniva lo faceva senza risparmio, e lasciava il segno.

    Così quella volta il coprifuoco durò un’intera settimana.

    Poi, indipendentemente dalla gravità della contesa, un bel giorno la consegna del silenzio veniva a poco a poco violata. Dapprima c’era un saluto da una finestra all’altra, poi un commento sul tempo e, piano piano, la vita riprendeva il suo corso normale.

    Ben presto la padrona del gatto osava di nuovo chiamarlo ad alta voce, e quello rispondeva miagolando timidamente, quasi che nei giorni precedenti si fosse dato alla macchia e ora, chetate le acque, uscisse dalla clandestinità. A quel punto i canestrini ricominciavano a viaggiare tra un piano e l’altro recando merci necessarie, come una tazza di sale, un limone o La domenica del Corriere, e una radio riprendeva a spandere a volume bassissimo le note di una canzonetta. Infine arrivava il momento decisivo, in cui una vicina, magari addirittura la padrona del gatto, si rivolgeva direttamente alla parte offesa, ad esempio la nonna.

    «Luì!» (Luì con l’accento sulla i era l’abbreviativo di Maria Luigia), «Luì, guardate che piove. È meglio che ritiriate le lenzuola!»
    «Ah, grazie, Pina. Non me n’ero accorta.»

    Non occorreva altro: pace fatta e fine del coprifuoco.

    Quando una notte la nonna ebbe un attacco di cuore furono proprio loro, le vicine delle mille liti, a telefonarci, e intorno al letto le ritrovammo tutte, dalla prima all’ultima.

    È partendo da questo ambiente, dagli straordinari e pittoreschi esemplari di umanità che lo popolavano, che ho pensato di costruire la storia di Maria Scartoccio e di tutti i personaggi che le ruotano attorno, prendendo a prestito il luogo, le sembianze e soprattutto il linguaggio di qualche vicina della nonna.

    Perché?

    Perché quella comunanza, quella solidarietà, quel sapere tutto di tutti, che oltre a sfamare la curiosità diventava naturale e fattiva partecipazione, oggigiorno sono scomparsi.

    Perché oggi, spesso, ciò che chiamiamo discrezione è solo indifferenza, che ci consente di ignorare i guai altrui.

    Nessuno era davvero solo in quel cavedio, che sembrava essere il cuore pulsante dell’intero isolato, e metteva insieme la gente di via Sestri con quella della Contrada di Mezzo, dove i gatti andavano e venivano e i piccioni tubavano, dove tutte si accapigliavano per un nonnulla ma erano ugualmente pronte a farsi carico di un vicino malato come fosse stato un parente, e a fare i turni per assisterlo notte e giorno.

    Ecco perché mia madre diceva: «Un buon vicino vale più di cento parenti».

    Chi, come me, queste atmosfere, questi sentimenti semplici ma profondi, questa solidarietà naturale li ha sfiorati in gioventù, e oggigiorno vive nella convulsione di una società spersonalizzata e indifferente, non può che provarne una cocente nostalgia e tentare di farli rivivere nel ricordo, magari scrivendone.

    Questi personaggi, questo linguaggio, questi luoghi, dunque, affiorano dalla mia infanzia e, impegnandosi un poco, forse qualcuno potrebbe perfino individuare l’ubicazione esatta del cavedio.

    Come le signorine Devoto, anche questi personaggi non protesteranno per l’ironia con la quale ho cercato di raccontarli in queste pagine, perché ormai non sono più di questo mondo
    La storia, invece, è interamente inventata e non ha alcuna attinenza con la realtà.

    R.B
     
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    E voi? Non ne avete abbastanza di dover rispondere all"'obbligo della felicità"? Di dover sempre puntare a trarre il meglio da voi stessi? Vorreste piuttosto riuscire a perdonarvi gli errori compiuti, non vivere di rimpianti? Impegnarvi in ciò che vi conviene davvero? Ebbene, se la risposta è sì, siete sulla buona strada, perché questo è il punto di partenza della contentezza permanente, che si oppone con un no deciso alla fugace felicità. Sulla base delle ricerche scientifiche più recenti e autorevoli, richiamando racconti di casi reali, Christina Berndt illustra ciò che distingue la contentezza dalla felicità, cosa accade a livello neurologico e fisiologico, chiarisce le dinamiche psicologiche in gioco e quali sono le influenze genetiche fin qui emerse sul nostro stato di soddisfazione. Vi porterà a scoprire da soli, con test e un programma di esercizi, su cosa vale la pena investire, come acquisire un maggiore distacco da ciò che non serve o assorbe inutili energie, fino ad arrivare a dirsi, finalmente e irrevocabilmente, contenti e soddisfatti!

    Che dire, è interessante e da molti spunti di riflessione. Si può imparare ad essere contenti e conviene!
     
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    a conferma di ciò
    Tre cose occorrono per essere felici: essere imbecilli, essere egoisti e avere una buona salute. Ma se vi manca la prima tutto è finito. Gustave Flaubert
     
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    Beh, un misogino come Flaubert non poteva che essere così sarcastico.
    Avrà avuto l'ulcera, con tutta probabilità, o, quanto meno, la gastrite.
    Qualche altro ha detto
    "se sei saggio, ridi"
     
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    PG Woodhouse ? può essere ? mi pare sia il titolo di un suo libro ...
    si Marina, ridere fa benissimo, ci mancherebbe; ancora oggi con mia moglie ci facevamo i versi sui nostri difetti e abbiamo riso come due scemi per mezzora buona :#rid:
    il probema è però più serio, adesso tutti DEVONO essere felici per diktat ... ma per favore, ha ragione Flaubert :#piac:
    un saluto
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    Ecco, vedi, qui si parla di contentezza non di felicità. Sono cose ben diverse. E te lo spiega.
    E ti dirò, non si può essere sempre felici, ci si morirebbe. (esperimenti fatti con i topi)
     
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    ... presumo che la felicità non esista ma la contentezza e la serenità si ... son difficili da mantenere a lungo ma esistono
    era Woodhouse ?
     
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    Può essere. Era sicuramente una collana di libri umoristici della editrice Bietti
     
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    ... esatto Bietti, dai miei ce ne sono a chili
    https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&es...GJ0Fci8c47L8yak
     
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    Ma si, costavano quattro soldi e facevi il pieno con niente. Devo averne un bel po' in cantina a Genova
     
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    L'autobiografia di un grande navigatore: in oceano tra gli atolli e la foresta alla ricerca di una vita felice

    È l'ultimo libro di uno dei più grandi navigatori di tutti i tempi. Moitessier ripercorre la sua esistenza di grande viaggiatore d'altomare: dall'infanzia trascorsa nel Vietnam, dove apprese l'arte della navigazione a vela, fino alle sue mitiche galoppate su tutti gli oceani del pianeta. Gli exploit: da Tahiti (Polinesia) ad Alicante (Spagna) senza scalo passando per il temibile Capo Horn; da Plymouth (Gran Bretagna) a Tahiti, una volta e mezzo il giro del mondo, senza scalo e in solitario. Ma il messaggio del navigatore, in questo libro, non è nelle sue imprese, al contrario è quello della vela alla portata di tutti, con una barca semplice, essenziale. Nell'appendice tecnica Moitessier spiega anche come scegliere la barca per grandi viaggi, come attrezzarla in modo semplice per vivere a tempo pieno il mare.

    E' molto interessante e si legge benissimo. Il grande Bernad aveva il dono della scrittura accattivante. Purtroppo le sue descrizioni sono talmente serene che danno poco la sensazione del pericolo, quindi alcuni, affascinati dalla figura di questo "zingaro del mare" si sono buttati letteralmente nella navigazione a vela senza averne alcuna nozione e non è che ci si siano trovati proprio bene.
    Per chi invece è persona di mare, la lettura dei libri di questo navigatore risulta piacevole e coinvolgente.
     
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